Enzo Francescoli, da tutti conosciuto con l&rsquo;appellativo di Principe, soprannome affibbiatogli dal giornalista e scrittore uruguagio Victor Hugo Morales. Prima di diventare Principe, il ragazzo di Montevideo veniva sopranominato El Flaco, per via della gracile struttura fisica. In Italia abbiamo poi avuto un altro Principe, Diego Milito. I pi&ugrave; giovani forse non sanno che lo pseudonimo dell&rsquo;attaccante argentino deriva proprio dall'imbarazzante somiglianza con il fuoriclasse uruguaiano. Per rendere l&rsquo;idea della grandezza di Francescoli, basta ricordare che una divinit&agrave; calcistica come Zinedine Zidane ha voluto omaggiare il primogenito con il nome del suo idolo, Enzo. A Zizou, marsigliese classe &lsquo;72, &egrave; bastato ammirare per una sola stagione le danze e le veroniche di Francescoli, che ha vestito la maglia dell&rsquo;OM nel 1989-90. A Marsiglia ha conquistato il titolo e sfiorato la finale di Coppa dei Campioni, arrendendosi solo in semifinale al Benfica di Eriksson, poi sconfitto dal Milan di Sacchi.&nbsp; <h2>Il Mondiale di Italia &rsquo;90 e l&rsquo;inimmaginabile approdo al Cagliari</h2> Le giocate illuminanti sfoggiate nella sua prima stagione europea, unite a quelle con cui ha ammaliato i tifosi del River negli anni precedenti, lo accompagnano a Italia &rsquo;90 con l&rsquo;aura di stella assoluta della Celeste. Una Nazionale che delude le aspettative, vincendo una sola partita nel girone e sbattendo sul muro degli azzurri negli ottavi. Per portarlo a Cagliari &egrave; fondamentale il ruolo del procuratore Paco Casal, presenza fissa all&rsquo;interno del ritiro della nazionale sudamericana durante il Mondiale. L&rsquo;agente, curatore degli interessi di gran parte della rosa, viene accusato dalla stampa di aver distratto i suoi assistiti, al fine di trovar loro sistemazione nel campionato pi&ugrave; ambito al mondo. In passato Francescoli era gi&agrave; stato vicino all&rsquo;approdo nello Stivale: ci avevano provato senza successo il Milan, la Roma, l'Inter e, soprattuto, la Juventus. Impensabile che una squadra reduce da una doppia promozione dalla C alla A potesse acquisatre un campione di tale fama. Il presidente sardo Antonino Orr&ugrave; si trova a Veronello (sede del ritiro della Celeste) per ultimare l&rsquo;acquisto del jolly Pepe Herrera e del giovane talentuoso attaccante Daniel Fonseca. Parte proprio da Casal la pazza idea di portare Francescoli a Cagliari. La trattiva con l&rsquo;OM &egrave; serrata: decisiva risulter&agrave; poi la volont&agrave; del giocatore, attratto dalla Serie A e spinto da una voglia di cambiamento e rivalsa. I tifosi sardi sognano: Francescoli &egrave; gi&agrave; osannato come una divinit&agrave; ancor prima di scendere in campo.&nbsp; <h2>Il curriculum di un campione&nbsp;</h2> Calciatore dalla classe sopraffina in grado di svariare su tutto il fronte d&rsquo;attacco. &Egrave; un 9, &egrave; un 10, &egrave; la rappresentazione della bellezza sul rettangolo verde. Fino all&rsquo;arrivo nel nostro campionato gioca da attaccante puro, segnando valanghe di gol con la maglia del River Plate. Con i Millonarios milita per tre stagioni, vincendo un campionato e due titoli di capocannoniere. Per molti &egrave; ancora inspiegabile il trascorso nel triennio successivo al Racing Club di Parigi, club decaduto e che il magnate Jean-Luc Lagardere, proprietario del colosso Matra, voleva portare al top del calcio francese. Con l'Uruguay si &egrave; gi&agrave; aggiudicato due edizioni della Copa America (&lsquo;83 e &lsquo;87). Doveroso raccontare ci&ograve; che accade nell&rsquo;edizione del 1983, quando El Flaco viene premiato come miglior giocatore del torneo. Nella bolgia del Centenario di Montevideo &ndash; dove va in scena la finale d&rsquo;andata tra Uruguay e Brasile &ndash; gioca una partita leggendaria, impreziosita da un episodio particolare. Al 41&deg; chiude l&rsquo;uno due con un compagno e segna. L&rsquo;arbitro, per&ograve;, inspiegabilmente fischia un fallo della difesa e annulla. Nel chiudere il triangolo con Francescoli, Acosta era stato travolto al limite dell&rsquo;area. Sulla mattonella si presenta Enzo: la sua punizione &egrave; un capolavoro che rende giustizia alla Celeste. "Il soprannome nasce perch&eacute; io canticchiavo sempre il 'tango Principe'. Una volta Enzo segn&ograve; una rete e io ripetei una parte: 'Pr&igrave;ncipe soy, tengo un amor y es el goal'. Quel soprannome gli calzava alla perfezione, perch&eacute; aveva un&rsquo;aria malinconica ma un portamento davvero principesco". Quando sette anni pi&ugrave; tardi approda a Cagliari, El Flaco &egrave; diventato Principe. Giunge in Sardegna dopo una stagione da 11 reti col Marsiglia che fruttano un titolo e, a livello personale, il premio come miglior giocatore della Ligue 1.