Renato Copparoni, il primo portiere italiano a parare un rigore a Maradona

Renato Copparoni, il primo portiere italiano a parare un rigore a Maradona

Il numero 1 di origini sarde, nato il 27 ottobre 1952, si racconta in occasione dei suoi 70 anni: “Il mio idolo da bambino era Albertosi, dopo pochi anni eravamo compagni di squadra”

Massimiliano Lucchetti/Edipress

27.10.2022 ( Aggiornata il 27.10.2022 15:18 )

  • Link copiato

Nato nel 1952 a San Gavino Monreale, comune sardo della piana del Campidano, il giovane portiere Renato cresce nel Cagliari all’ombra di Albertosi, senza mai riuscire a esplodere definitivamente. Voluto a tutti i costi da Radice, riesce finalmente ad imporsi come titolare nel Torino e a rendersi protagonista di una delle più iconiche parate di un rigore, perché effettuata ai danni di - nientepopodimeno – sua Maestà Diego Armando Maradona. Copparoni chiude poi la carriera a Verona, per vestire infine i panni di preparatore dei portieri. 

Il primo portiere che hai incontrato sulla tua strada è stato un certo Ricky Albertosi, che ricordi hai di lui?

"Ricky Albertosi per me è stato un grande maestro, mi ha preso subito a ben volere e quindi ha facilitato il mio inserimento all’interno di quel gruppo che poi diventò campione d’Italia. Pian piano ero diventato un suo “pupillo”. Quando si era in aereo voleva sempre che io fossi accanto a lui. Si parlava un po' e per trascorrere il tempo giocavamo a carte. Un aneddoto: mentre ero con l’Under 21 al rientro da Parigi Ferruccio Valcareggi mi avvicinò e mi disse: “Hai davanti un grande portiere, cerca di rapirgli il più possibile i segreti del ruolo”. Ricky resterà sempre nel mio cuore come amico e fratello maggiore".

Quando il Cagliari scelse William Vecchi al tuo posto come titolare, fosti deluso?

"Nel 1974/75 iniziai io il campionato sino all’ottava giornata in quel di Napoli in cui dopo uno scontro con Clerici dovetti uscire dal campo per infortunio; solo a quel punto entrò Vecchi. La settimana successiva, esonerato Chiappella, arrivò Radice e lo confermò come titolare. William fece un grande campionato, con lui ho sempre avuto un ottimo rapporto continuato anche dopo aver terminato di giocare. Eravamo diventati entrambi preparatori di portieri (lui prima di me) e ogni tanto ci confrontavamo sui metodi di preparazione. Splendida persona, anche di lui mi è rimasto un ottimo ricordo".

L’anno della B, il 1976-77, ti vide titolare nella prima parte di stagione, per poi essere sorpassato nelle gerarchie da Roberto Corti, come è stato il vostro rapporto?

"Per dire la verità quell’anno persi il posto non per motivi tecnici ma perché dopo la gara con la Spal, l’allenatore Toneatto, non presente la domenica perché ammalato, cominciò a riprendermi continuamente durante la settimana. Sinceramente non ne capivo il motivo, poiché ero stato sicuramente il migliore in campo; la gara era terminata in pareggio, 1-1, ma io avevo salvato la porta almeno in tre, quattro occasioni; il venerdì all’ennesimo rimprovero piuttosto pesante lo mandai a quel paese in modo veemente e così mi mise in panchina. Entrò Roberto che si comportò abbastanza bene, ma io non potevo avercela con lui – che era tra l’altro un bravo ragazzo - ma a mente fredda solo con me stesso per la reazione eccessiva. Il mio carattere alquanto forte non mi permise di andare oltre l’ingiustizia subita dal mister. Il rapporto con Corti è sempre stato di reciproco rispetto, dividevamo anche la camera".

Decidi di andare al Torino in A, come riserva di Giuliano Terraneo prima e di Silvano Martina dopo. Nel mentre sei riuscito a dedicarti agli studi universitari. Una scelta non comune tra i calciatori?

"Non proprio per fare la riserva di Terraneo; in realtà andai perché Radice insisteva nel volermi, già nel 1975/76 (l’anno dello scudetto granata ndr.) avrei dovuto approdare lì; io non ero convinto, ma Riva, allora dirigente del Cagliari, mi disse che per me sarebbe stata un’ottima opportunità. La squadra granata nel 1978 pagò al Cagliari 400 milioni, tale cifra era vera manna dal cielo per le casse sarde: quell’anno eravamo rimasti senza stipendio per ben 5 mesi ma per il bene del Cagliari e dei tifosi, noi giocatori non ce la siamo sentita di metterla in mora perché sarebbe sparita dal calcio. Con Martina ho fatto il primo anno da secondo ma l’anno successivo dopo un infortunio di Silvano ho giocato tutto il campionato. Ritornando ai primi anni nel Toro, certo non ero soddisfatto dal punto di vista sportivo e così mi rifugiai nello studio conseguendo la Laurea in Scienze Politiche. Accontentai mio padre per cui - mi confessò - quel giorno fu per lui il più bello della sua vita".

"L’annata 1985-86 finalmente ti diede la possibilità di dimostrare le tue qualità. Sei stato il primo portiere italiano a parare un rigore a Maradona? A fine partita ti disse qualcosa? Pensi sia stata la soddisfazione più grande della tua carriera?

