        Estate, tempo di calciomercato. Flusso di voci ininterrotto che surfeggia su indiscrezioni filtrate da dirigenti compiacenti o procuratori alla ricerca del modo migliore per fare affari, amici di questo o quel giocatore che girano soffiate. Tutti alla ricerca di un colpo che possa soddisfare i club (venditori e acquirenti), gli agenti, i calciatori e i tifosi. In questo tourbillon di attese che solleticano fantasia e aspettative, ci sono anche giocatori che agli accordi presi da altri decidono di non sottostare. Oggi, in tempi nei quali la sentenza Bosman gli ha dato pieno potere, una via pi&ugrave; semplice da seguire. Ma anche in passato, quando gli assi della pedata non potevano proferire parola sugli accordi che i presidenti prendevano tra loro, c&rsquo;era chi riusciva a dire no. Eccezioni, scelte controcorrente, mosche bianche dal carattere poco propenso a rinunciare alle proprie inclinazioni. Decisioni che, nel crocevia dove convergono carriera, interessi e sentimenti, si orientavano nella direzione meno battuta. I no di Gigi Riva&nbsp; Come quella che pi&ugrave; di una volta intraprese Gigi Riva, campione simbolo del Cagliari dello scudetto, che negli anni Settanta resistette alle sirene che venivano dalla terraferma. Dopo aver accettato controvoglia il trasferimento in Sardegna, Rombo di Tuono di quell&rsquo;isola divenne simbolo. Ogni estate le big del nord, soprattutto la Juventus, facendo leva sulle loro capacit&agrave; economiche, a turno avanzavano offerte per provare a strappare l&rsquo;attaccante di Leggiuno da quello che era diventato il suo habitat naturale, affidandosi al potere ipnotico del denaro. Riva, per&ograve;, conosceva l&rsquo;aridit&agrave; di una vita senza sentimenti. Quelli che, in Sardegna, la gente gli aveva riconosciuto senza parsimonia. Fu evidente nel 1973, quando la Juventus, per ingaggiarlo, propose ai rossobl&ugrave; 400 milioni di lire oltre al trasferimento di quattro giocatori di primo livello: Bettega, Gentile, Cuccureddu e Musiello. Un&rsquo;operazione dal valore complessivo di 2 miliardi e 300 milioni di lire. Una follia che sollev&ograve; tumulti di piazza quando il passaggio di Riva alla corte degli Agnelli sembr&ograve; in dirittura d&rsquo;arrivo. Minacce di bombe e di attentati e l&rsquo;eventualit&agrave; del rapimento del presidente cagliaritano Arrica dissuasero la Juventus dall&rsquo;andare avanti in quella trattativa diventata impossibile anche per la posizione assunta dallo stesso Riva che, deluso dalla societ&agrave; che aveva portato avanti la negoziazione senza interpellarlo direttamente, si era sentito trattato come un oggetto. Fu il suo rifiuto finale, definitivo, quello che lo radic&ograve; per sempre a quella che era diventata la sua terra. &nbsp; &nbsp; Calciomercato: il gran rifiuto di Riva alla Juve Il tentativo di Virdis Quattro anni pi&ugrave; tardi le negoziazioni tra Cagliari e Juventus si rinnovarono per un altro attaccante: Pietro Paolo Virdis. Anch&rsquo;egli, come Riva, si dimostr&ograve; completamente refrattario all&rsquo;idea del trasferimento a Torino, cosa data per fatta dai giornali dopo che varie fonti avevano dato per ultimato l&rsquo;accordo tra le societ&agrave;. Sembrava tutto fatto fino a quando Virdis trov&ograve; la forza di manifestare la sua opposizione a quell&rsquo;intesa. Apriti cielo: Gianni Agnelli, uomo non avvezzo a raccogliere dinieghi, soprattutto se provenienti da un ragazzo di vent&rsquo;anni al quale si stava prospettando un futuro radioso, and&ograve; su tutte le furie. Ma perch&eacute; Virdis non voleva andare a Torino? Una domanda alla quale rispose a mente fredda una volta ritiratosi: &rdquo;Non volevo lasciare la Sardegna. Poi quell'anno avevamo perso gli spareggi per salire in Serie A, e non me la sentivo di lasciare il Cagliari in B". Parole quasi struggenti se confrontate alle cronache di oggi, dove qualunque scelta sembra indirizzata solo da guadagno e carriera. Alla fine prevalse la ragion di stato e Virdis, obtorto collo, cambi&ograve; maglia. Ma dimostr&ograve; che dietro al portafoglio un cuore ce l&rsquo;aveva.  Il &ldquo;gran rifiuto&rdquo; di Pablito Nel 1979 il &ldquo;gran rifiuto&rdquo; del calciomercato estivo tocc&ograve; a Paolo Rossi farlo. Reduce dalla fallimentare stagione che aveva visto retrocedere il suo Lanerossi Vicenza (nonostante i 15 gol messi a referto) Pablito doveva essere venduto. Si fece sotto il Napoli, i giornali dettero la notizia del trasferimento. Ma nessuno aveva fatto i conti con la sensibilit&agrave; del centravanti esploso dodici mesi prima nel Mondiale argentino. Napoli significava un mondo di attenzioni e aspettative che lui, timido e riservato, non si sentiva in grado di sostenere. &ldquo;Per me viene prima la vita e poi la professione -&nbsp;dichiar&ograve; -. Che vengo a fare a Napoli, il salvatore della patria? Con la gente che mi compra le sigarette e dorme per strada sotto casa mia, per vegliarmi: sono molto cari, ma non sono la persona giusta&rdquo;. Parole che, lette oggi, portano il peso dei loro anni. Anni nei quali, oltre al denaro, qualche giocatore aveva anche altri pensieri da coltivare.  Massimo Briaschi: "Lazio? No, grazie" Nel 1984 uno dei grandi affari del calciomercato sembrava essere quello che Giorgio Chinaglia, presidente della Lazio, stava per chiudere con la Juventus: il passaggio dei gioielli biancocelesti Giordano e Manfredonia in bianconero. Operazione dolorosa ma necessaria per sanare le casse esauste della societ&agrave;, i cui proventi sarebbero stati in parte reinvestiti per costruire la nuova squadra. In questo accordo rientrava Massimo Briaschi, attaccante del Genoa molto gradito alla Lazio. La Juve lo acquist&ograve; per girarlo ai capitolini, senza considerare che l&rsquo;attaccante veneto, compagno di Pablito ai tempi del Vicenza, a Roma non ci voleva proprio andare. Dopo anni passati in club di bassa classifica, Briaschi voleva giocarsi le sue chance di competere ad alti livelli. Chinaglia le prov&ograve; tutte per convincerlo: offr&igrave; un contratto triennale molto remunerativo (all&rsquo;epoca si parl&ograve; di circa un miliardo di lire) e noleggi&ograve; uno yacht nel Golfo di Napoli sul quale poterlo incontrare. Ma, complice anche il fallimento della trattativa che avrebbe dovuto portare Giordano e Manfredonia a Torino, non ci fu nulla da fare. Briaschi rimase alla Juventus e, nei tre anni di permanenza in bianconero, si tolse lo sfizio di vincere, tra l&rsquo;altro, scudetto e Coppa dei Campioni. Le scelte di Toldo, Rui Costa e Zanetti Nel 2001 anche la Fiorentina si trov&ograve; nella necessit&agrave; di sistemare il bilancio attraverso la vendita dei suoi migliori giocatori. La propriet&agrave; aveva trovato l&rsquo;accordo col Parma per vendere Toldo e Rui Costa alla considerevole cifra di 140 miliardi di lire. I due, per&ograve;, non vollero andare ai ducali, preferendo sistemarsi sulle due sponde dei Navigli: Toldo scelse l&rsquo;Inter e il portoghese il Milan, nonostante il ricavato complessivo delle transazioni fosse inferiore rispetto a quanto era disposto a pagare il Parma. Ormai la sentenza Bosman dava ai calciatori un potere praticamente assoluto. Durante quell&rsquo;estate dest&ograve; una certa sorpresa anche il no che Javier Zanetti disse al Real Madrid: un trasferimento che sembrava fatto ma che alla fine si blocc&ograve; davanti alla volont&agrave; del giocatore, la cui famiglia si era ambientata molto bene a Milano e non aveva voglia di cambiare aria. L'argentino fin&igrave; la sua carriera all&rsquo;Inter indossandone la maglia per altri tredici anni prima di entrare nei quadri direttivi della societ&agrave;.  Di Natale, niente Juventus Altra scelta controcorrente fu quella di Antonio Di Natale che nel 2010, dopo sei anni passati a Udine e decine di gol (29 in campionato solo nella stagione appena ultimata), sembrava avviato a spiccare finalmente il volo verso un top club come la Juventus, alla ricerca di nuovi uomini coi quali inseguire i successi perduti dopo il deludente settimo posto conseguito nel precedente campionato. Quando le firme sembravano solo una formalit&agrave;, Di Natale si tir&ograve; indietro, convinto dalle pressioni della piazza e dalle preferenze espresse dalla famiglia, che a Udine si trovava bene e non intendeva trasferirsi. Di Natale finir&agrave; la carriera a Udine giocandovi fino al 2016. Il doppio slalom di Berbatov A chiusura di questa piccola antologia merita di essere ricordato un caso probabilmente unico, quello del quale si rese protagonista Dimitar Berbatov, che a poche ore dalla chiusura del calciomercato 2012 aveva preso un aereo per andare a firmare con la Fiorentina, che per&ograve; non lo vide mai arrivare in sede. Forse perch&eacute; Marotta, AD della Juventus, dichiar&ograve; di aver raggiunto un accordo con l&rsquo;attaccante. In realt&agrave; verr&agrave; beffato anche lui, perch&eacute; alla fine Berbatov firmer&agrave; per gli inglesi del Fulham. Una delle vicende pi&ugrave; spericolate da cogliere nello scenario del calciomercato, mai banale e spesso prodigo di racconti ai limiti dell&rsquo;inverosimile.       

