Gigi Meroni, la farfalla granata che volò tra anticonformismo e destino

Gigi Meroni, la farfalla granata che volò tra anticonformismo e destino

L’ala di Como, Genoa e Torino aveva grandi doti artistiche che esprimeva in campo e nella vita. Quando si sparse la voce di un possibile passaggio alla Juventus i tifosi minacciarono sfracelli. Morì a 24 anni investito da Romero, presidente del Toro dal 2000 al 2005 

Paolo Valenti/Edipress

28.02.2023 ( Aggiornata il 28.02.2023 12:05 )

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“Nuoto fra onde di sole, cammino nel cielo del mare. Ma chi erano mai questi Beatles?” cantavano gli Stadio tanti anni fa. Oggi come allora il mondo del calcio farebbe bene a chiedersi chi era Gigi Meroni, che dei Beatles era contemporaneo e di loro, in qualche maniera, portava negli stadi quei messaggi anticonvenzionali che nel nostro Paese, negli anni Sessanta, facevano fatica ad imporsi in un contesto conservatore come quello che ruotava intorno ai campi di gioco.

Gigi Meroni tra calcio e arte

Ma chi era Gigi Meroni? Per Gianni Brera "un simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti sornioni". Per taluni una farfalla che, coi suoi passi leggeri e i suoi dribbling imprevedibili, volteggiava sugli intenti vanamente oppositori di terzini aggrappati a opzioni extra regolamentari per provare a fermarlo. Per altri Calimero (soprannome che non amava particolarmente) per via della sua chioma scura e arrotondata, acconciata sulla falsariga delle pettinature più alla moda del periodo. Non era ancora, quella, l’epoca dei capelloni che avrebbero invaso i campionati di tutto il mondo nel decennio successivo: per questo motivo il look di Meroni colpiva e faceva discutere, anche se non era il solo aspetto per il quale la gente parlava di lui. Era diverso nel modo di porsi anche quando passeggiava per le strade di città indossando i vestiti che lui stesso aveva disegnato e poi fatto realizzare da un sarto di sua fiducia. Già, perché sin da giovanissimo ebbe modo di occuparsi non di solo calcio: la mamma era una tessitrice e lui, oltre che per il pallone, mostrò un talento precoce per il disegno e la pittura. Schizzi di capi d’abbigliamento (cravatte, vestiti, cappelli) e quadri riempivano gli spazi della mansarda di Piazza Vittorio dove abitava negli anni torinesi.

La mansarda torinese vissuta con Cristiana Uderstadt

Quella mansarda nella quale conviveva con Cristiana Uderstadt, bellissima ragazza strappata con la forza dell’amore a un matrimonio di cui non era mai stata convinta che, dopo l’annullamento della Sacra Rota, avrebbe a sua volta sposato, se solo il tempo a lui concesso glielo avesse permesso. Che amore quello per Cristiana, più forte delle pur forti convinzioni-convenzioni di un’Italia intrisa di una rigida morale cattolica non ancora scrollata dagli urti del Sessantotto e dalle limature del benessere. Descritto così, Meroni potrebbe apparire come un rivoluzionario animato da un furore antagonista, bisognoso di mostrare a ogni costo la sua idiosincrasia per gli schemi consolidati. In realtà, Gigi cercava l’originalità e la bellezza per attrazione soggettiva più che per desiderio di apparire. Le provocazioni che si concedeva, come le passeggiate portando al guinzaglio una gallina, erano innervate più di ironia che di rabbia giovanile. L’aveva capito anche un burbero tradizionalista come Nereo Rocco. Intervenuto ai tempi della polemica nata per via del rifiuto di tagliarsi i capelli per poter vestire la maglia della Nazionale, il Paron, suo allenatore al Toro, disse: "Ho paura che se gli tagliamo i capelli non sappia più giocare, come Sansone. E poi è talmente un bravo ragazzo, nonostante l’apparenza".

Gigi Meroni e quell’incidente fatale 

Si dice spesso che sono sempre i migliori ad andarsene per primi. L’addio di Gigi Meroni arrivò una sera di ottobre del 1967, a soli ventiquattro anni. Un incidente stradale raccontato mille volte, avvenuto in corso Re Umberto a Torino, lo sottrasse agli abbracci di chi lo amava e agli occhi degli appassionati che la domenica ne ammiravano le intuizioni che ammantavano di creatività le corse in pantaloncini dietro a un pallone. Un episodio nel quale il destino legato alla storia del Torino intrecciava ancora indissolubilmente l’amore alla morte, che ne sublimava l’essenza e lo rendeva immortale. Come era già accaduto il 4 maggio 1949, quando la storia dei granata più forti di sempre si infranse sulla collina di Superga stendendo un lutto cupo su una tifoseria che quasi vent’anni dopo si era ritrovata ad amare quella farfalla e a minacciare sfracelli quando si sparse la voce che la Juventus aveva fatto un’offerta irrinunciabile per portarlo via dal Toro. Scomparendo all’improvviso, con un carico di vivacità che dai ghirigori di campo si estendeva a momenti di vita quotidiana nei quali declinava diversamente il suo irrinunciabile afflato espressivo, Meroni trovò involontariamente il modo di rendere eterno il suo ricordo. Nella drammaticità del destino granata, il paradosso rimane quello legato alla macchina che per prima travolse Gigi: quella guidata dal giovane Attilio Romero, che di quel calciatore e del Toro era così tifoso che trentatré anni dopo ne diventò addirittura presidente. Una contorsione perversa degli avvenimenti che avrebbe potuto ispirare uno dei libri di Paul Auster sul potere decisivo del caso nelle nostre vite. Fu un addio lancinante, straziato dalle urla inconsolabili di Cristiana Uderstadt che da quell’amore fu recisa per tenerlo vivo per sempre.

Gigi Meroni, la farfalla granata travolta dalla sorte beffarda

Gigi Meroni è stato una delle prime icone pop provenienti dal mondo del calcio a cui il tempo non ha rubato splendore. È un esercizio meramente didascalico ricordarne i passaggi della carriera: gli esordi a Como dopo aver rinunciato all’Inter; le due stagioni a Genova, sponda rossoblù, dove respirò l’atmosfera culturale che stava formando Luigi Tenco, Fabrizio De André, Bruno Lauzi e Paolo Villaggio; l’appartenenza definitiva al Torino e il rapporto contrastato con la maglia azzurra, esauritosi nell’arco di quattro mesi (da marzo a luglio del 1966, con il mesto ritorno dai Mondiali inglesi e la relativa razione di pomodori guadagnata al rientro in Italia). L’amore della gente, la ricerca di significato, il suo modo di andare oltre le convenzioni rimangono una lezione di vita su cui molti calciatori di oggi, distratti dalla vacuità di post social e tatuaggi, potrebbero riflettere.    

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