Roma-Fiorentina nel nome di Gigi Radice

Roma-Fiorentina nel nome di Gigi Radice

Il figlio Ruggero racconta il papà nel giorno in cui avrebbe compiuto 88 anni: "Una stagione nella Capitale ma era innamorato di città e tifosi. A Firenze ricordi e rimpianti"

Paolo Valenti/Edipress

15.01.2023 ( Aggiornata il 15.01.2023 17:51 )

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Nella lunga carriera da allenatore di Gigi Radice, caratterizzata soprattutto dall’esperienza vissuta con il Torino, col quale vinse il primo (e finora unico) scudetto dopo la tragedia di Superga, gli anni trascorsi a Roma e Firenze hanno lasciato un segno importante. Li abbiamo ripercorsi grazie ai ricordi che ci ha regalato in questa intervista il figlio Ruggero, affezionato custode della memoria di un padre che fu tra i primi a dare al calcio italiano l’impronta della modernità.

Negli anni Settanta Gigi Radice predicava principi di gioco che venivano considerati all’avanguardia: di lui Eraldo Pecci, suo ex giocatore, disse che aveva portato l’Olanda in Italia. Ci puoi raccontare quali erano le sue convinzioni tattiche?

"A papà piaceva il pressing alto, il recupero della palla, che tutti i giocatori partecipassero sia alla fase difensiva che a quella offensiva. Teneva la difesa alta e le sue squadre avevano la caratteristica della riaggressione veloce e della verticalizzazione del gioco. È stato un precursore di quello che si fa oggi".

Tuo padre è stato un doppio ex di rilievo di Roma-Fiorentina, avendo allenato entrambe. Hai qualche ricordo, qualche aneddoto tramandato del primo anno a Firenze, stagione 1973-74?

"Ti direi una bugia se rispondessi a questa domanda. Ero troppo piccolo e anche negli anni a seguire non è capitato di parlare con lui di situazioni legate a quella stagione".

L’approdo alla Roma avvenne nell’estate del 1989. In quel momento la società non aveva grandi mezzi economici e puntò su Radice per trasmettere forti motivazioni alla squadra. Come approcciò tuo padre a quell’esperienza?

"Mio padre cose facili inizialmente ne ha avute poche. Il primo impatto con Roma fu particolare: la piazza storse un po’ il naso perché lui sembrava un ripiego, non era il nome che ci si aspettava e quindi c’era diffidenza. Piano piano, invece, con la sua testardaggine e il suo impegno nel lavoro, creò un bel rapporto col gruppo, sia con i senatori come Bruno Conti sia con i giovani, che si tradusse poi nei risultati. Inoltre il fatto che si giocava al Flaminio contribuì a unire la squadra ai tifosi. E poi ci fu, dopo tanti anni, la vittoria del derby ad aumentare quell’unione. Fu una stagione che oggi a Roma ricordano ancora in tanti".

C’era un giocatore in quella squadra che tuo padre apprezzava particolarmente?

"Non saprei. Sicuramente papà ha sempre avuto un grandissimo rapporto con Antonio Comi, tanto che lo portò proprio a Roma. Comunque non era il suo preferito: aveva trovato uno spogliatoio nel quale si trovava bene con tutti. Come del resto anche alla Fiorentina quando subentrò a Lazaroni".

Come si sviluppò il rapporto con la città?

"Papà si trovò molto bene. Lui voleva sempre “vivere” le città in cui andava per cui aveva scelto di stare in centro. Spesso il venerdì sera portava a cena fuori i giocatori scapoli. Va da sé che a Roma in centro non si può star male…".

Fu una buona stagione, al termine della quale non ci fu la conferma perché Dino Viola aveva già un accordo con Ottavio Bianchi per l’anno successivo. Come visse quella situazione?

"Mio padre non sapeva nulla di Bianchi, ne venne a conoscenza solo successivamente. Sicuramente fu una delusione enorme perché di solito quando un allenatore fa una buona stagione poi viene confermato".

Radice tornò a Firenze nel 1991-92, chiamato a riportare in carreggiata una squadra che con Lazaroni stava faticando.

"Ricordo che la prima partita con lui la Fiorentina pareggiò 1-1 a Milano contro l’Inter. Poi il resto della stagione fu positivo tanto è vero che fu confermato e l’anno seguente iniziò molto bene sia dal punto di vista dei risultati che del gioco".

Quella stagione 1992-93 fece scalpore: viola secondi in classifica, squadra con ottimi giocatori e Radice che viene clamorosamente esonerato dopo una sconfitta casalinga con l’Atalanta. Cosa successe?

"Ci fu la scelta di mandare via mio padre, peraltro con modalità non elegantissime che sono sotto gli occhi di tutti, che un professionista come lui non meritava. Poteva essere una stagione pazzesca, la Fiorentina aveva fatto delle ottime partite. Ma adesso non voglio alimentare una polemica che non avrebbe senso, mi fermo qui".

Torino, Milano, Firenze, Roma: città importanti, piene di storia, cultura, aspettative e passione. Credi che ce ne sia una che ha lasciato un’impronta maggiore di altre in tuo padre?"

"Il Milan come squadra e Milano come città sono state senz’altro importanti perché è lì che papà ha iniziato la carriera. A Torino c’è stato dieci anni raccogliendo uno scudetto e un secondo posto. Poi l’anno di Roma è stato un ricordo fantastico per lui mentre quando stava a Firenze, vivendo anche lì in centro, aveva avuto l’opportunità di conoscere alcuni artisti. Anche Cagliari, Bari, Genova sono stati bei contesti, occasioni per avere bei ricordi e creare amicizie che anche noi figli, di riflesso, abbiamo vissuto e ci sono rimaste".

Si è detto molto di tuo padre: che era un sergente di ferro, che aveva gli occhi di ghiaccio, che era burbero nei modi. Molti giocatori gli hanno riconosciuto comunque un’invidiabile onestà nei rapporti. Chi era il Gigi Radice professionista?

"L’etichetta di sergente di ferro non gli si addice molto. Certo, quando si lavorava chiedeva il massimo da se stesso e dagli altri. Ma per un professionista credo che questa sia la normalità. Considera che lui fu uno dei primi ad abolire i ritiri, a dare fiducia ai ragazzi, a cercare di avere con loro un normalissimo rapporto fuori dal campo. Un’altra sua caratteristica era quella di essere molto diretto e di non fare sconti a nessuno: se stava meglio un giovane di un giocatore rappresentativo, lui lo faceva giocare. In questo era molto onesto e sincero come la gran parte degli allenatori che hanno credibilità dentro uno spogliatoio. Papà non era un tipo di molte parole ma sapeva quando dirle ed era efficace. Ecco perché gli occhi di ghiaccio: bastava uno sguardo per farti capire cosa potesse pensare"

E com’era come padre?

"Io l’ho sempre preso come riferimento per l’educazione e il fatto di credere nell’abnegazione, nelle cose che uno fa: mi ha sempre insegnato questo, il fatto di fare al 100% quello che si crede sia giusto. È stato un insegnamento molto libero, senza condizionamenti".

Degli allenatori odierni chi vedi più simile a tuo padre?

"Il calcio è cambiato tantissimo, sinceramente non lo so. Certo, quando vedo una squadra che fa il pressing me lo ricorda ma non vedo un allenatore in particolare che gli somigli".

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