Da Pietro Paolo Virdis a Massimo Briaschi fino ad arrivare a Javier Zanetti e Antonio Di Natale: i casi in cui, anche prima della sentenza Bosman, i calciatori si sono opposti ai trasferimenti

Calciomercato, da Gigi Riva a Paolo Rossi: c'è chi dice no

        Il Brasile &egrave; il calcio. Pochi Paesi, forse nessuno, collegano con immediatezza il loro nome allo sport pi&ugrave; seguito al mondo come quello sudamericano, che di un gioco inventato da un popolo europeo ha saputo dare una declinazione neolatina che lo ha reso uno spettacolo radicalmente diverso rispetto alla sua matrice originaria. La Sele&ccedil;&atilde;o di Tel&ecirc; Santana arrivata in Spagna nel 1982 &egrave; una delle rappresentative che nella storia del Brasile ha saputo dar meglio forma a questa trasformazione. Sciorina un gioco che sa di musica, modellato sul ritmo del samba che la sua fedele torcida balla ovunque: dalle strade che percorre in avvicinamento allo stadio fin dentro all&rsquo;impianto stesso dove i verdeoro si esibiscono. S&igrave;, di esibizione bisogna parlare: perch&eacute; il Brasile del 1982 quando scende in campo esprime un gioco che si eleva con naturalezza alle soglie dell&rsquo;empireo. Il pallone viaggia tra le morbide carezze che gli regalano i tocchi raffinati di umani che hanno i piedi con la sensibilit&agrave; delle mani. &Egrave; un percorso armonioso, con poche interruzioni, improvvisamente accelerato solo dalla necessit&agrave; di raggiungere la meta. Umani che sembrano non faticare nel gestire a piacimento le rotazioni di una sfera che disegna parabole e iperboli, linee rette o arcuate, segmenti brevi o bisettrici. Undici titolari che solo un capriccio della storia non consacrer&agrave; alla liturgia del calcio: Valdir Peres, tra i migliori portieri brasiliani degli anni Settanta; Leandro a destra, in costante appoggio laterale alla manovra della squadra; Luizinho e Oscar a presidiare la difesa; J&uacute;nior (si, proprio lui: Leovegildo Lins da Gama J&uacute;nior, che nella testa e nelle gambe ha gli spazi del centrocampo) spostato sulla sinistra per via dell&rsquo;opulenza di quella squadra; Falc&atilde;o, Cerezo e Socrates a ricamare nelle zone centrali del campo con passo, tecnica e illuminazioni geniali; Eder che corre sulla fascia sinistra cercando il tiro dalla distanza; Zico a raccontare il calcio sulla trequarti e Serginho che prova ad approfittare di quello che accade davanti al portiere avversario.  Italia-Brasile, cronaca di un miracolo sportivo Quando, il 5 luglio del 1982, l&rsquo;Italia di Bearzot deve affrontare questa aristocrazia calcistica, l&rsquo;atmosfera che circonda la Nazionale non ha pi&ugrave; i toni plumbei che l&rsquo;avevano accompagnata alla vigilia del match precedente con l&rsquo;Argentina. La vittoria contro i campioni del mondo uscenti (termine appropriato dopo la sconfitta rimediata da Maradona e compagni anche nella partita col Brasile, nella quale il Pibe esce di scena senza gloria in seguito a un&rsquo;espulsione comminatagli per un brutto fallo su Batista) ha riacceso un entusiasmo sopito da tempo che i pi&ugrave;, per&ograve;, immaginano passeggero. Perch&eacute; la squadra si &egrave; risvegliata, ha mostrato carattere e gioco: ma quel Brasile appare lontano anni luce dalla disponibilit&agrave; tecnica di una Nazionale che non sembra in grado di potersi imporre a quei sacerdoti del pallone. Per superare il mini girone che porta in semifinale, gli azzurri hanno solo un risultato disponibile: la vittoria, per via di una differenza reti che premia i verdeoro. Ma come pu&ograve; una squadra appena riemersa da un tunnel di grigiore agonistico pensare di battere quel Brasile? Nessuno riesce davvero a crederci sul serio: i pessimisti auspicano una sconfitta con uno scarto ridotto, gli scaramantici incrociano le dita. I pi&ugrave; ottimisti mirano a un pareggio dignitoso, che ci permetta di uscire con onore dal mondiale, imbattuti anche contro la squadra che lo vincer&agrave;. &Egrave; ancora tanto il timore che si annida nel petto non solo di chi ha fatto un lungo viaggio per arrivare al Sarri&agrave; ma anche dei milioni di italiani che, gi&agrave; in vacanza o scappati anzitempo dagli impegni di lavoro, alle 17.15 di un torrido pomeriggio estivo non sanno che stanno per vivere uno dei momenti pi&ugrave; epici della storia dell&rsquo;Italia. Bearzot, che insieme ai suoi ragazzi &egrave; probabilmente l&rsquo;unico a pensare che ci sia un modo per vincere la partita, mette in campo gli stessi undici che hanno steso l&rsquo;Argentina. &Egrave; difficile capire le sue emozioni nonostante le continue inquadrature della televisione, che lo riprendono elegantissimo con l&rsquo;abito ufficiale della Federazione (giacca chiara, camicia azzurra e cravatta blu). Uno sguardo che trasuda concentrazione, forse tensione: certamente non paura. Perch&eacute; il Vecio sa di calcio, le vittorie e le sconfitte le ha conosciute dapprima in campo e poi in panchina ed &egrave; consapevole che gli invincibili non esistono. Lo ha sicuramente detto ai suoi ragazzi, li ha caricati a dovere con qualche frase ad effetto, ricordandogli che lui in loro ci ha sempre creduto, anche quando tutto il mondo gli urlava contro rabbia, disprezzo e ingiurie.  Quella partita, che vista da fuori sembra una montagna troppo alta da scalare, diventa il pertugio stretto nel quale inserirsi per afferrare lo scalpo della gloria. E quei ragazzi, da come sono scesi in campo, sembra che in quel pertugio abbiano tutte le intenzioni di passare, perch&eacute; gi&agrave; al quinto minuto, su un lungo cross dalla sinistra di Cabrini, Paolo Rossi sfugge alle marcature e segna di testa incrociando sul secondo palo. &Egrave; un&rsquo;esplosione di gioia e adrenalina che dura sette minuti, il tempo necessario al Brasile per riprendere possesso del gioco e spingere al gol Socrates, preciso nell&rsquo;infilare Zoff da pochi metri sul primo palo dopo un bell&rsquo;assist in verticale di Zico.  Ecco, adesso i brasiliani ci travolgeranno: lo pensano in molti. Non i giocatori con la maglia col tricolore sul petto, che di quello che si dice all&rsquo;esterno hanno imparato a non preoccuparsi. Loro continuano a giocare attenti, ad essere proiettati sulle proprie forze e sugli errori degli avversari. Come quello che commette Cerezo quando effettua un passaggio orizzontale indeciso sul quale Rossi si avventa lucido: scatto in verticale di pochi metri fino al limite dell&rsquo;area e poi un tiro forte, a spaccare la porta e le inquietudini che lo avevano tormentato negli ultimi due anni. Arriva l&rsquo;intervallo, l&rsquo;Italia vince 2-1. Ma pu&ograve; durare?  Nella ripresa i verdeoro spingono sull&rsquo;acceleratore: hanno capito che quella partita non &egrave; semplice, che per arrivare almeno al pareggio &egrave; necessario dare tutto. Lo sa bene Falc&atilde;o, che in Italia gioca da due anni e conosce bene il nostro calcio, la nostra mentalit&agrave; orientata al risultato, il tatticismo esasperato che inaridisce fantasia e ispirazione di qualsiasi avversario. Forse non &egrave; un caso che sia lui, al 68&rsquo;, a realizzare il gol del pareggio, dopo aver fintato il passaggio in appoggio sull&rsquo;accorrente Cerezo che disorienta i nostri difensori e gli consente di avere il tempo per aggiustare al meglio il pallone sul sinistro col quale esplode un diagonale violento e preciso alla destra di Zoff, che non pu&ograve; far altro che osservare la traiettoria del Tango che entra in rete. Per il Brasile sarebbe sufficiente il 2-2 per passare. Ma non &egrave; questo il loro stile, la loro mentalit&agrave;, il loro modo di vivere il Mondiale. Con quella squadra bisogna attaccare ancora per cercare la vittoria. Per gli azzurri, per&ograve;, continuare a crederci costa solo la necessit&agrave; di tener lontana la fatica dal cervello. Cos&igrave;, quando al 74&rsquo; Rossi intercetta un tiro mal riuscito di Tardelli dal limite dell&rsquo;area e insacca da pochi metri il gol del 3-2, l&rsquo;esultanza pi&ugrave; sfrenata torna a irrorare i corpi accaldati di tutti gli italiani: quelli in campo, quelli sugli spalti e coloro che stanno seguendo la partita in televisione.  Per tutti c&rsquo;&egrave; un quarto d&rsquo;ora di tensione atroce da dover subire, nel quale altri due colpi ben assestati alle coronarie sono un gol annullato ad Antognoni per un fuorigioco che vede solo la terna arbitrale e la pi&ugrave; importante parata della carriera di Zoff, che inchioda sulla linea un pericoloso colpo di testa di Oscar. Il triplice fischio di Klein consegna alla storia una partita di intensit&agrave; straordinaria. L&rsquo;Italia, in soli sei giorni, da Cenerentola dei gironi si trasforma nella Nazionale pi&ugrave; bella del reame, togliendo lo scettro proprio al Brasile. Paolo Rossi indossa nuovamente il mantello di Pablito, lasciato per troppo tempo in naftalina. E Bearzot, dopo aver sopportato l&rsquo;onta degli improperi di chiunque, abbraccia i suoi ragazzi con sguardo soddisfatto e fiero: anche stavolta la sua Italia arriver&agrave; tra le prime quattro nazionali del mondo. Ma a questo punto accontentarsi sarebbe un peccato mortale. Italia-Brasile 3-2 del 5 luglio 1982: il tabellino ITALIA: Zoff (C), Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati (34&rsquo; pt Bergomi), Scirea, Conti, Tardelli (31&rsquo; st Marini), Rossi, Antognoni, Graziani. A DISP.: Baresi, Vierhowod, Dossena, Bordon, Causio, Massaro, Altobelli, Selvaggi, Galli.&nbsp;CT:&nbsp;Enzo Bearzot. BRASILE: Valdir Peres, Leandro, Oscar, Luizinho, J&uacute;nior, Cerezo, Fal&ccedil;&atilde;o, Socrates (C), Serginho (26&rsquo; st Paulo Isidoro), Zico, Eder. A DISP.: Sergio, Edevaldo, Fonseca, Edinho, Pedrinho, Batista, Renato, Dinamite, Dirceu, Carlos.&nbsp;CT:&nbsp;Tel&ecirc; Santana. ARBITRO: Klein (Israele). MARCATORI: 5&rsquo; pt, 25&rsquo; pt e 29&rsquo; st Rossi (I), 12&rsquo; pt Socrates (B), 23&rsquo; st Fal&ccedil;&atilde;o (B).        