&nbsp; <h2>Francescoli a Cagliari, un fenomeno al Sant&rsquo;Elia</h2> La prima perla con la nuova maglia &egrave; una classica punizione a scavalcare la barriera, segnata alla terza giornata nella sconfitta sul campo dell&rsquo;Atalanta. Eppure, nonostante le esaltanti premesse, il Cagliari di Ranieri non decolla. Il talento di Francescoli non luccica e la squadra termina il girone d&rsquo;andata relegata ai margini della classifica. &ldquo;Quando sono arrivato non riposavo da quattro anni, ero stanco. Sono arrivato anche a dubitare di me stesso, perch&eacute; la palla mi passava sotto al piede, oppure se provavo a dribblare da un lato il difensore capiva sempre in anticipo le mie intenzioni&rdquo;, inoltre, il Principe aveva saltato gran parte della preparazione: si verr&agrave; poi a sapere che stava giocando con una tibia incrinata. I sardi riescono comunque a salvarsi grazie a un grandissimo girone di ritorno. La stella uruguagia comincia a riacquisire luce, segna tre gol, tra cui uno splendido tiro al volo acrobatico sul campo del Toro. Nella gara d&rsquo;esordio del campionato successivo si rivede, finalmente, il vero Francescoli. Al Sant&rsquo;Elia arriva la Samp scudettata: il Principe pareggia dal dischetto il vantaggio firmato Silas e, prima del 3-2 del connazionale Herrera, regala un capolavoro. Partendo da sinistra supera con un tunnel Mannini e fa girare la sfera sul palo lungo: qui c&rsquo;&egrave; tutto Francescoli. I rossobl&ugrave;, nel frattempo passati nelle mani di Mazzone, chiudono la stagione al 13&deg; posto. L&rsquo;uruguagio entra definitivamente nel cuore dei tifosi. A referto ci sono altri quattro gol &ndash; due magistrali punizioni e due spunti da campione &ndash; oltre alle decine di giocate illuminanti e di corridoi geniali offerti ai compagni. Tutto questo a conferma di quanto in Italia Francescoli abbia arretrato la sua posizione, trasformandosi pi&ugrave; in una mezzapunta, in un trequartista d&rsquo;eccellenza. La terza annata &egrave; indimenticabile, la migliore dal punto di vista delle marcature (7) e dei risultati: il Cagliari di Mazzone centra una storica qualificazione Uefa. Il Principe regala un finale di campionato da fenomeno (5 reti nelle ultime 4). &ldquo;Se il livello che ho avuto l&rsquo;ultima stagione di Cagliari, e di Marsiglia, lo avessi dimostrato con la Juve o il Milan, oggi sarei in Italia quello che sono per i tifosi del River&rdquo;, s&igrave; perch&eacute;, dopo una stagione passata al Torino &ndash; in cui non brilla come a Cagliari &ndash; torna in Argentina per scrivere la storia. <h2>Il sogno di ogni sudamericano&nbsp;</h2> Se nel &lsquo;95 alla conquista del torneo di Apertura e della terza Copa America con l&rsquo;Uruguay fa da contraltare la cocente sconfitta nella semifinale Libertadores, nel &lsquo;96 corona il sogno di ogni calciatore sudamericano. In campionato &egrave; per la terza volta in carriera re dei marcatori, ma l&rsquo;apoteosi &egrave; la Copa Libertadores. Il 26 giugno 1996, tra fumogeni, coriandoli e fuochi d&rsquo;artificio, in un&rsquo;atmosfera da brividi che solo l&rsquo;incandescente pubblico argentino sa offrire, guida da capitano il River alla vittoria. L&rsquo;andata contro l&rsquo;Am&eacute;rica de Cali termina 1-0. Al ritorno il Monumental &egrave; una bolgia insormontabile per i colombiani: una doppietta del giovane Hernan Crespo regala&nbsp;al River Plate la seconda Libertadores della sua storia, a Francescoli la gloria eterna. Il Principe, nato a Montevideo il 12 novembre di 60 anni fa, risulta essere uno dei calciatori pi&ugrave; amati di sempre dai tifosi Millonarios. Oggi ricopre il ruolo ds del club. Una leggenda senza tempo per il River, che ha legato il suo nome a una societ&agrave; italiana come il Cagliari, issandosi per classe e fascino tra i pi&ugrave; rappresentativi anche della squadra sarda, forse secondo solo all&rsquo;inarrivabile Gigi Riva.

