Carmine Gautieri: La Roma e Zeman, il massimo

Carmine Gautieri: La Roma e Zeman, il massimo

L'ex calciatore ricorda le esperienze di Trigoria e Bergamo: "Due grandi realtà del nostro calcio ma il club giallorosso è unico"

Paolo Valenti/Edipress

24.04.2023 ( Aggiornata il 24.04.2023 12:40 )

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Carmine Gautieri è un doppio ex di Atalanta e Roma: coi giallorossi ha giocato dal 1997 al 1999, coi bergamaschi dal 2002 al 2004. In questa intervista racconta le sue esperienze in due piazze così diverse.

Carmine, quale delle due città hai trovato più affine alla tua personalità?

"Sono stato benissimo in entrambe, anche se Roma mi è rimasta dentro. Penso che Roma sia una delle città più belle del mondo: chi ha giocato a Roma si deve ritenere fortunato, non è da tutti. I due anni passati nella Capitale sono rimasti indelebili. Come ho detto sempre, un giorno spero di ritornarci: Roma è Roma. Bergamo è una città completamente diversa, dove comunque sono stato bene. Ma se dovessi decidere dove vivere, sceglierei Roma tutta la vita: per il modo di fare, per la passione della gente, per la città".

Perché c’è una rivalità così sentita tra le due tifoserie?

"È difficile rispondere. Sono due tifoserie simili, nel senso che trattano la squadra della città come se fosse una figlia, la cullano anche nei momenti di difficoltà. Non so perché c’è questa grande rivalità, sinceramente non l’ho mai capito, forse c’è stato qualcosa in passato. Entrambe le tifoserie, comunque, vivono la propria squadra in modo ugualmente viscerale".

Come avvenne il tuo passaggio alla Roma?

"All’epoca giocavo a Perugia. Finito il campionato mi chiamò il mio procuratore e mi riferì che mi aveva cercato Franco Sensi. Io gli dissi che avrei preso il treno la mattina dopo per essere a Roma, anche se bisognava ancora sistemare le cose col Perugia, perché il presidente Gaucci, seppur tifoso dei giallorossi, non voleva cedermi. Il procuratore mi suggerì di chiamare Gaucci, che mi chiese cosa volessi fare. Gli spiegai che a Perugia ero stato benissimo ma che la Roma era la Roma e avrei voluto andare. Gaucci capì e mi disse di farlo richiamare dal procuratore per sistemare le carte. Arrivai così a Trigoria e ricordo che mentre aspettavo di entrare nella stanza del presidente incontrai Bruno Conti: ero emozionatissimo, non credevo di poter stare lì. Devo ringraziare ancora Zeman e Franco Sensi per quella trattativa. Lui mi chiese se volevo venire a Roma e io gli risposi: “Subito presidente, prima che ci ripensi lei!”. Per me era incredibile, un motivo di soddisfazione e di crescita far parte di un gruppo con Totti, Aldair, Candela, Cafu. Fu l’unica esperienza della mia carriera nella quale, quando entravo in campo, mi guardavo la maglia e pensavo: cavolo, gioco nella Roma, non è da tutti! Roma ti rimane dentro e un giorno spero di poterci ritornare, magari anche solo da magazziniere!".

Ne hai mai avuto l’opportunità?

"Quando la Roma voleva fare la seconda squadra ci furono dei colloqui. Erano i tempi in cui Di Francesco era allenatore e Totti dirigente, so che parlarono bene di me. Ma poi non se ne fece nulla".

Perché eri un pupillo di Zeman?

"Per le caratteristiche che avevo. Lui volle me invece che Finidi forse perché, anche sbagliando, cercavo sempre di fare alla lettera quello che chiedeva. Evidentemente vedeva in me le caratteristiche giuste per il suo sistema di gioco, non ultima quella di riuscire a entrare bene in partita dalla panchina. Mi ritagliai il mio spazio, pur avendo davanti grandi giocatori, mettendomi a disposizione e facendo ciò che chiedeva lui".

Sappiamo che la preparazione fisica è un suo tratto distintivo. Dal punto di vista mentale Zeman come sollecita i calciatori?

"Effettivamente la sua preparazione fisica era molto pesante: al termine dell’allenamento eravamo degli zombie che dovevano essere imboccati per riuscire a mangiare! Però i benefici di quella preparazione, noi che l’abbiamo sperimentata, li sentiamo ancora oggi. Ma anche dal punto di vista psicologico sapeva stimolarti. Era una persona corretta che ha insegnato tanto sotto l’aspetto fisico, della comunicazione e del rispetto. Se un allenatore ti fa lavorare tanto ma ti rispetta, alla fine io credo che ogni essere umano è disposto a dare il massimo. Anche perché lui era uno che nei momenti di difficoltà ti proteggeva".

Pensi che il suo modo di porsi con l’ambiente possa aver condizionato in campo i risultati della Roma di quegli anni?

"Mi auguro che non sia stato così. Vorrebbe dire che non ci sono regole. Indubbiamente in quel periodo in campo qualcosa subimmo: mi auguro solo che non sia stato perché Zeman disse che il calcio doveva uscire dagli uffici finanziari e dalle farmacie. Se è stato per quello, sarebbe una cosa gravissima. Se all’epoca ci fosse stato il Var molte cose non sarebbero successe. Comunque un’affermazione la posso fare con certezza: tutta la vita avere a che fare con uomini come Zeman".

Qual è la partita più bella che ricordi di aver giocato con la Roma?

"Il derby vinto per 3-1 (11 aprile 1999, ndr). Ricordo che Zeman mi fece giocare dall’inizio nonostante non mi avesse provato tra i titolari per tutta la settimana: avevo i battiti a settemila! Fu una soddisfazione incredibile, dato anche il valore di quella Lazio. Una goduria impressionante".

Perché lasciasti la Capitale?

"Avevo un’offerta dal Piacenza e parlai con Capello per capire come mi vedeva. Mi disse che mi considerava ma che davanti a me c’erano Cafu e Tommasi. Così decisi di andar via, anche se fu un trauma".

Come definiresti l’esperienza fatta a Bergamo?

"Trovai una società modello. A Bergamo c’è una mentalità, una cultura impressionante: lì vogliono sempre crescere e questo porta ai risultati che si vedono oggi. È stata un’esperienza bellissima durante la quale sono maturato. Ho grandissimi ricordi anche perché abbiamo conquistato una promozione dalla B. Pure oggi la gente dimostra grandissimo affetto nei miei confronti".

Puoi raccontarci un aneddoto particolare della tua esperienza romana e uno di quella bergamasca che possono incuriosire?

"Un giorno a Trigoria Francesco mi disse: “Ahò, sei solo stasera?”. Gli risposi di sì. “Allora vieni a mangiare da me la cotoletta che cucina mia mamma”. Io ero un po’ imbarazzato, gli dissi che non faceva niente e che avremmo potuto fare un’altra volta. Al che lui mi rispose: “Oh, nun rompe er … stasera vieni a magnà la cotoletta!”. Con l’Atalanta, invece, ricordo che andammo a giocare a Livorno in un periodo che si diceva che dovevo andare via. Quando uscimmo per testare il campo, c’era la curva con tantissimi tifosi dell’Atalanta che avevano esposto uno striscione con scritto: “Gautieri non si tocca”. Poi il martedì vennero all’allenamento e mi dissero che una cosa del genere l’avevano fatta solo per due persone: Caniggia e me. Una cosa che mi è rimasta dentro, anche per via della rivalità che c’è tra napoletani e bergamaschi, per la quale non mi aspettavo che potesse verificarsi un episodio del genere".

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