Il 5 luglio di 40 anni fa l'indimenticabile impresa della Nazionale di Bearzot contro la Sele&ccedil;ao stellare di Santana. Tripletta per Pablito e azzurri in semifinale: la Coppa &egrave; sempre pi&ugrave; vicina

Spagna '82: Italia-Brasile, Paolo Rossi riscrive la storia del Mundial

        Un cognome comune, comunissimo nel nostro Paese, eppure Paolo non fu mai un &ldquo;signor Rossi&rdquo; qualunque. O perlomeno non lo fu pi&ugrave; quando il suo talento irruppe prepotentemente nel panorama calcistico nazionale e internazionale. Un&rsquo;icona, una bandiera, una leggenda del nostro calcio, che nel 1982 regal&ograve; a un popolo intero un&rsquo;estate indimenticabile trascinando a suon di gol - sei - l&rsquo;Italia di Bearzot alla conquista dei Mondiali in Spagna. In quella manifestazione iridata la sua stella svetta inesorabile sopra le altre brillando e illuminando il cammino azzurro fino al trionfo finale. &Egrave; un&rsquo;estate italiana, un&rsquo;estate dove sogno e realt&agrave; si sovrappongono, un&rsquo;estate sospesa tra disincanto e bagliori accecanti: &egrave; l&rsquo;estate di Paolo Rossi. Prima di diventare l&rsquo;idolo di una nazione intera, per&ograve;, Pablito era semplicemente Paolo, un ragazzo nato a Prato e cresciuto calcisticamente nei campi della periferia toscana, al Santa Lucia, squadra messa in piedi dal medico locale, il dottor Paiar. Inizia l&igrave;, al fianco del fratello Rossano, la luminosa carriera di Paolo Rossi. Un idolo rimasto nei cuori di Vicenza e Perugia, in campo con una patch celebrativa sulla manica destra in ricordo della loro stella pi&ugrave; lucente.&nbsp; Paolo Rossi, dall&rsquo;esordio in Coppa Italia con la Juve al &ldquo;Real Vicenza&rdquo;&nbsp; Passato prima all&rsquo;Ambrosiana e poi alla Cattolica Virtus, Paolo, nonostante le resistenze della famiglia, a 16 anni si trasferisce a Torino, sponda Juve. Come raccontato dallo stesso Rossi, Italo Allodi si presenta a casa sua con una valigetta contenente 14,5 milioni di lire. Una cifra enorme alla quale i dirigenti della Virtus non possono rinunciare. Il suo percorso nelle giovanili della Vecchia Signora &egrave; costellato da una serie interminabile di infortuni. Nonostante ci&ograve;, per&ograve;, fa il proprio esordio tra i professionisti nel match di Coppa Italia contro il Cesena del 1&deg; maggio 1974. L&rsquo;anno seguente altre due apparizioni nella coppa nazionale prima del passaggio al Como. Con i Lariani, oltre al debutto in Serie A contro il Perugia (il destino aveva gi&agrave; previsto tutto), &egrave; un mezzo disastro: totalizza sei presenze complessive e la squadra retrocede in Serie B. Ma &egrave; nell&rsquo;estate del 1976 che la carriera del giovane Paolo cambia totalmente. La Juve convince il Lanerossi Vicenza a prenderlo in compartecipazione, dando il via all&rsquo;epopea del &ldquo;Real Vicenza&rdquo;. L&rsquo;incontro con Fabbri e gli anni al Lanerossi Vicenza Ai biancorossi incontra Giovan Battista Fabbri, l&rsquo;allenatore che da ala destra lo trasforma in centravanti puro dando una svolta alla sua carriera. Giorgio Carrera, suo compagno al Vicenza, in un&rsquo;intervista a Open racconta: &ldquo;La storia fantastica del nostro Vicenza nasce nel 1976, a Rovereto. Paolo era un&rsquo;ala destra, ma una sera a Cagliari, in Coppa Italia, il maestro dei maestri Gib&igrave; Fabbri l&rsquo;ha inventato centravanti. Legge la formazione, arriva il numero 9 e dice: &lsquo;Rossi centravanti&rsquo;. Tutti quanti ci siamo guardati con un sorrisino. Come a dire: &lsquo;Ma il mister ha bevuto?&rsquo; Non lo aveva mai provato in quella posizione. Mai, nemmeno in allenamento, nemmeno in un&rsquo;amichevole. Zero. Gli ha detto solo questo: &lsquo;Paolo, allora, vieni incontro&hellip; la dai&hellip; e vai&rsquo;. Lui, sorridendo, rispose: &lsquo;Va bene&rsquo;. Vincemmo uno a zero. Gol di chi? Di Paolo Rossi&rdquo;. Una svolta che porta l&rsquo;attaccante di Prato a laurearsi capocannoniere della cadetteria con 21 gol - secondo Virdis con 18 - e il Vicenza a vincere il campionato e approdare nella massima serie. Il presidente Farina, dunque, non pu&ograve; far altro che aumentargli l&rsquo;ingaggio da 8 a 50 milioni. La Juve, cos&igrave;, decide di desistere e virare proprio su Pietro Paolo Virdis. Da squadra neopromossa, il Lanerossi fatica nelle prime uscite stagionali ma poi, grazie alla vena realizzativa del suo bomber, che conquister&agrave; nuovamente la classifica dei marcatori con 24 centri, vola e chiude al secondo posto in classifica alle spalle della Juve. Mentre l&rsquo;Italia di Bearzot prepara i Mondiali in Argentina del 1978, il Vicenza e i neo campioni d&rsquo;Italia si contendono Paolo Rossi alle buste. Per trattenere il suo fenomeno il presidente Farina sborsa ben 2 miliardi e 612 milioni, una cifra assurda per l&rsquo;epoca e che crea un&rsquo;insurrezione anche all&rsquo;interno della FIGC portando Franco Carraro alle dimissioni. Lo stesso numero uno del Lanerossi si rende conto di aver &ldquo;esagerato&rdquo; e commenta: &ldquo;Mi vergogno, ma non potevo farne a meno. Per vent'anni il Vicenza ha vissuto degli avanzi. E poi lo sport &egrave; come l'arte, e Paolo &egrave; la Gioconda del nostro calcio&rdquo;. La stagione 1978-79 riserva per&ograve; un finale amaro per la squadra e lo stesso Rossi. Pablito deve infatti fare i conti con un nuovo infortunio al ginocchio per via del duro colpo inflittogli dallo stopper del Dukla Praga, Macela, nell&rsquo;andata del primo turno di Coppa Uefa - il Vicenza perde 1-0 e viene eliminato dopo l&rsquo;1-1 nel ritorno -. Salta le prime due gare di campionato, poi entra in condizione e chiude la stagione con 15 centri. Rossi realizza oltre il 50% delle reti messe a segno dalla formazione di Fabbri nel torneo - 29 gol totali -. La squadra chiude terzultima con 24 punti e retrocede in Serie B. Il campionato lo vince il Milan, tallonato da un&rsquo;altra provinciale: il Perugia di Ilario Castagner. Paolo Rossi, il passaggio al Perugia e la prima sponsorizzazione Pablito, per&ograve;, non pu&ograve; scendere di categoria, cos&igrave; approda proprio in Umbria con la formula del prestito biennale (500 milioni a stagione). Il presidente Franco D&rsquo;Attoma, per finanziare l&rsquo;oneroso investimento, decide di compiere un atto coraggioso che segner&agrave; una svolta storica nel calcio di casa nostra: la prima sponsorizzazione di maglia. Mai prima di allora, infatti, sui campi del Belpaese si era vista una squadra scendere sul rettangolo verde con la casacca griffata da un marchio commerciale. Un&rsquo;idea geniale che segner&agrave; uno spartiacque storico per il merchandising e le casse di una squadra di calcio. Sul campo Rossi risponde presente e chiude con 14 reti complessive - 13 in campionato e una in Coppa Uefa - in 36 presenze totali. Le uniche in Umbria per Pablito. In primavera scoppia infatti lo scandalo calcioscommesse che investe anche il centravanti di Prato, squalificato per due anni. La sua avventura al Perugia finisce cos&igrave;, ma i tifosi umbri non lo hanno mai dimenticato. Il Centro Sportivo del club umbro &egrave; stato infatti intitolato alla memoria di Paolo Rossi, il bomber che dai campi polverosi della provincia toscana trascin&ograve; l&rsquo;Italia sul tetto del mondo.&nbsp;       

Al Lanerossi Fabbri gli cambia la carriera trasformandolo da ala destra a centravanti puro. Nel 1979 si trasferisce in Umbria e il presidente D&rsquo;Attoma finanzia l&rsquo;operazione con la prima sponsorizzazione nella storia del calcio italiano