        Enzo Francescoli, da tutti conosciuto con l&rsquo;appellativo di Principe, soprannome affibbiatogli dal giornalista e scrittore uruguagio Victor Hugo Morales. Prima di diventare Principe, il ragazzo di Montevideo veniva sopranominato El Flaco, per via della gracile struttura fisica. In Italia abbiamo poi avuto un altro Principe, Diego Milito. I pi&ugrave; giovani forse non sanno che lo pseudonimo dell&rsquo;attaccante argentino deriva proprio dall'imbarazzante somiglianza con il fuoriclasse uruguaiano. Per rendere l&rsquo;idea della grandezza di Francescoli, basta ricordare che una divinit&agrave; calcistica come Zinedine Zidane ha voluto omaggiare il primogenito con il nome del suo idolo, Enzo. A Zizou, marsigliese classe &lsquo;72, &egrave; bastato ammirare per una sola stagione le danze e le veroniche di Francescoli, che ha vestito la maglia dell&rsquo;OM nel 1989-90. A Marsiglia ha conquistato il titolo e sfiorato la finale di Coppa dei Campioni, arrendendosi solo in semifinale al Benfica di Eriksson, poi sconfitto dal Milan di Sacchi.&nbsp; Il Mondiale di Italia &rsquo;90 e l&rsquo;inimmaginabile approdo al Cagliari Le giocate illuminanti sfoggiate nella sua prima stagione europea, unite a quelle con cui ha ammaliato i tifosi del River negli anni precedenti, lo accompagnano a Italia &rsquo;90 con l&rsquo;aura di stella assoluta della Celeste. Una Nazionale che delude le aspettative, vincendo una sola partita nel girone e sbattendo sul muro degli azzurri negli ottavi. Per portarlo a Cagliari &egrave; fondamentale il ruolo del procuratore Paco Casal, presenza fissa all&rsquo;interno del ritiro della nazionale sudamericana durante il Mondiale. L&rsquo;agente, curatore degli interessi di gran parte della rosa, viene accusato dalla stampa di aver distratto i suoi assistiti, al fine di trovar loro sistemazione nel campionato pi&ugrave; ambito al mondo. In passato Francescoli era gi&agrave; stato vicino all&rsquo;approdo nello Stivale: ci avevano provato senza successo il Milan, la Roma, l'Inter e, soprattuto, la Juventus. Impensabile che una squadra reduce da una doppia promozione dalla C alla A potesse acquisatre un campione di tale fama. Il presidente sardo Antonino Orr&ugrave; si trova a Veronello (sede del ritiro della Celeste) per ultimare l&rsquo;acquisto del jolly Pepe Herrera e del giovane talentuoso attaccante Daniel Fonseca. Parte proprio da Casal la pazza idea di portare Francescoli a Cagliari. La trattiva con l&rsquo;OM &egrave; serrata: decisiva risulter&agrave; poi la volont&agrave; del giocatore, attratto dalla Serie A e spinto da una voglia di cambiamento e rivalsa. I tifosi sardi sognano: Francescoli &egrave; gi&agrave; osannato come una divinit&agrave; ancor prima di scendere in campo.&nbsp;  Il curriculum di un campione&nbsp; Calciatore dalla classe sopraffina in grado di svariare su tutto il fronte d&rsquo;attacco. &Egrave; un 9, &egrave; un 10, &egrave; la rappresentazione della bellezza sul rettangolo verde. Fino all&rsquo;arrivo nel nostro campionato gioca da attaccante puro, segnando valanghe di gol con la maglia del River Plate. Con i Millonarios milita per tre stagioni, vincendo un campionato e due titoli di capocannoniere. Per molti &egrave; ancora inspiegabile il trascorso nel triennio successivo al Racing Club di Parigi, club decaduto e che il magnate Jean-Luc Lagardere, proprietario del colosso Matra, voleva portare al top del calcio francese. Con l'Uruguay si &egrave; gi&agrave; aggiudicato due edizioni della Copa America (&lsquo;83 e &lsquo;87). Doveroso raccontare ci&ograve; che accade nell&rsquo;edizione del 1983, quando El Flaco viene premiato come miglior giocatore del torneo. Nella bolgia del Centenario di Montevideo &ndash; dove va in scena la finale d&rsquo;andata tra Uruguay e Brasile &ndash; gioca una partita leggendaria, impreziosita da un episodio particolare. Al 41&deg; chiude l&rsquo;uno due con un compagno e segna. L&rsquo;arbitro, per&ograve;, inspiegabilmente fischia un fallo della difesa e annulla. Nel chiudere il triangolo con Francescoli, Acosta era stato travolto al limite dell&rsquo;area. Sulla mattonella si presenta Enzo: la sua punizione &egrave; un capolavoro che rende giustizia alla Celeste. "Il soprannome nasce perch&eacute; io canticchiavo sempre il 'tango Principe'. Una volta Enzo segn&ograve; una rete e io ripetei una parte: 'Pr&igrave;ncipe soy, tengo un amor y es el goal'. Quel soprannome gli calzava alla perfezione, perch&eacute; aveva un&rsquo;aria malinconica ma un portamento davvero principesco". Quando sette anni pi&ugrave; tardi approda a Cagliari, El Flaco &egrave; diventato Principe. Giunge in Sardegna dopo una stagione da 11 reti col Marsiglia che fruttano un titolo e, a livello personale, il premio come miglior giocatore della Ligue 1.