Luigi Garzya: "Per la Roma ho sempre dato il cuore"

Luigi Garzya: "Per la Roma ho sempre dato il cuore"

L'ex difensore ricorda i suoi anni nella Capitale. "Giocavo con dei grandissimi campioni. I tifosi mi sono rimasti dentro"

Paolo Marcacci/Edipress

23.02.2023 ( Aggiornata il 23.02.2023 10:31 )

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Era in campo tra i titolari di quel Roma-Wacker Innsbruck, gara di ritorno dei trentaduesimi di finale della Coppa Uefa 1992-93, Gigi Garzya, in maglia giallorossa dal ‘91 al ‘94. 
"Ne ho giocate parecchie di queste partite, il risultato molto rotondo dell’andata non deve trarre in inganno: chiaramente eravamo superiori, ma gli austriaci erano una buona squadra, molto tignosa e lo dimostrarono nella gara di ritorno".

All’epoca venivi descritto come “uno che mordeva le caviglie”, ti rivedi in questa definizione? 

"Sì, se con questa definizione si vuole intendere, oltre alla caratteristica di marcatore arcigno, anche il fatto che perseguivo sempre la massima soglia di concentrazione: siccome mi consideravo un giocatore “normale” che aveva la possibilità di condividere lo spogliatoio con straordinari campioni, allora per meritarmi questa possibilità dovevo sempre stare “sul pezzo”, dare il cento per cento, mai nulla di meno. Lasciami dire che questa caratteristica, indipendentemente dal livello tecnico dei giocatori che hanno vestito questa maglia, i tifosi della Roma l’hanno sempre apprezzata, hanno sempre saputo riconoscere e premiare quei giocatori che hanno versato fino all’ultima goccia di sudore".



Hai sempre detto di esserti innamorato dell’Olimpico da spettatore…

"Qua parliamo di piccoli miracoli, se così possiamo definirli… perché durante il servizio militare, nella primavera del ‘91, mi ero trovato nei pressi dell’Olimpico la sera della semifinale Uefa di ritorno tra Roma e Broendby. Ecco, già soltanto a sentire quel clamore, il rimbombo di quella passione, bastò per farmi esprimere il desiderio di poter giocare un giorno nella Roma. Beh, circa quattro mesi dopo la possibilità si concretizzò e, davvero, non riuscivo a crederci. Così come non potrò mai dimenticare la prima volta all’Olimpico con la maglia giallorossa, in Coppa delle Coppe contro il CSKA Mosca, il 2 ottobre del ‘91. Un conto era venirci da avversario, un altro scendere in campo come giocatore di casa… il mio legame con la Curva Sud nacque quasi subito, ricordo che avevo l’abitudine di uscire per primo durante il riscaldamento e salutare quella gente meravigliosa, che mi è rimasta nel cuore".

Bianchi, Boskov, Mazzone: a Roma hai avuto tre grandi allenatori, tre personaggi a loro modo unici.

"Innanzitutto tre personalità molto forti, anche se differenti tra loro. Ottavio Bianchi dovrò ringraziarlo finché campo, perché fu lui a volermi alla Roma. Carlo Mazzone un sergente di ferro ma con tratti da padre, tra l’altro lo avevo conosciuto già a Lecce. Di Boskov si percepiva, oltre al fatto che era davvero una gran bella persona, il fatto che aveva frequentato i più prestigiosi scenari calcistici in varie parti d’Europa. Fammi tornare un attimo su Bianchi però: uno come lui, che aveva allenato Maradona e vinto così tanto a Napoli, all’esterno appariva gelido, molto chiuso. In realtà, frequentandolo dall’interno ti posso dire, perlomeno per quella che è la mia esperienza, che era non solo una brava persona, ma addirittura un uomo dolce, molto corretto".

Giannini, Aldair, Hssler: hai avuto la possibilità di giocare con grandi calciatori. 

"Hai nominato tre fenomeni, tra i vari che ho avuto come compagni. Gente che fino a poco tempo prima avevo soltanto potuto ammirare attraverso la televisione. Già soltanto il fatto di potermi considerare loro compagno era un onore. Ti faccio un paio di esempi: Giannini bastava osservarlo attraverso la tv per capire che fosse un grande giocatore, ma soltanto giocandoci assieme mi sono potuto rendere conto della qualità di ogni sua giocata, della sua visione della manovra, della pulizia del suo tocco. Di Aldair, che era mio compagno di reparto, ti dico che era già uno dei più grandi difensori, ma oggi sarebbe il numero uno per distacco. Giocherebbe con la sigaretta in bocca: dava l’impressione di andare piano e arrivava prima; talmente bravo palla al piede che non ho mai capito se fosse destro o sinistro. Faceva giocare meglio chiunque gli stesse accanto. Difensori così forti non ce ne sono più stati, oggi c’è molta meno specificità del ruolo, molta più approssimazione nelle marcature. A questo proposito, fammi dire che i tre della Roma, a cominciare da Smalling, sono tra i pochi che mi ricordano i difensori “tosti” del passato: Mancini ha una grande carica e una grande attitudine al controllo, Ibanez un fisico straordinario".



Tra i tuoi compagni in quella Roma c’era anche Sinisa Mihajlovic.

"È stato un grande dolore, per me. Ho il ricordo di un ragazzo che era così come lo vedevi: un gigante tostissimo che sapeva essere ironico e divertente. Non lo dimenticherò mai non solo per il grande giocatore che già era, ma anche perché con lui parlavo molto".

Una curiosità: la tua passione per la musica, la tua smisurata collezione di dischi…

"Una passione che ho da sempre, senza distinzione tra i generi: amo e acquisto dal rock, al pop, soul, funky, rap, senza mai dimenticare i cantautori. Ma da qualche tempo amo anche l’arte e mi pento di non aver avuto prima questa passione: avrei buttato meno soldi in cose futili e acquistato qualche capolavoro".

Perché quella tua Roma non riuscì a vincere?

"Perché c’era un campionato di fenomeni".

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