Robert Pirès, il funambolo francese che incantò i tifosi dell'Arsenal

Robert Pirès, il funambolo francese che incantò i tifosi dell'Arsenal

L'ala di Reims, figlia di un portoghese e di una spagnola, vinse mondiale ed europeo con la nazionale tra 1998 e 2000, diventando poi stella dell'Arsenal. Regalò a Trezeguet l'assist per il gol decisivo contro l'Italia nella finale di Euro 2000

Alessandro Ruta/Edipress

29.10.2023 ( Aggiornata il 29.10.2023 13:12 )

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In quella Francia capace di vincere mondiale ed europeo nel giro di due anni tra il 1998 e il 2000 era solamente una riserva, eppure Robert Pirès non si faceva problemi al momento di rispondere presente. I titolari erano altri? Pazienza, a lui sarebbe bastato poco per risultare decisivo. E del resto i tifosi italiani se si ricordano il golden gol di Trezeguet nella finale di Euro 2000 bisogna aggiungere che l'assist per quella rete glielo fornì dopo l'ennesimo dribbling ubriacante proprio Pirès, entrato da pochi minuti.

Pirès, sangue misto

Che Francia, la Francia del "black-blanc-beurre", composta da neri di origine africana o di pelle bianca o eredi dei popoli arabi: fu un successo clamoroso di integrazione in cui ogni giocatore era una storia a sé. C'erano i figli degli africani, come Desailly o Vieira, degli armeni come Djorkaeff o degli algerini come Zidane, quelli della Nuova Caledonia come Karembeu e i bianchi talmente bianchi che uno, Blanc, si chiamava proprio così: una generazione d'oro capace di conquistare tutto in pochi anni.

Lì in mezzo cercava spazio il figlio di un carpentiere portoghese e di una donna delle pulizie spagnola nato a Reims, la culla dello champagne: Robert Pirès, con l'accento da non sbagliare per pronunciare il cognome al meglio e far risaltare la "s", molto latina. Papà Antonio, tifoso del Benfica, è scappato dal Portogallo alla Francia sostanzialmente per evitare di andare a combattere sul fronte angolano, da Ponte de Lima a Reims è veramente una traversata nel deserto per l'epoca; istinto di sopravvivenza, come un dribbling. Suo figlio Robert diventerà un maestro nel gioco stretto, nel tocco a sensazione ma mai fine a sè stesso, il gusto di saper giocare a pallone.

Anche il fratello della madre, José, è un portento con la palla tra i piedi. E se giochi così a Reims prima o poi ti viene a vedere il più grande calciatore mai uscito da quella zona, Raymond Kopa: due segnalazioni, qualche provino, ma José non ha la testa e finisce a lavorare in fabbrica. Riesce a influenzare il nipote, comunque, che però capisce che l'importante oltre al talento è l'applicazione. "Non avevo in mente di diventare un professionista all'inizio". Anche papà Pires gioca, ma non si allontana mai dall'officina, dove ha lavorato fino alla fine, regolarmente, arrivando alla pensione e tutto.

Gli inizi di Robert, gracilino, al Reims non sono granché. D'improvviso, a 15 anni, cresce di 20 centimetri in pochi mesi e cambia tutto: il fisico in particolare, ma anche la consapevolezza, un conto è guardare il mondo da un metro e sessanta e un conto da oltre un metro e ottanta, quasi 1.85. Così, con quelle gambe lunghe, l'arte del dribbling si colora in modo diverso. Il Reims intanto fallisce e Pirès deve spostarsi e va qualche chilometro più a nord, al Metz, famoso per aver scartato in passato Platini: è un trionfo, da outsider completo vince la Coppa di Lega e arriva addirittura secondo in campionato nel 1998 dietro al Lens, a pari punti ma dietro per la differenza reti. Una squadra tostissima quella con una forte tinta camerunese, da Songo'o in porta a Song in difesa a Mboma in attacco.

Arriva il Benfica a fargli la corte, forte della nazionalità del padre e del tifo di Antonio Pirès: tre stagioni di fila in doppia cifra sono un bel biglietto da visita, ma arriva prima il Marsiglia. Intanto però pur da riserva Robert vince il mondiale: è la prima o seconda riserva tra gli esterni, gioca da titolare contro la Danimarca nel girone di qualificazione agli ottavi, mentre entra dalla panchina per dare l'assalto al Paraguay sempre agli ottavi. Una presenza discreta, ma importante nel gruppo, con il ct Jacquet che lo stuzzica, gli chiede di essere più cattivo.

Pilastro dell'Arsenal

Lo stesso ruolo Pirès ce l'ha anche a Euro 2000, il cambia-partite dalla panchina. Fa così in semifinale contro il Portogallo e soprattutto in finale contro di noi, quando entra a 4' dalla fine per Lizarazu, ultima sostituzione di Lemerre che nel frattempo ha sostituito Jacquet mantenendo la stessa ossatura di squadra: è la mossa della disperazione, ma che dà i suoi frutti, perché da 0-1 la Francia rimonta con Wiltord e Trezeguet. La rete che chiude la partita nasce dall'ennesimo dribbling di Pirès, a sinistra, la difesa italiana ormai è a pezzi e Robert ci sguazza, sterzata su Cannavaro e cross in mezzo per il centravanti, che di sinistro fulmina Toldo.

L'estate del 2000 è quella che porta Pirès all'Arsenal di Arsène Wenger, una squadra che sul bel gioco ha costruito la sua leggenda. Il francese a sinistra, Ljungberg a destra, Bergkamp e Henry come attaccanti: saranno sei stagioni assolutamente irripetibili, con due Premier vinte e 87 gol segnati, roba da attaccante. Sfiora anche la Champions League, con la finale persa nel 2006 contro il Barcellona che è anche una delle sue ultime apparizioni con i Gunners.

Ha quasi 33 anni, Robert, ma non ha perso il tocco. Finisce a giocare in Spagna, al Villarreal, dove arretra il suo raggio d'azione. Non è più un esterno imprevedibile, ambidestro e dal gran fiuto del gol, ma diventa più cerebrale, più mezz'ala. Una squadra divertente in un ambiente tranquillo, il massimo della vita, e poi al caldo del sud della Spagna, un clima che adora. Anche per questo motivo tira avanti fino al 2010 con pochissimi infortuni, deliziando i tifosi del "Sottomarino giallo", che nel 2008 arriva addirittura secondo nella Liga. L'ultima esperienza, all'Aston Villa, poco più che una comparsata.

Un peccato non aver mai potuto vedere Pirès in Italia, questo sì: giocatore assolutamente elettrizzante, forse poco reclamizzato nel corso della sua carriera, mai sopra le righe, simbolo di quelle squadre che hanno sempre privilegiato far cantare il pallone.

 

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