&nbsp; Francescoli a Cagliari, un fenomeno al Sant&rsquo;Elia La prima perla con la nuova maglia &egrave; una classica punizione a scavalcare la barriera, segnata alla terza giornata nella sconfitta sul campo dell&rsquo;Atalanta. Eppure, nonostante le esaltanti premesse, il Cagliari di Ranieri non decolla. Il talento di Francescoli non luccica e la squadra termina il girone d&rsquo;andata relegata ai margini della classifica. &ldquo;Quando sono arrivato non riposavo da quattro anni, ero stanco. Sono arrivato anche a dubitare di me stesso, perch&eacute; la palla mi passava sotto al piede, oppure se provavo a dribblare da un lato il difensore capiva sempre in anticipo le mie intenzioni&rdquo;, inoltre, il Principe aveva saltato gran parte della preparazione: si verr&agrave; poi a sapere che stava giocando con una tibia incrinata. I sardi riescono comunque a salvarsi grazie a un grandissimo girone di ritorno. La stella uruguagia comincia a riacquisire luce, segna tre gol, tra cui uno splendido tiro al volo acrobatico sul campo del Toro. Nella gara d&rsquo;esordio del campionato successivo si rivede, finalmente, il vero Francescoli. Al Sant&rsquo;Elia arriva la Samp scudettata: il Principe pareggia dal dischetto il vantaggio firmato Silas e, prima del 3-2 del connazionale Herrera, regala un capolavoro. Partendo da sinistra supera con un tunnel Mannini e fa girare la sfera sul palo lungo: qui c&rsquo;&egrave; tutto Francescoli. I rossobl&ugrave;, nel frattempo passati nelle mani di Mazzone, chiudono la stagione al 13&deg; posto. L&rsquo;uruguagio entra definitivamente nel cuore dei tifosi. A referto ci sono altri quattro gol &ndash; due magistrali punizioni e due spunti da campione &ndash; oltre alle decine di giocate illuminanti e di corridoi geniali offerti ai compagni. Tutto questo a conferma di quanto in Italia Francescoli abbia arretrato la sua posizione, trasformandosi pi&ugrave; in una mezzapunta, in un trequartista d&rsquo;eccellenza. La terza annata &egrave; indimenticabile, la migliore dal punto di vista delle marcature (7) e dei risultati: il Cagliari di Mazzone centra una storica qualificazione Uefa. Il Principe regala un finale di campionato da fenomeno (5 reti nelle ultime 4). &ldquo;Se il livello che ho avuto l&rsquo;ultima stagione di Cagliari, e di Marsiglia, lo avessi dimostrato con la Juve o il Milan, oggi sarei in Italia quello che sono per i tifosi del River&rdquo;, s&igrave; perch&eacute;, dopo una stagione passata al Torino &ndash; in cui non brilla come a Cagliari &ndash; torna in Argentina per scrivere la storia.  Il sogno di ogni sudamericano&nbsp; Se nel &lsquo;95 alla conquista del torneo di Apertura e della terza Copa America con l&rsquo;Uruguay fa da contraltare la cocente sconfitta nella semifinale Libertadores, nel &lsquo;96 corona il sogno di ogni calciatore sudamericano. In campionato &egrave; per la terza volta in carriera re dei marcatori, ma l&rsquo;apoteosi &egrave; la Copa Libertadores. Il 26 giugno 1996, tra fumogeni, coriandoli e fuochi d&rsquo;artificio, in un&rsquo;atmosfera da brividi che solo l&rsquo;incandescente pubblico argentino sa offrire, guida da capitano il River alla vittoria. L&rsquo;andata contro l&rsquo;Am&eacute;rica de Cali termina 1-0. Al ritorno il Monumental &egrave; una bolgia insormontabile per i colombiani: una doppietta del giovane Hernan Crespo regala&nbsp;al River Plate la seconda Libertadores della sua storia, a Francescoli la gloria eterna. Il Principe, nato a Montevideo il 12 novembre di 60 anni fa, risulta essere uno dei calciatori pi&ugrave; amati di sempre dai tifosi Millonarios. Oggi ricopre il ruolo ds del club. Una leggenda senza tempo per il River, che ha legato il suo nome a una societ&agrave; italiana come il Cagliari, issandosi per classe e fascino tra i pi&ugrave; rappresentativi anche della squadra sarda, forse secondo solo all&rsquo;inarrivabile Gigi Riva.        