Paolo Rossi, il doppio ex di Perugia-Vicenza diventato leggenda

        Come si diventa Paolo Rossi? Facendo tanti gol, certo. E vincendo molti trofei. In parte, per&ograve;, la costruzione di un mito avviene anche grazie a episodi che elevano i loro protagonisti al ruolo di personaggi iconici al di l&agrave; della loro stessa volont&agrave;: quello che accadde proprio a Paolo Rossi nell&rsquo;estate del 1978. Non ancora ventiduenne, l&rsquo;attaccante stava emergendo con forza dall&rsquo;anonimato di una carriera che, prima di quel momento, gli aveva riservato le promesse di un talento ostacolato dalle incognite di un fisico che, gi&agrave; prima dei vent&rsquo;anni, si era rivelato problematico. La Juventus, squadra nella quale si era formato, nel 1975 lo aveva mandato in prestito al Como per dargli la possibilit&agrave; di esprimersi. La stagione non fu delle migliori: solo 6 presenze e nessun gol all&rsquo;attivo. Un rendimento insufficiente per rientrare a Torino, dove per&ograve; non se la sentono di mollare la presa sulle capacit&agrave; di questo ragazzo. Al Lanerossi  Cos&igrave;, nel 1976, i bianconeri lo cedono in compropriet&agrave; al Lanerossi Vicenza. L&igrave; Paolo trova la sua strada: quella citt&agrave; diventa il suo regno e la squadra di Fabbri conquista le simpatie e l&rsquo;ammirazione di tutta Italia giocando un calcio piacevole, moderno ed efficace. Promozione in A (1976-77) e secondo posto alle spalle dell&rsquo;invincibile armata juventina (1977-78) sono gli incredibili risultati di una compagine che trova nel suo centravanti il gioiello pi&ugrave; luccicante. Che, a questo punto, torna a esercitare un&rsquo;attrazione fatale sulla Vecchia Signora: propriet&agrave; e management vogliono che Rossi rientri alla base. Alle buste  Farina, presidente di quel Vicenza dei miracoli, non vorrebbe privarsi del suo uomo migliore. Al contempo, capisce che la sua squadra non pu&ograve; pensare di tenere Rossi per sempre. Propone, cos&igrave;, una soluzione di compromesso: tenersi il ragazzo, ancora giovane, per un altro anno per poi cederlo definitivamente ai bianconeri. Che, per&ograve;, lo vogliono subito, senza discussioni. A Farina non sta bene, cos&igrave; si arriva alle buste nelle quali inserire la migliore offerta, come previsto dal regolamento nei casi di compropriet&agrave;. La Juventus, per la met&agrave; di Pablito, offr&igrave; 800 milioni di lire mentre il presidente vicentino dette una valutazione monstre per l&rsquo;epoca: 2 miliardi e 612 milioni. Una cifra pazzesca, che dest&ograve; scandalo in quell&rsquo;Italia scossa dalle lotte sindacali, che port&ograve; addirittura il presidente federale Carraro alle dimissioni. Storie che anticipavano il sensazionalismo del calciomercato dei nostri tempi. &nbsp;       

Nel 1978 Pablito &egrave; conteso dalla Juventus e dal Lanerossi del presidente Farina: per risolvere la compropriet&agrave; &egrave; necessario ricorrere alle buste

Calciomercato: Paolo Rossi al Vicenza, affare da oltre due miliardi

        La morte di Paolo Rossi &egrave; per tutto il pianeta quella della stella del Mondiale 1982, vinto dall'Italia di un Enzo Bearzot che dopo la squalifica per il calcioscommesse aveva creduto in lui anche contro l'evidenza. Un Rossi conosciuto e giustamente celebrato, ma come calciatore un po' diverso da quello che qualche anno prima aveva conquistato la Nazionale partendo da una realt&agrave; di provincia come il Vicenza di Giussy Farina, in Serie B, dove la Juventus lo aveva mandato in seguito alla brutta stagione passata in prestito al Como. Nel 1976 Farina lo prese in compropriet&agrave;, credeva in lui ma non al punto di pensare che avrebbe trascinato il Vicenza in A e che due anni dopo sarebbe stato protagonista al Mondiale argentino. Rossi era quello che oggi si definirebbe un attaccante esterno, con il gergo del 1976 quindi un'ala. Molto veloce e bravo ad evitare i colpi delle impunite difese dell'epoca, non si distingueva per la potenza del tiro e nemmeno per il senso del gol. La grande intuizione di G.B. Fabbri fu quella di trasformarlo in centravanti, in una squadra che ruotava intorno a lui: scelta non scontata, visto che all'epoca il futuro Pablito era un ventenne senza una identit&agrave; tecnica (per dire: Italo Allodi, che lo aveva portato alla Juventus, lo aveva definito "Il nuovo Garrincha") e con alle spalle una storia di infortuni gi&agrave; molto pesante. Un'intuizione che fu aiutata anche dal fatto che il centravanti titolare, Alessandro Vitali, dopo un litigio con Farina avvenuto in ritiro aveva chiesto di essere ceduto: la carriera di Vitali fin&igrave; l&igrave; (e un anno dopo, purtroppo, anche la sua vita, in un incidente stradale). Galli, Lelj, Marangon, Donina, Dolci, Carrera, Cerilli, Salvi, Rossi, Faloppa, Filippi: questa la formazione base, quando ci si poteva ricordare delle formazioni, di una squadra compattissima costruita intorno al talento di Rossi. Che da capocannoniere in B, sfruttando i grandi assist di Cerilli, conquist&ograve; anche la maglia dell'Under 21 di Vicini, che come punte di quella generazione aveva anche Pruzzo, Virdis, Giordano... Comunque quel Vicenza vinse il campionato di B e fu promosso insieme ad Atalanta e Pescara, con Rossi che capocannoniere davanti a Virdis, Tosetto, Villa ed Altobelli... In estate Farina fece finta di voler lasciare, per i costi esorbitanti della Serie A, ma fu una finta per fare un calciomercato al ribasso, con l'unico obbiettivo di rinnovare la compropriet&agrave; di Rossi. Di fatto il grande rinforzo fu Mario Guidetti, mediano che a Fabbri piaceva tantissimo, e tutta Italia si soprese del fatto che il Vicenza ripetesse in A lo stesso campionato fatto in B, con un Rossi se possibile ancora pi&ugrave; decisivo. Dopo un cattivo inizio la squadra con l'ingresso di Guidetti ingran&ograve; e arriv&ograve; a fare un campionato di testa, anche se non fu mai in lotta per lo scudetto. Memorabili Callioni e Prestanti in difesa, ma anche le 30 partite su 30 di Paolo Rossi, con 24 gol ed un altro titolo di capocannoniere, questa volta in A, quando certe medie realizzative erano difficilissime. E del resto il secondo classificato, Savoldi, di gol ne segn&ograve; 16, mentre Bettega, miglior giocatore della Juventus campione d'Italia, non and&ograve; oltre gli 11... Lo storico secondo posto del Vicenza, a pari punti con il Torino di Radice, lanci&ograve; Rossi verso il Mondiale argentino e fu, insieme al riscatto di Rossi stesso con la vittoria alla buste contro Bonipert e valutazione comlessiva di 5 miliardi di lire, l'inizio della fine di una storia stupenda. Forse di questo Vicenza fra 50 anni non si parler&agrave; pi&ugrave;, ma Paolo Rossi rimarr&agrave; per sempre.        

Addio al protagonista del Mondiale 1982, quasi un altro calciatore rispetto a quello che era emerso qualche anno prima in una provinciale che sfior&ograve; il miracolo...

Il Vicenza di Paolo Rossi

Paolo Rossi &egrave; stato con l&rsquo;Italia in tre Mondiali, di cui due vissuti da protagonista assoluto, ma non ha mai disputato la fase finale di un Europeo: nel 1976 e nel 1984 gli azzurri non si qualificarono, nel 1988 si era appena ritirato. E nel 1980? Nonostante fosse da due mesi il nome pi&ugrave; pesante dello scandalo calcioscomesse, sia pure con accuse meno gravi rispetto ad altri, Bearzot continu&ograve; a credere alla sua innocenza e il 16 maggio del 1980 inser&igrave; Rossi nel listone dei 40 preconvocati per l&rsquo;Europeo che si sarebbe svolto proprio in Italia dall&rsquo;11 al 22 giugno, ripromettendosi di scegliere i 22 qualche giorno dopo ed in ogni caso sapendo che la UEFA avrebbe accettato modifiche fino al 3 giugno.  Un listone pieno di curiosit&agrave;, che vale la pena di citare per intero e non solo perch&eacute; tanti nomi scaldano il cuore. Portieri: Zoff (Juventus), Bordon (Inter), Galli (Fiorentina), Conti (Roma) e Corti (Cagliari). Difensori: Cabrini, Cuccureddu, Gentile e Scirea (Juventus), Collovati, Franco Baresi e Maldera (Milan), Giuseppe Baresi e Bini (Inter), Bellugi e Ferrario (Napoli), Osti (Udinese). Centrocampisti: Pecci e Zaccarelli (Torino), Beccalossi, Marini e Oriali (Inter), Antonelli e Buriani (Milan), Antognoni (Fiorentina), Tardelli (Juventus), Casagrande (Cagliari), Benetti (Roma), Moro (Ascoli), D&rsquo;Amico (Lazio). Attaccanti: Bruno Conti e Pruzzo (Roma), Bettega e Causio (Juventus), Altobelli (Inter), Graziani (Torino), Giordano (Lazio), Bagni e Paolo Rossi (Perugia), Palanca (Catanzaro).  Colpisce l&rsquo;inserimento di Beccalossi, quasi un contentino per i media, un giocatore che Bearzot non avrebbe mai chiamato nemmeno per la pi&ugrave; insulsa delle amichevoli. Un po&rsquo; meno strano l&rsquo;inserimento di Pruzzo, che per qualche partita il commissario tecnico avrebbe preso in considerazione (ed infatti nei 22 per l&rsquo;Europeo sarebbe entrato). Abbastanza mediatico anche il nome di Palanca, mai realmente con una chance, mentre soltanto andando a recuperare la lista ci siamo ricordati della presenza di Roberto Corti, che non entr&ograve; poi nei 22 ma che era un solido portiere, per l&rsquo;epoca altissimo, e in seguito avrebbe fatto benissimo anche all&rsquo;Ascoli.  Ma tornando a Paolo Rossi, quel 16 maggio rimarr&agrave; per lui una data maledetta. Perch&eacute; poche ore dopo l&rsquo;annuncio di Bearzot il capo dell&rsquo;ufficio inchieste della Federcalcio, Corrado De Biase, chiese per quasi tutti gli imputati pene molto pi&ugrave; pesanti del previsto: per Rossi e Giordano, oltre che per altri, addirittura la radiazione per illecito sportivo. Bearzot non si faceva grandi illusioni per Giordano, ma aveva sempre ritenuto quella di Rossi poco pi&ugrave; di una leggerezza. Quel suo inserimento nei 40 fu quindi un modo per dargli sostegno in attesa della sentenza (il giorno dopo). Che per il ventiquattrenne Rossi non sarebbe stata la radiazione, ma comunque rovinosi 3 anni di squalifica: niente Europei ma soprattutto niente Mondiale 1982, oltre a tutto il resto. Poi a luglio la CAF ridusse a 2 anni la squalifica di Rossi, che quindi da quel momento inizi&ograve; a pensare, insieme a Bearzot, al suo grande riscatto. Decisamente un&#39;altra storia.&nbsp; 

La convocazione dell&#39;attaccante azzurro per il torneo del 1980 dur&ograve; poche ore del 16 maggio, il tempo che Bearzot apprendesse le richieste dell&#39;accusa...