"Quell’anno disputai, a detta di tutti, un grande campionato, coronato con il rigore parato a Maradona. Certamente parare un tiro dal dischetto al più grande giocatore del mondo per un portiere è come vincere - esagerando un po’ - uno scudetto. Radice mi disse: “Coppa questo è un sigillo che nessuno potrà toglierti, resterà negli annali e nel ricordo di tutti”. Non si sbagliò. Con Diego ci siamo affiancati al ritorno negli spogliatoi e salutandomi mi disse bravo. Nel tempo mi sarebbe piaciuto incontrarlo per ricordare quel momento e scambiarci le sensazioni provate, nell’essere io il primo portiere a paragli un rigore e lui ad avere sbagliato per la prima volta in Italia e a Napoli. Non è capitato. Peccato".

Una curiosità mia, negli ’80 giocavi con i guanti ALL STAR, è vero che sei stato il primo in Italia?

"Erano dei guanti della FABRA dell’amico Giancarlo Raviolo, siccome era anche rappresentante della ALL STAR gli chiesi se nei guanti che usavo poteva inserire nel dorso una stella, mi disse di sì e così è nato il guanto con la stella. Sicuramente sono stato il primo portiere a utilizzarli".

Ultimo anno a Verona. Che ricordi hai?

"Nel 1987 a fine campionato, pur avendo ancora un anno di contratto con il Toro, decisi di   stracciarlo perché non mi ritrovavo più in sintonia con Radice. Come detto non amo le ingiustizie e coloro che non mantengono la parola. Rifiutai l’Inter per la parola data a Radice, lui non mantenne la sua. Così andai al Verona di Bagnoli, grande uomo e allenatore, dove mi trovai subito a mio agio, accettato dal gruppo e divenni grande amico del povero Giuliani. Anche i tifosi mi presero a ben volere e mi diedero anche la tessera delle Brigate GialloBlu".

Hai condiviso lo spogliatoio con diversi ottimi numeri uno. Quale è stato il migliore secondo te?

"Risposta scontata, sicuramente Ricky Albertosi che reputo ancora il più forte portiere italiano della storia. Ricky è stato un vero talento “naturale” gli altri, bravi ma costruiti".

Avevi un idolo in gioventù?

"Quando a 15 anni giocavo in seconda categoria nella squadra del mio paese, San Gavino Monreale, ironia della sorte il mio idolo era proprio Albertosi, allora nella Fiorentina e poi compagno di squadra. Incredibile".

L’allenatore a cui devi di più?

"Ho due allenatori che mi hanno permesso di arrivare a giocare in Serie A. Il primo è Mario Tiddia che vedendomi giocare nei dilettanti insistette presso i dirigenti del Cagliari affinché mi prendessero. Ironia della sorte, lo ritrovai come allenatore in prima squadra. Il secondo è Geza Boldizsar, ex portiere della nazionale ungherese e allenatore della Primavera del Cagliari. Mi ha costruito sia fisicamente che tecnicamente, mi faceva un allenamento individuale la mattina e nel pomeriggio lavoravo con la squadra. Il resto è venuto nel tempo ma se non ci fossero state queste due persone forse oggi non sarei qui a rispondere alle tue domande. Nella vita c’è sempre qualcuno a cui uno deve dire grazie e per me sono loro".

Il compagno con cui hai legato maggiormente?

"Il compagno di squadra a cui sono legato maggiormente è Oreste Lamagni, nel Cagliari. Quando sono arrivato al Toro ho stretto una forte amicizia con Claudio Sala prima, e Beppe Dossena poi. Due persone splendide".

La partita a cui sei più legato?

"Ho diverse partite a cui sono legati bei ricordi. La prima è il giorno del mio esordio in Serie A, 13 maggio 1973, Cagliari-Torino. La seconda nel 1976 Juventus-Cagliari in cui parai tutto e fui battuto solo su calcio di rigore da Damiani. La terza ma solo in ordine cronologico è Napoli-Torino con il rigore parato a Maradona".

Hai fatto il preparatore dei portieri fino a pochi anni fa, pensi che l’evoluzione del ruolo abbia preso una piega sbagliata?

"Rispetto ai miei tempi il ruolo del portiere si è molto evoluto. Una volta ti chiedevano solo di parare, quindi proteggere la porta, poi hanno chiesto di coprire anche gli spazi con uscite dentro e fuori area. Poi ancora di giocare con i piedi e infine siamo finiti anche a dover fare partire la costruzione del gioco. Vedete quante cose sono richieste al portiere e questo comporta che a volte si commettono anche degli errori grossolani. Si richiede molto, non so se sia sbagliato, sta di fatto che l’evoluzione del gioco ti porta a questo, con metodi di allenamento molto diversi dai miei tempi".

I tre portieri italiani più forti oggi?

"Una volta eravamo la migliore scuola di portieri, adesso abbiamo lasciato qualcosa; le nuove metodologie di lavoro forse hanno inciso su questa flessione però ci sono numeri uno italiani che fanno ancora la differenza. Penso a Donnarumma, che si sta riprendendo, come lui anche Meret e poi Vicario. Non capisco come mai un portiere come Cragno non trovi spazio nel Monza. Fino allo scorso anno nel Cagliari era considerato tra i più forti e continui portieri del campionato e ora… misteri del calcio".

 

 

Condividi

  • Link copiato

Commenti