Idolo di Zidane che lo ha ammirato a Marsiglia, ha vinto tutto con i Millonarios e fatto innamorare i tifosi rossobl&ugrave;. Un campione di fama mondiale nato a Montevideo il 12 novembre di 60 anni fa

Enzo Francescoli, il Principe uruguagio di River Plate e Cagliari

Compierebbe oggi ottant&rsquo;anni, Omar Sivori, uno dei giocatori pi&ugrave; anarchici e peperini del nostro calcio. Genio ribelle e provocatore, fu il primo Pallone d&rsquo;oro prodotto dalla Serie A, anno 1961. Argentino di San Nicol&aacute;s de los Arroyos , vinse il premio come italiano, essendo ai tempi riservato ai soli giocatori europei e dunque maturato grazie alla seconda nazionalit&agrave;. Gioc&ograve; anche qualche partita nella nostra nazionale, prendendo parte alla sfortunata edizione dei Mondiali cileni del &lsquo;62. Da calciatore, il suo nome &egrave; legato a tre squadre: River Plate, Juventus e Napoli.&nbsp; Con il club di Buenos Aires vinse tre campionati argentini e si impose come uno dei pi&ugrave; forti calciatori del Sudamerica, componendo un quintetto eccezionale con l&rsquo;Albiceleste assieme a Omar Corbatta, Humberto Maschio, Antonio Angelillo e Osvaldo H&eacute;ctor Cruz. I famosi &ldquo;Angeli dalla faccia sporca&rdquo; che vinsero la Copa Am&eacute;rica nel &lsquo;57. Un successo che suggell&ograve; la sua esperienza sudamericana, prima del trasferimento alla Juventus. Con la Signora, segn&ograve; 135 reti in 215 partite, sfondando in tre occasioni il muro dei venti gol e aggiudicandosi nel 1960 la vetta della classifica marcatori. El Cabezon, il testone, in bianconero, form&ograve; una coppia micidiale col gallese John Charles, classico esempio di opposti che si attraggono. Bassetto, spettacolare, dribblomane, tatticamente anarchico, alla ricerca dell&rsquo;umiliazione all&rsquo;avversario e dal carattere litigioso il primo, che somm&ograve; in totale trentatr&eacute; giornate di squalifica (praticamente, un campionato intero!). Alto, grosso, mite e pragmatico il secondo. L&rsquo;immagine che racchiude i due caratteri &egrave; lo schiaffo rifilato davanti a tutti da Charles a Sivori, che stava, come suo solito esagerando, scatenando una rissa in campo. A Torino fu l&rsquo;idolo dei tifosi per otto anni (dal 1957 al 1965). L&rsquo;avvocato Agnelli and&ograve; in visibilio per le sue giocate e lo elesse il suo pupillo, o meglio il suo &ldquo;vizio&rdquo;. Esaurito il periodo bianconero cambi&ograve; aria, dopo tre scudetti e tre Coppe Italia vinte e nel 1965 salp&ograve; a Napoli, anticipando di una ventina d&rsquo;anni il discorso di Maradona - altro genio con le medesime caratteristiche: argentino, mancino, e con il numero 10 sulle spalle. Il suo talento e i suoi calzettoni abbassati segnarono gli anni Cinquanta e Sessanta. Come scrisse il Guerino, per ricordarlo alla sua morte (17 febbraio 2005), Sivori rappresentava, con delle immagini in bianco e nero via via sempre pi&ugrave; sbiadite, &ldquo;il calcio quando era a colori&rdquo;. Giovanni Del Bianco @g_delbianco

Compierebbe oggi ottant&rsquo;anni, Omar Sivori, uno dei giocatori pi&ugrave; anarchici e peperini del nostro calcio. Genio ribelle e provocatore, fu il primo Pallone d&rsquo;oro prodotto dalla Serie A, anno 1961. Argentino di San Nicol&aacute;s de los Arroyos , vinse il premio come italiano, essendo ai tempi riservato ai soli giocatori europei e dunque maturato grazie alla seconda nazionalit&agrave;. Gioc&ograve; anche qualche partita nella nostra nazionale, prendendo parte alla sfortunata edizione dei Mondiali cileni del &lsquo;62. Da calciatore, il suo nome &egrave; legato a tre squadre: River Plate, Juventus e Napoli.&nbsp; Con il club di Buenos Aires vinse tre campionati argentini e si impose come uno dei pi&ugrave; forti calciatori del Sudamerica, componendo un quintetto eccezionale con l&rsquo;Albiceleste assieme a Omar Corbatta, Humberto Maschio, Antonio Angelillo e Osvaldo H&eacute;ctor Cruz. I famosi &ldquo;Angeli dalla faccia sporca&rdquo; che vinsero la Copa Am&eacute;rica nel &lsquo;57. Un successo che suggell&ograve; la sua esperienza sudamericana, prima del trasferimento alla Juventus. Con la Signora, segn&ograve; 135 reti in 215 partite, sfondando in tre occasioni il muro dei venti gol e aggiudicandosi nel 1960 la vetta della classifica marcatori. El Cabezon, il testone, in bianconero, form&ograve; una coppia micidiale col gallese John Charles, classico esempio di opposti che si attraggono. Bassetto, spettacolare, dribblomane, tatticamente anarchico, alla ricerca dell&rsquo;umiliazione all&rsquo;avversario e dal carattere litigioso il primo, che somm&ograve; in totale trentatr&eacute; giornate di squalifica (praticamente, un campionato intero!). Alto, grosso, mite e pragmatico il