L&#39;Europeo di Paolo Rossi

Il ritorno di Paolo Rossi a Vicenza e al Vicenza fa notizia, anche se in concreto la stella del Mondiale 1982 non avr&agrave; ruoli operativi: sar&agrave; consigliere e ambasciatore del club che Renzo Rosso sta rilanciando, con il sogno proibito di tornare ai livelli toccati con il Rossi giocatore. L&rsquo;imprenditore dell&rsquo;abbigliamento, inventore del marchio Diesel, forse preso dall&rsquo;entusiasmo, ha definito Rossi &lsquo;Grande manager&rsquo;, ma Rossi &egrave; soprattutto un&rsquo;icona e come tale potrebbe avere la sua importanza nel futuro di un club fallito nella scorsa stagione e rinato sfruttando il titolo sportivo del Bassano. Di sicuro il toscano Rossi &egrave; il giocatore pi&ugrave; famoso nella storia del Vicenza, pi&ugrave; anche del vicentino Roberto Baggio che per&ograve; fu ceduto alla Fiorentina quando aveva 18 anni, anche se &egrave; sbagliato dire che nella storia sia esistito solo il Vicenza di Paolo Rossi. I biancorossi sono infatti stati vicecampioni d&rsquo;Italia nel 1910-1911, oltre che nel 1977-78, e sono stati in serie A per moltissimi anni, di cui 20 consecutivi dal 1955 al 1975. Ma comunque nella memoria collettiva, anche dei non vicentini, &egrave; rimasto Rossi ed &egrave; per questo che pu&ograve; essere interessante ricordare come questo amore sia nato.  Estate 1976. La carriera del ventenne Rossi &egrave; a un punto morto. L&rsquo;ex stella del calcio giovanile toscano, con la maglia della Cattolica Virtus, non ha avuto un grande impatto con il professionismo. Nel 1972 &egrave; passato alla Juventus per 15 milioni di lire, fortissimamente voluto da Italo Allodi che non lo vedeva come centravanti ma come ala destra, al punto di definirlo &lsquo;Il nuovo Garrincha&rsquo;. Ma il suo percorso in bianconero, limitato da tanti infortuni (tre operazioni al menisco, quando queste operazioni potevano chiudere una carriera), sembra sfortunato come quello di suo fratello Rossano. Inoltre Allodi nel 1974 va a Coverciano e l&rsquo;anno dopo Boniperti lo presta al Como neopromosso. Sembra una buona occasione, siamo pur sempre in serie A, ma con Cancian e soprattutto con Bagnoli le cose non funzionano, la stagione finisce con poche presenze, zero gol e la retrocessione. E cos&igrave; nel 1976 c&rsquo;&egrave; il ritorno alla Juventus. Con Boniperti che ritiene di avere fatto un gran colpo convincendo il Vicenza di Giussy Farina a prendersi quel ragazzo veloce ma con il marchio della fragilit&agrave;. E insieme a Rossi in Veneto manda anche Vinicio Verza, grande talento che per&ograve; al contrario di Rossi rimarr&agrave; incompreso.  Tutti ricordano la stagione in A prima del Mondiale in Argentina, ma l&rsquo;esplosione di Rossi avviene proprio in quella serie B di met&agrave; anni Settanta, dove un attaccante con le sue caratteristiche rischiava di essere massacrato. Poi come al solito ci vuole anche fortuna: G.B. Fabbri sopravvive a un grave incidente stradale, Farina inventa un mercato a costo quasi zero (oltre a Rossi e Verza anche Cerilli, Prestanti, Lely, Donina, Carrera e Albanese), il centravanti titolare Sandro Vitali litiga con Farina e Cerilli fa vedere di non essere l&rsquo;eterna promessa dell&rsquo;Inter. Ed &egrave; proprio da un assist di Cerilli che nasce il primo gol di Rossi in un campionato professionistico: in casa contro il Varese, alla seconda giornata, il futuro Pablito si sblocca con un diagonale di sinistro.  E da l&igrave; in poi sar&agrave; quasi una marcia trionfale, con tanto di titolo di capocannoniere con 21 gol (davanti a Virdis con 18 mentre Altobelli &egrave; quinto a 13: torneo con una certa qualit&agrave;&hellip;), fino al ritorno in serie A. In mezzo ai festeggiamenti Farina annuncia che lascia il club, ma &egrave; uno dei suoi numeri: in realt&agrave; rimane e rimane anche Rossi, con Farina che paga i 90 milioni previsti da una clausola del prestito e fa diventare il Vicenza comproprietario di Rossi. Pregustando un grande incasso l&rsquo;anno successivo, non potendo sapere che le cose andranno esattamente all&rsquo;opposto. Rossi pur essendo tifoso juventino non spinge per il ritorno a Torino, anzi. Rimane e scriver&agrave; nel campionato successivo le pagine pi&ugrave; belle della storia del club, prima della vittoria alle buste nel 1978 che si trasformer&agrave; in una sconfitta prima finanziaria e poi sportiva. Di certo l&rsquo;amore di Vicenza per lui inizi&ograve; in quel campionato di B e dopo oltre 40 anni non &egrave; finito. 

L&#39;eroe del Mondiale 1982 &egrave; tornato come consigliere nel club che lo lanci&ograve; in un memorabile campionato di serie B anni Settanta, quando gi&agrave; era stato etichettato come promessa mancata...

Paolo Rossi e il Vicenza, una storia infinita

Il no di Simone Verdi al trasferimento al Napoli ha fatto notizia senza un vero perch&eacute;, visto che il 99% delle trattative di mercato si chiude con un rifiuto del giocatore o di una delle due squadre coinvolte. Di sicuro ha suggerito paragoni illustri, come fedelt&agrave; alla maglia (non sembra questo il caso, con tutto il rispetto per il Bologna: in ogni caso vedremo a giugno) o di mancato arrivo al Napoli pensando a a opportunit&agrave; ritenute migliori. In questo senso il caso pi&ugrave; famoso di tutti &egrave; quello riguardante Paolo Rossi, uomo mercato dell&rsquo;estate 1979: giocatore simbolo della Nazionale di Bearzot che l&rsquo;anno prima aveva entusiasmato al Mondiale argentino, ma soprattutto problema per il Vicenza di Giussy Farina che l&rsquo;anno prima lo aveva riscattato battendo la Juventus alle buste con un&#39;offerta clamorosa, che aveva dato a Rossi la valutazione di oltre 5 miliardi di lire. Diciamo problema perch&eacute; dopo lo strepitoso campionato 1977-78 la squadra veneta ne aveva disputato uno da retrocessione, condizionato anche da errori arbitrali clamorosi: Farina si era messo contro il sistema (per la vicenda dei 5 miliardi Carraro si era addirittura dimesso da commissario di Lega) e non poteva aspettarsi favori. Come si sarebbe visto anche qualche anno dopo, visto il modo in cui gli avrebbero sfilato il Milan&hellip;  Ma torniamo al 1979. Nell&rsquo;ultima giornata di campionato, domenica 13 maggio, un drammatico alternarsi di risultati manda il Vicenza, battuto 2-0 dall&rsquo;Atalanta, in serie B insieme proprio ai bergamaschi e al Verona che gi&agrave; era ultimo da tempo. &Egrave; subito evidente che uno dei giocatori pi&ugrave; forti del mondo non pu&ograve; a 23 anni tornare nella categoria inferiore, di cui due stagioni prima &egrave; stato capocannoniere. Problema nel problema: dei due miliardi e mezzo che Farina avrebbe dovuto dare alla Juventus ne sono stati versati nemmeno la met&agrave;, quindi bisogna fare cassa subito. Le grandi tradizionali, ma anche il Napoli e la Roma, seguono la vicenda con finto distacco, convinte che il Vicenza con l&rsquo;acqua alla gola sar&agrave; costretto a cedere Rossi per pochissimo. Di suo il giocatore preferirebbe tornare alla Juventus, che tre anni prima aveva venduto a Farina la sua met&agrave; per 100 milioni di lire, ma un po&rsquo; per orgoglio e un po&rsquo; perch&eacute; altri club offrono di pi&ugrave; Farina vorrebbe mandare il giocatore altrove. Lo propone a destra e a manca, trovando in Ferlaino il miglior interlocutore. Il presidente del Napoli arriva addirittura ad offrire al Vicenza quasi 2 miliardi per la sola compropriet&agrave;, in pratica se l&rsquo;operazione si facesse Farina riuscirebbe a far quadrare tutti i conti. Il direttore sportivo Vitali e Roberto Filippi, ex compagno di Pablito a Vicenza e ora al Napoli, fanno pressing: all&rsquo;ingaggio si aggiungono benefit di ogni tipo, fra cui una villa a Posillipo, ma Rossi continua a preferire la Juventus e, in subordine, il Milan fresco campione d&rsquo;Italia con la prospettiva di disputare la Coppa dei Campioni. C&rsquo;&egrave; di pi&ugrave;. Come riveler&agrave; Filippi, gli sponsor personali di Rossi premono perch&eacute; non vada a Napoli, che a quei tempi significa uscire dal grande giro. Ferlaino per&ograve; non molla e a met&agrave; giugno l&rsquo;annuncio sembra vicino. Fra l&rsquo;altro Boniperti vedrebbe di buon occhio un Rossi al Napoli, non considerando il Napoli un avversario credibile per lo scudetto. Si arriva cos&igrave; al 25 giugno, con Rossi che gioca nel Resto del Mondo contro l&rsquo;Argentina campione idridata: insieme a Rossi, nella squadra allenata da Bearzot, gente come Tardelli, Krol, Boniek e Zico. Questo per dire il suo status dell&#39;epoca&hellip;  Non si sblocca niente e a complicare il tutto c&rsquo;&egrave; anche il fatto che Rossi e Farina sono soci in affari in una finanziaria. Non c&rsquo;&egrave; insomma un vero no al Napoli, ma una trattativa bloccata dal prezzo troppo alto del giocatore e dal suo desiderio di andare in una squadra subito da scudetto. La realt&agrave; &egrave; che l&rsquo;attaccante del Resto del Mondo sta per tornare in serie B e cos&igrave; serve una soluzione di emergenza. Spunta cos&igrave; il Perugia reduce da un grande secondo posto, quello del record di imbattibilit&agrave;: il presidente D&rsquo;Attoma e il direttore sportivo Ramaccioni si rendono conto che per il futuro Rossi sogna un grande club ma anche che nel presente l&rsquo;unico suo desiderio &egrave; evitare la serie B. In extremis si inserisce l&rsquo;Udinese di Teofilo Sanson, dicendo di avere alle spalle imprecisati &lsquo;americani&rsquo; che investirebbero 5 miliardi, ma il concreto Farina opta per il prestito al Perugia: 500 milioni di lire pi&ugrave; il prestito, con possibilit&agrave; di compropriet&agrave;, di Cacciatori e Redeghieri, con il pensiero poi di vendere Rossi nel 1980 davvero per 5 miliardi o addirittura di pi&ugrave;. Rossi va al Perugia, ma il calcioscommesse toglier&agrave; a lui due anni di carriera e a Farina quasi tutti i soldi che si sentiva gi&agrave; in tasca. Il &lsquo;no&rsquo; al Napoli non c&rsquo;&egrave; insomma mai stato, perch&eacute; su Rossi c&#39;era mezza Italia, ma su quell&rsquo;operazione rimarr&agrave; per sempre il mistero essendo le cifre ufficiali ben lontane dalla credibilit&agrave;.&nbsp; 