secondo. L&rsquo;immagine che racchiude i due caratteri &egrave; lo schiaffo rifilato davanti a tutti da Charles a Sivori, che stava, come suo solito esagerando, scatenando una rissa in campo. A Torino fu l&rsquo;idolo dei tifosi per otto anni (dal 1957 al 1965). L&rsquo;avvocato Agnelli and&ograve; in visibilio per le sue giocate e lo elesse il suo pupillo, o meglio il suo &ldquo;vizio&rdquo;. Esaurito il periodo bianconero cambi&ograve; aria, dopo tre scudetti e tre Coppe Italia vinte e nel 1965 salp&ograve; a Napoli, anticipando di una ventina d&rsquo;anni il discorso di Maradona - altro genio con le medesime caratteristiche: argentino, mancino, e con il numero 10 sulle spalle. Il suo talento e i suoi calzettoni abbassati segnarono gli anni Cinquanta e Sessanta. Come scrisse il Guerino, per ricordarlo alla sua morte (17 febbraio 2005), Sivori rappresentava, con delle immagini in bianco e nero via via sempre pi&ugrave; sbiadite, &ldquo;il calcio quando era a colori&rdquo;.  Giovanni Del Bianco @g_delbianco

Omar Sivori, il "vizio" di Gianni Agnelli

Dopo diciannove anni i Millonarios tornano sul tetto del calcio sudamericano. Quello del 1996 era il River di Crespo e Ortega, di Aimar e Almeyda. Questa invece &egrave; la squadra di Cavenaghi e Kranevitter, Funes Mori e Alario. Il filo conduttore ha un nome e un cognome: Marcelo Gallardo. Era in campo in quel River Plate-Am&egrave;rica de Cali 2-0 del 26 giugno 1996 ed &egrave; stato il magistrale architetto di questa squadra rampante e garibaldina. Eduardo Galeano, una tra le pi&ugrave; alte espressioni della letteratura sudamericana, scrisse che &ldquo;il calcio &egrave; l&rsquo;arte degli imprevisti&rdquo;. Se ne &egrave; andato &ndash; purtroppo - troppo presto, ma quelle parole dimostrano, per l&rsquo;ennesima volta, come il suo pensiero fosse avanti anni luce. Perch&eacute; questo trionfo dalle sfumature romantiche non nasce per caso ma ha origini precise e definite. &Egrave; il 26 giugno 2011 (s&igrave;, sempre lo stesso giorno&hellip;) quando il River, per la prima volta nella sua storia, retrocede nella Primera B Nacional. Uno smacco per i Millonarios, la storica espressione della borghesia di Buenos Aires, confinati alla periferia dell&rsquo;impero calcistico argentino. Ma &egrave; proprio qui che (ri)parte la scalata del River al calcio sudamericano. Dalla rinascita sotto la guida di Almeyda, passando per il trionfo in Primera Division targato Ramon Diaz fino a questo capolavoro firmato Marcelo Gallardo, ma sempre con un denominatore comune: l&rsquo;esaltazione dei giovani talenti come base filosofica unita (perch&eacute; no?) anche all&rsquo;esigenza economica. L&rsquo;orgoglio ferito della nobile decaduta miscelata alla sfrontatezza talentuosa della rosa a disposizione di Gallardo ha cos&igrave; generato la squadra pi&ugrave; spettacolare del calcio sudamericano, pura estasi per gli esegeti del gioco. La partita giocata nella scorsa notte ha certificato, se ce ne fosse ancora bisogno, questa poderosa rinascita. Un 3-0 ai danni dei messicani del Tigres (dopo il pareggio dell&rsquo;andata a reti inviolate) che pone una pietra miliare nella storia del calcio sudamericano, non solo argentino. Un risultato tutt&rsquo;altro che scontato, alla luce del valore di un avversario in netta ascesa nelle gerarchie del calcio d&rsquo;oltreoceano in virt&ugrave; anche di un potere economico che ha permesso l&rsquo;ingaggio di Gignac dall&rsquo;Olympique Marseille e la costruzione di una squadra dal talento e dalla profondit&agrave; invidiabili. Ma le reti di Alario,&nbsp; Funes Mori e il rigore siglato Sanchez con cui i Millonarios si sono aggiudicati l&rsquo;edizione numero 56 della Libertadores dimostrano che questo sport, talvolta crudele e beffardo, &egrave; in grado di scrivere delle storie dai contorni cinematografici. Adesso perci&ograve; &egrave; tempo di festa e celebrazioni allo stadio Monumental e in quello spicchio di Buenos Aires che batte cuore River: i Millonarios sono tornati. &iexcl;Felicitaciones River! Stefano Sulis

Dopo diciannove anni i Millonarios tornano sul tetto del calcio sudamericano. Quello del 1996 era il River di Crespo e Ortega, di Aimar e Almeyda. Questa invece &egrave; la squadra di Cavenaghi e Kranevitter, Funes Mori e Alario. Il filo conduttore ha un nome e un cognome: Marcelo Gallardo. Era in campo in quel River Plate-Am&egrave;rica de Cali 2-0 del 26 giugno 1996 ed &egrave; stato il magistrale architetto di questa squadra rampante e garibaldina. Eduardo Galeano, una tra le pi&ugrave; alte espressioni della letteratura sudamericana, scrisse che &ldquo;il calcio &egrave; l&rsquo;arte degli imprevisti&rdquo;. Se ne &egrave; andato &ndash; purtroppo - troppo presto, ma quelle parole dimostrano, per l&rsquo;ennesima volta, come il suo pensiero fosse avanti anni luce. Perch&eacute; questo trionfo dalle sfumature romantiche non nasce per caso ma ha origini precise e definite. &Egrave; il 26 giugno 2011 (s&igrave;, sempre lo stesso giorno&hellip;) quando il River, per la prima volta nella sua storia, retrocede nella Primera B Nacional. Uno smacco per i Millonarios, la storica espressione della borghesia di Buenos Aires, confinati alla periferia dell&rsquo;impero calcistico argentino. Ma &egrave; proprio qui che (ri)parte la scalata del River al calcio sudamericano. Dalla rinascita sotto la guida di Almeyda, passando per il trionfo in Primera Division targato Ramon Diaz fino a questo capolavoro firmato Marcelo Gallardo, ma sempre con un denominatore comune: l&rsquo;esaltazione dei giovani talenti come base filosofica unita (perch&eacute; no?) anche all&rsquo;esigenza economica. L&rsquo;orgoglio ferito della nobile decaduta miscelata alla sfrontatezza talentuosa della rosa a disposizione di Gallardo ha cos&igrave; generato la squadra pi&ugrave; spettacolare del calcio sudamericano, pura estasi per gli esegeti del gioco. La partita giocata nella scorsa notte ha certificato, se ce ne fosse ancora bisogno, questa poderosa rinascita. Un 3-0 ai danni dei messicani del Tigres (dopo il pareggio dell&rsquo;andata a reti inviolate) che pone una pietra miliare nella storia del calcio sudamericano, non solo argentino. Un risultato tutt&rsquo;altro che scontato, alla luce del valore di un avversario in netta ascesa nelle gerarchie del calcio d&rsquo;oltreoceano in virt&ugrave; anche di un potere economico che ha permesso l&rsquo;ingaggio di Gignac dall&rsquo;Olympique Marseille e la costruzione di una squadra dal talento e dalla profondit&agrave; invidiabili. Ma le reti di Alario,&nbsp; Funes Mori e il rigore siglato Sanchez con cui i Millonarios si sono aggiudicati l&rsquo;edizione numero 56 della Libertadores dimostrano che questo sport, talvolta crudele e beffardo, &egrave; in grado di scrivere delle storie dai contorni cinematografici. Adesso perci&ograve; &egrave; tempo di festa e celebrazioni allo stadio Monumental e in quello spicchio di Buenos Aires che batte cuore River: i Millonarios sono tornati. &iexcl;Felicitaciones River!  Stefano Sulis

Copa Libertadores, la grande parabola del River Plate

L'aggressione ai giocatori del River Plate alla Bombonera, poco prima che riprendesse il secondo tempo della partita con il Boca Juniors, &egrave; stata qualcosa di vergognoso anche per gli standard sudamericani. Lo spray urticante spruzzato dai tifosi del Boca (non con bombolette, ma attraverso una mini-bomba gettata nel tunnel) addosso ai giocatori avversari che stavano rientrando in campo ha portato prima alla sospensione temporanea della partita, nella confusione generale e con gli insistenti tentativi di dirigenti e giocatori del Boca di farla riprendere (e parole pesanti dell'allenatore del Boca, Arruabarrena, con il presidente del River, D'Onofrio), poi a quella definitiva. Il tutto con giustificazioni agonistiche che si sarebbero potute utilizzare in un milione di altre occasioni: la partita era sullo zero a zero, dopo l'uno a zero dell'andata per la squadra di Gallardo, e non era stata pi&ugrave; fallosa o tesa rispetto alla media del SuperClasico. Ustioni di primo grado per quattro giocatori (Ponzio, Funes Mori, Vangioni e Kranevitter) e spavento per tutti gli altri, che hanno fatto passare in secondo piano i lanci di bottiglie e sassi da parte di molti tifosi del Boca e l'assedio al pullman del River all'uscita. Con il tocco del classe del drone targato Boca, con la scritta 'B' a ricordare al River la sua fresca esperienza nella categoria inferiore. Sicure la sconfitta a tavolino per il Boca e la sua squalifica, per lungo tempo, dalla Copa Libertadores (erano gli ottavi di finale), probabile che quelli del River abbiano fatto un po' di scena oltre quella giustificabile, sicurissimi gli editoriali del genere 'Bisogna chiudere gli stadi' o 'Modello NBA'. Peccato che il calcio senza tifosi non abbia semplicemente ragione di esistere, vista la sua modestia come spettacolo e i suoi scarsi contenuti tattici (basta aver sentito una volta le discussioni private fra due grandi allenatori) e atletici rispetto ad altro sport. Ma la cosa pi&ugrave; importante &egrave; che l'invasato che nel suo salotto rovescia gli spaghetti addosso alla moglie, per non dire di peggio, quando un rigore viene negato alla sua squadra, &egrave; soltanto la versione addomesticata e vile dell'altro invasato che tira le bombe. Sono situazioni che non si prestano a prese di posizione talebane, il calcio &egrave; socialmente importante e i suoi sottoprodotti negativi (ce ne sono tanti anche positivi) vanno gestiti senza lasciarsi prendere dall'emotivit&agrave; del momento. Anche perch&eacute; qui non &egrave; morto nessuno. Punire i responsabili dei crimini sarebbe gi&agrave; un primo passo, che renderebbe inutile chiudere curve e mettere bollini negativi a un'intera tifoseria. Anche se, onestamente, la madre di tutte le argomentazioni &egrave; una semplice domanda: come sarebbe, senza calcio, la vita dei tifosi di calcio? Twitter @StefanoOlivari