La trattativa per Verdi ha scomodato paragoni illustri ed il pi&ugrave; illustre di tutti &egrave; quello che riguarda la stella della Nazionale nell&#39;estate 1979. Una vicenda incredibile, che si concluse con il passaggio dal Vicenza al Perugia...

Lo strano no di Paolo Rossi al Napoli

Difficile spiegare a chi ha iniziato a seguire il calcio dopo la sentenza Bosman, quindi dalla stagione 1996-97 in avanti, cosa fosse l'epoca del vincolo. In pratica calciatori anche senza contratto non erano liberi di andare dove volessero: o accettavano le offerte del club per cui erano tesserati o stavano fermi. Naturalmente non si arrivava quasi mai a questi estremi, perch&eacute; i club non erano cos&igrave; autolesionisti da far deprezzare un loro patrimonio, ma sul piano filosofico il calciatore non era soltanto un dipendente ma una sorta di propriet&agrave;. Per questo i casi di Paolo Rossi, Tardelli e Gentile, freschi di Mondiale vinto in Spagna, fecero epoca. Nella meravigliosa estate del 1982 i tre campioni osarono l'inosabile: dissero di no alle proposte di Boniperti per i loro nuovi contratti con la Juventus. L'offerta di partenza del presidente bianconero, abituato a ricevere un s&igrave; quasi immediato sia dai grandi sia a maggior ragione dai meno grandi, era la seguente: 130 milioni di lire (90 netti, stando alla tassazione dell'epoca) per Rossi e 115 sia per Tardelli sia per Gentile. Cifre che i tre, al top della loro carriera, ritennero inadeguate: il capocannoniere del Mundial chiedeva 200 lordi, i suoi compagni 150. Una trattativa molto diversa da quelle di oggi: i tre avevano s&igrave; consulenti vari, fra commercialisti e avvocati, ma agli incontri con Boniperti e il direttore generale Giuliano ci andavano da soli, entrando nel merito dei contratti con il loro cervello e le loro competenze. Va detto che Boniperti consulenti, agenti e mediatori non voleva nemmeno vederli dipinti, almeno ufficialmente. Una normale trattativa si trasform&ograve; cos&igrave; in questione di principio, vista l'importanza dei personaggi, con i media quasi compattamente schierati con Boniperti (i calciatori che non avevano accettato le offerte vennero definiti 'dissidenti' o 'ribelli') e sbeffeggianti Rossi per l'infelice frase "Cosa dar&ograve; da mangiare a mio figlio?". E cos&igrave;, di fatto, i tre campioni del mondo vennero messi fuori squadra, nemmeno convocati per l'esordio stagionale in Coppa Italia, contro il Catania di Claudio Ranieri (giocatore), partita che sarebbe stata quella del rientro di Bettega nove mesi dopo il tremendo infortunio contro l'Anderlecht. Rossi, Tardelli e Gentile facevano un paragone ovvio: Giordano appena amnistiato per il calcioscommesse, oltretutto grazie al loro trionfo in Spagna, aveva strappato alla Lazio e in serie B un contratto da 200 milioni netti a stagione. Alla fine la situazione si sblocc&ograve;, probabilmente (non ci sono certezze) per un intervento di Agnelli: per l'immagine della Juventus quei campioni del Mondo tenuti fuori non erano una bella cosa. Dopo un incontro, sempre senza procuratori, in una Torino deserta (quando c'era il lavoro c'erano anche le ferie), il 18 agosto si arriv&ograve; alle firme a cifre abbastanza vicine a quelle chieste dai giocatori anche se rimase la stranezza del calciatore in quel momento pi&ugrave; famoso del mondo, nella squadra pi&ugrave; forte d'Italia, pagato meno di un suo collega in serie B.