L'aggressione ai giocatori del River Plate alla Bombonera, poco prima che riprendesse il secondo tempo della partita con il Boca Juniors, &egrave; stata qualcosa di vergognoso anche per gli standard sudamericani. Lo spray urticante spruzzato dai tifosi del Boca (non con bombolette, ma attraverso una mini-bomba gettata nel tunnel) addosso ai giocatori avversari che stavano rientrando in campo ha portato prima alla sospensione temporanea della partita, nella confusione generale e con gli insistenti tentativi di dirigenti e giocatori del Boca di farla riprendere (e parole pesanti dell'allenatore del Boca, Arruabarrena, con il presidente del River, D'Onofrio), poi a quella definitiva. Il tutto con giustificazioni agonistiche che si sarebbero potute utilizzare in un milione di altre occasioni: la partita era sullo zero a zero, dopo l'uno a zero dell'andata per la squadra di Gallardo, e non era stata pi&ugrave; fallosa o tesa rispetto alla media del SuperClasico. Ustioni di primo grado per quattro giocatori (Ponzio, Funes Mori, Vangioni e Kranevitter) e spavento per tutti gli altri, che hanno fatto passare in secondo piano i lanci di bottiglie e sassi da parte di molti tifosi del Boca e l'assedio al pullman del River all'uscita. Con il tocco del classe del drone targato Boca, con la scritta 'B' a ricordare al River la sua fresca esperienza nella categoria inferiore. Sicure la sconfitta a tavolino per il Boca e la sua squalifica, per lungo tempo, dalla Copa Libertadores (erano gli ottavi di finale), probabile che quelli del River abbiano fatto un po' di scena oltre quella giustificabile, sicurissimi gli editoriali del genere 'Bisogna chiudere gli stadi' o 'Modello NBA'. Peccato che il calcio senza tifosi non abbia semplicemente ragione di esistere, vista la sua modestia come spettacolo e i suoi scarsi contenuti tattici (basta aver sentito una volta le discussioni private fra due grandi allenatori) e atletici rispetto ad altro sport. Ma la cosa pi&ugrave; importante &egrave; che l'invasato che nel suo salotto rovescia gli spaghetti addosso alla moglie, per non dire di peggio, quando un rigore viene negato alla sua squadra, &egrave; soltanto la versione addomesticata e vile dell'altro invasato che tira le bombe. Sono situazioni che non si prestano a prese di posizione talebane, il calcio &egrave; socialmente importante e i suoi sottoprodotti negativi (ce ne sono tanti anche positivi) vanno gestiti senza lasciarsi prendere dall'emotivit&agrave; del momento. Anche perch&eacute; qui non &egrave; morto nessuno. Punire i responsabili dei crimini sarebbe gi&agrave; un primo passo, che renderebbe inutile chiudere curve e mettere bollini negativi a un'intera tifoseria. Anche se, onestamente, la madre di tutte le argomentazioni &egrave; una semplice domanda: come sarebbe, senza calcio, la vita dei tifosi di calcio?  Twitter @StefanoOlivari

Boca-River &egrave; il calcio

Fabrizio Bertuzzi commenta cos&igrave; il nuovo talento argentino Manuel Lanzini "la joya" del River Plate: " Due o tre anni fa si parlava di Manuel Lanzini soprannominato dal suoi tifosi "la joya", il gioiello del River Plate, come uno dei pi&ugrave; grandi talenti del mondo. Lanzini &egrave; un trequartista destro classico che lo scorso anno ha giocato in prestito con diritto di riscatto per 12 milioni in Brasile al Fluminense ma il giocatore non convinse la dirigenza brasiliana e fu rimandato al mittente. Ma in questa stagione Manuel Lanzini nel suo River Plate sta dimostrando tutto il suo valore, essendo un giocatore esile e leggero fa della qualit&agrave; la sua caratteristica vincente. Lanzini possiede una buona capacit&agrave; tattica, un ottimo dribbling in corsa e un tiro potente e preciso. Il mistero di Manuel &egrave; l'aspetto caratteriale poich&egrave; si estranea a volte dal gioco per poi per&ograve; avere dei momenti in cui gira a mille con giocate di altissima&nbsp;qualit&agrave;. Sembra che qualche squadra italiana sia molto interessata a questo trequartista destro raffinatissimo, che potrebbe essere un valore aggiunto per la spettacolarit&agrave; del nostro campionato".  http://www.youtube.com/watch?v=w3CYnJBht9o  Numeri di alta scuola per Manuel  http://www.youtube.com/watch?v=eS5WslUzNf0 

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