Il contratto di Paolo Rossi

Seconda puntata della nuova rubrica GS Nostalgia, in cui ogni settimana proporremo un&rsquo;intervista ad un ex protagonista del calcio italiano di ieri: troverete tanti campioni acclamati dalle folle, ma non solo. Come&nbsp;aprire il baule dei ricordi e trovarvi dentro anche chi ha avuto meno fortuna, ha sfiorato la gloria o l&rsquo;ha vissuta in modo effimero. Buona lettura! Franco Cerilli, veneziano di Chioggia classe 1953, &egrave; stato un trequartista di talento che ha vissuto i suoi migliori momenti nel leggendario Vicenza a fine anni Settanta. Una carriera ricca di alti e bassi, dissidi con i propri allenatori che spesso non lo "vedevano" ma anche le cicatrici del Calcioscommesse. Cerilli non si &egrave; sottratto perfino alle domande pi&ugrave; scomode. Franco, parlaci dei tuoi esordi nel Clodia Sottomarina, societ&agrave; all'epoca appena nata. "Sono cresciuto nel Sottomarina. Feci parte delle giovanili, giocando con gli allievi e la squadra juniores arrivando poi alla prima squadra a 16 anni in C. Poi ci fu la fusione tra Clodia e Sottomarina". Il club in cui iniziasti a giocare &egrave; stato sciolto nel 2011. Oggi esiste ancora un altro sodalizio chiamato Clodiense. Quanta amarezza per come sono andate le cose? "Grande dispiacere soprattutto per i tifosi, tanti di loro in seguito si allontanarono dal calcio. Fa male che, nel sesto comune del Veneto, le cose siano andate cos&igrave;. Per il futuro del calcio a Chioggia, in questo momento, non intravedo purtroppo alcuno spiraglio". Sali di un gradino e arrivi in C, alla Massese. Ci racconti un aneddoto su come l'Inter ti scov&ograve;? "Alla Massese sar&ograve; sempre grato, per avermi lanciato nel calcio. Ebbi contrasti con il ds Dal Cin (allora ad inizio carriera) a Chioggia e mi mand&ograve; via, ma alla fine alla Massese riuscii a mettermi in mostra. Venivano a vedermi diversi osservatori delle squadre di A, tra cui l'interista Cappelli. Poi, i coniugi Fraizzoli rimasero ben impressionati dopo un'amichevole che giocai contro il Genoa e, grazie alla mia buona annata, venni scelto dall'Inter". Arrivasti a Milano a 21 anni, due stagioni incolori. Cosa non and&ograve; per il verso giusto? "Cosa non and&ograve; lo scoprii anni dopo...Luisito Suarez, come osservatore del Genoa, mi aveva bocciato. Ma l'anno seguente, quando lui arriv&ograve; sulla panchina dell'Inter, mi ritrov&ograve; a Milano...feci un gran debutto contro la Lazio, la stampa mi osann&ograve;. Poi Suarez mi impieg&ograve; fuori ruolo nel derby, da ala sinistra opposto a Sabadini. Perdemmo 3-0, giocai ovviamente male e da quel momento in poi vidi poco il campo in quella prima stagione e pure l'anno dopo, con Chiappella allenatore, che preferiva giocatori pi&ugrave; esperti. Imparai tantissimo da quei grandi giocatori, Facchetti, Mazzola, ecc. Non fui molto fortunato con le scelte degli allenatori, che mi diedero poca fiducia".    Eccoti al Lanerossi e subito la promozione in A. Come vivesti il prestito al Monza, dopo un campionato ad alto livello? "L'Inter mi mand&ograve; in prestito a Vicenza. Subito la promozione! Venni richiamato da Milano, ma con la scusa di tenermi sotto osservazione mi inviarono al Monza, sempre in B. Con Magni giocai di nuovo in un ruolo non mio, ala destra con il numero 7 sulle spalle. Io ero un trequartista!". Il famoso &ldquo;Real Vicenza&rdquo;: in tre campionati pass&ograve; dalla B al 2&deg;posto e poi alla retrocessione. Un'incompiuta? "Quella squadra, innanzitutto, difettava nei ricambi anche dal punto di vista qualitativo. Giocavano quasi sempre gli stessi undici. Poi, il grande errore del presidente Farina: la Juventus (se non ricordo male) gli offr&igrave; Virdis, Fanna, Tavola e contanti per avere Rossi. Lui incredibilmente non accett&ograve;, sparando in busta quella cifra assurda per tenersi Rossi. Da l&igrave;, cominci&ograve; la fine. Tre anni comunque bellissimi, e poi quella squadra viene ricordata ancora oggi".  Franco Cerilli, in quel momento d'oro del boom di Paolo Rossi, avrebbe meritato l'azzurro? "Forse l'avrei meritato, anche per via dell'intesa con Rossi, sapevo come si muoveva, in fondo molti palloni glieli davo io. Per&ograve; con gente davanti come Causio, Bearzot che credeva nel blocco juventino ed in quello torinista, non era semplice entrare ed andare al Mondiale d'Argentina. Un po' di rammarico, ma va bene cos&igrave;".    Le vicende del Lanerossi ed il passaggio a Pescara, a 26 anni, ti fecero pensare di aver perso il treno giusto? "Venni acquistato dal Pescara perch&eacute; inizialmente avrei dovuto sostituire Bruno Nobili, miglior giocatore e capitano di quella squadra. La piazza insorse ed il beniamino di casa rimase. Alla prima giornata del campionato 1979-80 contro l'Inter non dovevo inizialmente giocare. Carosi, tecnico della Fiorentina, mi voleva in viola. Ma insistetti per giocare contro la mia ex squadra, per un senso di rivincita (convincendo Angelillo), ma ci&ograve; fece saltare il passaggio alla Fiorentina. All'epoca, infatti, un giocatore non poteva vestire la maglia di due squadre della medesima categoria nella stessa stagione. Per quel moto d'orgoglio persi una bella occasione".  Il triennio a Padova ti fa ricordare tra i tifosi patavini come uno dei migliori giocatori. Raccontaci la tua esperienza. "Andai a Padova, sebbene in C1, ma comunque mi riavvicinai a casa. Il primo torneo fu discreto, nel secondo ottenemmo la promozione in B. Il club aveva un ottimo progetto ed io riuscii a giocare bene e a farmi ben volere dai tifosi. Un giornalista de &ldquo;Il Mattino di Padova&rdquo;, Gianadolfo Trivellato, mi soprannomin&ograve; &ldquo;Mastro Cerilli&rdquo;, un appellativo a cui sono rimasto molto affezionato. Poi, nella Serie B 1983-84, si alternarono in panchina Sereni, Agroppi&nbsp;e Rambone. Arrivammo quinti: a fine campionato ero in scadenza di contratto. Successe un'altra bella storia...fui chiamato nella casa di Tombolo del presidente Pilotto insieme al ds Vitali. Mi chiesero:&rdquo;Confermeresti Rambone per l'anno prossimo?&rdquo; e io risposi di no. Eravamo in confidenza...Rambone rest&ograve; a Padova e a me non rinnovarono il contratto".  Il ritorno a Vicenza ti lega a due promozioni di fila ed allo scandalo Totonero-bis, che chiuse la tua carriera. "Mi ritengo una persona pulita, che non ha mai venduto una partita. Ma sapevo delle cose. Parlai con l'avvocato vicentino Dal Lago. Il Lanerossi venne a conoscenza di ci&ograve; e mi convoc&ograve; in sede. Mi proposero di affidarmi al loro legale, Vittorio Chiusano, famoso per il suo legame con la Juventus. Per il mio silenzio, conoscendo il rischio-squalifica, chiesi un contratto lungo e sostanzioso per tutelarmi, come suggerito da Dal Lago. Me lo accordarono. Ma chiesi di averne una copia e si stizzirono per la mia mancanza di fiducia: rinunciai a fotocopiarlo. Quel contratto, ovviamente, spar&igrave;. E io venni squalificato per 5 anni, chiudendo la mia carriera. Venni fregato due volte, perch&eacute; non beccai una lira di ci&ograve; che era stato pattuito. Mi rivolsi poi ad un altro avvocato, ma era ormai troppo tardi. Ho pagato a caro prezzo quella storia ma, ripeto, mi ritengo pulito. Avrei da raccontare tanti aneddoti, ma per rispetto di persone che non ci sono pi&ugrave; e del fatto che non si possano pi&ugrave; difendere, chiudo cos&igrave;".  Dopo lo scandalo, quali conseguenze hai vissuto sulla tua pelle? "Non fu un bel periodo per me. Ho perduto parecchi amici, ma sapete chi non mi ha mai abbandonato? I miei compagni del &ldquo;Real Vicenza&rdquo; ed i tanti rapporti&nbsp;umani al di fuori del calcio". Di cosa ti sei occupato nel dopo calcio? "Ho avuto il piacere di essere chiamato nel Club Italia con la Nazionale Over 40 (con tanti ex&nbsp;campioni del mondo 1982 e la vittoria nel Mundialito Master 1993, ndr) per giocare diverse partite: penso che se mi avessero reputato una persona da evitare non mi avrebbero mai chiamato, no? Ho fatto l'allenatore nei dilettanti, vicino a casa. Ho frequentato il Supercorso a Coverciano, ma vedevo che andavano avanti solo quelli che avevano qualche raccomandazione...". Descrivici il Cerilli allenatore. "Mi reputo un bravo allenatore, credo di applicare un calcio tecnico e che cura la parte psicologica. Ho vinto alcuni campionati di Prima Categoria e, finora, non sono mai retrocesso. Sono una persona che cerca di mantenere un buon rapporto umano con i suoi giocatori, e ci&ograve; che ho seminato con diversi miei ragazzi ora lo ricevo in cambio: con grande piacere". Come vanno le cose sulla panchina del S.Precario? "Tutto &egrave; iniziato con una telefonata. Poi, il fatto che la squadra gioca le partite casalinghe all'Appiani (stadio a me caro) mi ha convinto a dire s&igrave;. Ho ricevuto buone critiche su come giochiamo, i risultati sono positivi e lavoro insieme a dei ragazzi che hanno voglia".  Il Cerilli fuori dal campo, tra vita privata e futuro. "Vivo con mia moglie, ho una figlia che mi ha regalato due splendide nipotine. Ho una vita privata felicissima, sono in pensione. Seguo il calcio ma ormai con un po' di distacco: non capisco come dei&nbsp;privilegiati possano parlare di stress e depressione...&egrave; diventato un calcio senza valori e, per certi versi, immorale".    Fabio Ornano @fabio_ornano

GS Nostalgia / Cerilli: "Che squadra il "Real Vicenza"! E sul Totonero..."

Gli anni Settanta del calcio italiano. Anni in cui il pallone offriva una versione autarchica ma avara di successi europei (una Coppa Uefa della Juve e una Coppa delle Coppe del Milan gli unici trofei raccolti in quel decennio). Un periodo che molti rimpiangono: gli stadi pieni, &ldquo;Novantesimo minuto&rdquo; e un alone di romanticismo e mistero. Erano anche gli anni in cui in Serie A potevano salire sul podio splendide realt&agrave; di provincia come il Perugia di Ilario Castagner, secondo da imbattuto nella Serie A del &lsquo;78-79. O il Vicenza di Giovan Battista Fabbri, anch'esso piazzatosi sul secondo gradino del podio, l&rsquo;anno prima. Il &ldquo;Vicenza dei miracoli&rdquo;, era chiamato. O anche &ldquo;Real Vicenza&rdquo;. Una squadra che strizzava l&rsquo;occhio al calcio totale e che da neopromossa arriv&ograve; a sfiorare l&rsquo;impresa. Dell&rsquo;undici titolare, tutti andarono a segno, in quell&rsquo;anno di grazia. Di quel meccanismo cos&igrave; ben collaudato, si innamor&ograve; anche Gianni Brera che disse: &laquo;Non avrei mai creduto che una squadra di provincia potesse giocare al calcio come ha giocato il Vicenza&raquo;. Di quel calcio di provincia, Fabbri &egrave; uno dei massimi simboli: tutta la sua carriera &egrave; stata un girovagare per lo Stivale, sia da calciatore (Centese, Modena, Messina, Spal, Pavia e Varese), sia da allenatore (e qua la lista &egrave; infinita: le tappe principali, oltre a quella vicentina, restano Spal, Livorno, Piacenza, Ascoli, Cesena, Reggiana, Catania, Catanzaro, Foggia, Bologna e Venezia). Fabbri impiegava una sola punta, e in quel Vicenza questa era rappresentata da Paolo Rossi, spostato dalla fascia al centro dell&rsquo;area di rigore. Prima, Rossi, non ancora Pablito, era un&rsquo;ala destra e nelle sei presenze al Como, dove la Juve lo aveva mandato in prestito, non convinse troppo: sei presenze e nemmeno un gol. Eppure Fabbri intravide in lui una rapidit&agrave; di riflessi che in area sarebbe diventata letale. Spostarlo in avanti fu un&rsquo;intuizione geniale che consegn&ograve; al calcio un cannoniere prolifico e che regal&ograve; a Bearzot l&rsquo;attaccante su cui puntare ai Mondiali d&rsquo;Argentina del 1978 e di Spagna nel 1982. Attorno all&rsquo;attaccante, prendeva posto una nutrita schiera di centrocampisti: Cerilli e Filippi ai lati, Salvi al centro, con Guidetti e Faloppa di rinforzo. La coppia Fabbri-Rossi funzion&ograve; subito a meraviglia: nel &lsquo;77, quest&rsquo;ultimo trascin&ograve; il Vicenza in Serie A, segnando ventuno reti. E al primo anno da titolare nella massima serie, riusc&igrave; addirittura a migliorarsi, realizzandone ventiquattro. Quello di &ldquo;Gib&igrave;&rdquo; era un calcio moderno e spettacolare. Per dogma, il primo attaccante della squadra doveva essere il portiere. E i terzini non si limitavano al lavoro sporco, ma dovevano attaccare e partecipare alla doppia fase. Il secondo posto del 1978 fu un traguardo fragoroso per i veneti, che in quell&rsquo;anno ottennero il miglior piazzamento della propria storia, chiudendo ad appena cinque punti dai Campioni d&rsquo;Italia. Nella stagione successiva, la 1978-79, il giocattolo del Vicenza si ruppe e l&rsquo;undici di Fabbri retrocedette in Serie B al termine di una stagione disgraziata che era partita sotto tutti altri auspici, con l&rsquo;acquisto alle buste di Paolo Rossi, strappato alla Juventus comproprietaria del cartellino. Una crisi di risultati nel finale di stagione (nemmeno una vittoria nelle ultime dieci gare), port&ograve; il Lanerossi alla retrocessione. Fatale la sconfitta a Bergamo all&rsquo;ultima giornata, che fece retrocedere in un colpo solo sia i veneti sia l&rsquo;Atalanta (destino comune: insieme erano salite nel 1977 e insieme tornarono tra i cadetti). Dopo quella caduta, Fabbri trover&agrave; gloria in Serie C, che aveva gi&agrave; vinto una volta col Piacenza (1975). Conquister&agrave; il campionato nel 1985 col Catanzaro e nel 1992 con la Spal, in quella provincia che era il suo terreno preferito. Giovanni Del Bianco

Giovan Battista Fabbri, 1926-2015

  La morte di G.B. Fabbri &egrave; stata la morte di un uomo che ha allenato per quasi 40 anni e in ogni categoria del calcio italiano: per avere un'idea di quante cose abbia visto (le ha anche raccontate in un bel libro uscito poco tempo fa, 'Gib&igrave;, una vita di bel calcio'), pensiamo alla differenza fra il giocare nella Centese nella serie C del 1945 e allenare il Vicenza (Lanerossi Vicenza) neopromosso che contese lo scudetto alla Juventus nel campionato di serie A 1977-78. La sua carriera 'vera' si &egrave; chiusa negli anni Novanta da direttore tecnico della SPAL, che pu&ograve; essere considerata la vera squadra della sua vita, ma non c'&egrave; dubbio che il suo nome sar&agrave; per sempre legato al Vicenza di Giussy Farina presidente e di Paolo Rossi, che lui nel campionato di serie B 1976-77 trasform&ograve; da ala destra ad attaccante vero. Con buoni esiti... Ma se tutti ricordano la carriera, al tempo stesso fortunatissima e sfortunata, di Paolo Rossi, sono di meno le persone che ricordano che G.B. (Giovan Battista) pur senza avere lasciato una traccia nella storia tattica del calcio (fu per&ograve; uno dei primi in Italia, insieme a Gigi Radice, a ispirarsi al modello olandese) ha avuto una solidissima carriera in provincia: quattro promozioni con quattro squadre diverse (Vicenza, Catanzaro, Piacenza e SPAL), mai la grande occasione in una metropoli (la citt&agrave; pi&ugrave; grande in cui ha allenato &egrave; Bologna, fece bene ma poi fu sostituito dal pi&ugrave; alla moda&nbsp;Maifredi) ma sempre il rispetto quasi unanime di colleghi e giocatori. &Egrave; inutile negare che il suo capolavoro sia stato quel Vicenza, un miracolo anche con i parametri dell'epoca e con una fine assurdamente rapida (difficile spiegare tutto con la cessione di Filippi). Certo &egrave; che &egrave; facile guadagnarsi belle parole da morto, mentre meno facile &egrave; avere il rispetto degli altri allenatori. Piccolo e incompleto elenco di tecnici che si ritengono allievi di G.B. Fabbri, o perch&eacute; hanno giocato per lui o perch&eacute; a lui si sono ispirati: Capello, Reja, Mazzarri, Delneri, Ranieri, Delio Rossi. Quasi tutti, come del resto il suo giocatore pi&ugrave; famoso, hanno mantenuto rapporti con il vecchio maestro quasi fino all'ultimo.  [gallery link="file" columns="4" ids="25423,25424,25425,25426"]  Twitter @StefanoOlivari

I ragazzi di di G.B. Fabbri

Adesso che &egrave; stata abolita dalla FIGC nell'ultimo consiglio federale, con decorrenza effettiva a partire dal 2015, apprendiamo da vari media che nessun grande club italiano amava la compropriet&agrave;. Tutti per la trasparenza, tutti pronti a relegare questo artificio alle storie di calciomercato dei tempi eroici. E vai con l'amarcord, a partire dai 2 miliardi 612 milioni 510 mila lire (abbiamo sempre trovato geniale la storia delle 510mila lire, anche se in realt&agrave; sarebbe ancora pi&ugrave; interessante il nome del consigliere che fece svenare Giussy Farina) che nel maggio 1978 il presidente del Vicenza mise nella busta, a fronte degli 875 milioni scritti da Boniperti per la Juventus: fa tuttora ridere che l'allora presidente della Lega Franco Carraro, non un omonimo, si fosse dimesso, in segno di protesta per l'immoralit&agrave; della cifra. Sul perch&eacute; il presidente federale Abete abbia preso questa decisione, in contrasto con il parere di molti club anche di serie A, ci sono pochi dubbi: dal punto di vista fiscale la compropriet&agrave; non era pi&ugrave; sostenibile, visto che nella maggior parte dei casi (ora nella sola serie A 164, sugli oltre 300 totali, per un valore di 130 milioni di euro) serviva solo a mascherare compravendite 'al 100%' facendo cos&igrave; pagare meno tasse (per parlare chiaro) al club che cedeva il giocatore. Ci sarebbe poi sempre stato tempo negli esercizi successivi per annacquare gli utili, utilizzando altre compropriet&agrave; (magari incrociandosi o triangolando sempre con le stesse societ&agrave;, con un meccanismo simile a quello delle plusvalenze). Una gigantesca finzione, provata dal fatto che solo in una minoranza di casi si sia andati alle buste sul serio. E adesso? La strada &egrave; solo quella del prestito con obbligo di riscatto, magari con il simpatico trucchetto di far iscrivere subito a bilancio le spese e di differire gli incassi (per la serie 'patto fra generazioni'). L'accelerazione di Abete &egrave; comunque sospetta e potrebbe essere stata consigliata da una rinnovata attenzione dell'Agenzia delle Entrate per certi bilanci, non solo per quelli della LegaPro. In altre parole, un segno di buona volont&agrave; fiscale in cambio di una pax pre-mondiale. &Egrave; una regola quasi fissa: mancando le partite, partono le inchieste.

Quei due miliardi per Paolo Rossi

Italia-Brasile del 5 luglio 1982 vincerebbe a mani bassi il sondaggio di 'partita della vita' per chi all'epoca era giovane. Una partita da ricordare con tenerezza, cos&igrave; come il tifo senza se e senza ma per la Nazionale a prescindere dai club di appartenenza dei convocati. Forse l'unica partita della storia del calcio in cui si &egrave; stati davvero dispiaciuti, al di l&agrave; del finto fair play che esiste anche ai giorni nostri, per la sconfitta del presunto avversario. Una partita che non finir&agrave; mai e che torna prepotente quando meno te la aspetti, senza bisogno di una puntata di Sfide. L'ultimo a riaprire la ferita, perch&eacute; &egrave; stata una ferita anche per noi italiani, &egrave; stato il grande Zico nel giorno del suo addio alla panchina della nazionale irachena: "Il Brasile aveva una squadra fantastica, riconosciuta in tutto il mondo, ovunque andiamo la gente ricorda quel team del 1982. Se avessimo vinto quella partita, il calcio probabilmente sarebbe stato differente. Invece, dopo di allora cominciammo a mettere le basi per un calcio nel quale bisogna conseguire il risultato a qualsiasi costo, un calcio fondato sulla distruzione del gioco avversario e sul fallo sistematico. Quella sconfitta non fu positiva per il mondo del calcio. Se quel giorno avessimo segnato cinque reti, l'Italia ne avrebbe segnate sei, perch&eacute; trovavano sempre il modo di capitalizzare i nostri errori". Amiamo Zico e la sua idea di calcio, sognando di vederlo sulla panchina del Brasile fra due anni per prendersi tutte le rivincite possibili. E' poi vero che quella partita, ma in parte anche Germania Ovest-Francia semifinale di quello stesso fantastico Mondiale, &egrave; diventata quasi un luogo comune per giustificare la tattica di allenatori che non osavano far usciore la squadra dalla propria met&agrave; campo. Non &egrave; per&ograve; vera l'equazione Italia 1982 uguale difensivismo. E non solo per la genesi dei tre gol di Paolo Rossi (il primo finalizzando di testa un'azione manovrata partita da Bruno Conti e proseguita con un cross di Cabrini, il secondo sfruttando un passaggio sbagliato degli avversari ed il terzo sugli sviluppi di un'azione da calcio d'angolo), ma per tutto lo sviluppo della partita, dove il Brasile ebbe sempre in mano il pallino del gioco ma senza mai schiacciare gli azzurri: la famosa parata di Zoff sulla linea di porta, quella al novantesimo su colpo di testa di Oscar, fu anche l'unica parata difficile di quel pomeriggio al Sarri&agrave; (come altre super-occasioni solo un tiro a lato di Serginho libero davanti al portiere). E quindi? Il 'nostro' Mondiale avrebbe dovuto essere Argentina 1978, mentre se esistesse un dio del calcio quello del 1982 sarebbe dovuto essere della meravigliosa (sia pure per cinque partite, fra cui quelle contro le modeste Scozia e Nuova Zelanda) di Tel&eacute; Santana. Ma il calcio e la vita sono ingiusti, anche se non lo accetteremo mai. Un Brasile campione del mondo a casa propria, 64 anni dopo Schiaffino-Ghiggia e 32 dopo Paolo Rossi, con il Galinho in panchina, sarebbe troppo bello e troppo giusto. E infatti non accadr&agrave;, visto che per il dopo Mano Menezes la CBF ha come favorito Scolari: non esattamente l'idea di calcio di Tel&eacute; Santana, di Zico e di chi ama il Brasile.

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