Pietro Anastasi, il bomber di provincia che portò l'Italia sul tetto d'Europa

Pietro Anastasi, il bomber di provincia che portò l'Italia sul tetto d'Europa

Dagli esordi alla Massimiana fino alla Juventus, club del quale divenne un'icona. Nella finale contro la Jugoslavia nel '68 segnò il gol che fece partire la festa all'Olimpico

Paolo Marcacci/Edipress

07.04.2023 ( Aggiornata il 07.04.2023 08:42 )

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Pietruzzo non aveva coscienza di quello che per tanti rappresentava; non aveva nemmeno le scarpe, per dirla tutta. O, meglio, per giocare le toglieva, perché se si fossero rovinate non ne sarebbero arrivate altre. Pietruzzo anche in Serie A controllava il pallone a stento, poi nel rincorrerlo gli toccava bruciare gli altri sul tempo: è la solita storia di quelli che partono da dietro, o da sotto se preferite, senza possibilità di fermarsi a riprendere fiato. La solita storia ma con un finale insolito, che proprio per questo divenne l’orgoglio di molti: di tutti quelli per i quali il fischio d’inizio era la sirena che apriva il turno in catena di montaggio, con gli ultimi giorni del mese che entravano duri a far perdere l’equilibrio a ciò che rimaneva d’una busta paga. In un’Italia, quella della seconda metà degli anni Sessanta, che era tutta un paradosso, paradossale era il compendio delle sue doti tecniche da attaccante “di manovra” come si sarebbe iniziato a dire qualche tempo dopo. Perché se era approssimativo nel palleggio, innata era la predisposizione al dribbling e fulminea sapeva essere la conclusione. 

Pietro Anastasi, dalla Massimiana alla Juventus fino all'Europeo con l'Italia

"Sette persone in due stanze": a volte basta una frase per rendere l’idea di un’infanzia. Catanese, classe 1948; chi lo vide giocare, ebbe l’accortezza di consigliargli un futuro alternativo lontano dai campi di calcio. Chi lo vide segnare, non poté che profetizzare quella specie di salto triplo che Pietro Anastasi si ritrovò a compiere con naturalezza: dalla Massiminiana, Serie D catanese, al Varese, quindi alla Juventus all’alba dei vent’anni. Non ancora maggiorenne, per il parametro dell’epoca. Estate ‘68, rivoluzione culturale e Campionato Europeo con la fase finale disputata in Italia: "Picciotto, tocca a te" si sentì dire da Valcareggi prima della finale con la Jugoslavia. Si vide poi confermato titolare nella ripetizione dell’incontro, quando da un passaggio di De Sisti sporcato da un rimbalzo tirò fuori la spettacolare mezza rovesciata del 2-0 che sancì la conquista del titolo continentale. 

L'approdo alla Juventus di "Pietruzzo" Anastasi 

Erano tanti, negli anni Settanta, i giocatori juventini di origine meridionale: Causio, Cuccureddu, Furino… Anastasi lo era “di più”, perché aveva anche il fisico del ruolo: olivastro come un mediorientale, sopracciglia folte, sguardo nero come spesso era la fame dalla quale ci si allontanava arrampicandosi lungo la Penisola con il miraggio di una tuta blu e di una busta paga che avrebbe risarcito la vista di un cielo spesso in bianco e nero. Aveva la faccia di un metallurgico molto più “Mimì” di Giancarlo Giannini, Pietruzzo, che chiamavano anche “‘u turcu” e non c’è bisogno di spiegare perché. Idolo ma soprattutto emblema, suo malgrado e inizialmente a sua insaputa, di tutta quella parte d’Italia che cercava accettazione e integrazione anche attraverso il tifo; di tutti quelli che "Hai finito il tuo lavoro, hai tolto trucioli dalla scocca, è tuo lavoro di catena  che curva a poco a poco la tua schiena..." come cantava Rino Gaetano in uno dei suoi pezzi meno “pop” e più profondi, “La 1100”, l’utilitaria che era un altro simbolo di integrazione, come il tifo per la Juventus. Anche per questo si beccò centinaia di insulti che erano progenitori degli odierni ululati, perché lui era l’antenato ideale dello zingaro e del “negro” che sarebbero arrivati nei decenni a seguire. Anche contro quel becerume, era capace di trovare il guizzo, come quando si coordinava in area: ne sa qualcosa quel tifoso granata che si sentì rispondere: "Sono un terrone ma guadagno cento volte più di te". Alla Juve restò fino alla controversa stagione 1975- 76, perdendo il Tricolore contro il Toro di Radice, per il tempo di 307 presenze complessivamente, bagnate da 132 gol di assortimento vario, vincendo tre scudetti, litigando spesso con compagni e tecnici, Carletto Parola in testa.

Pietro Anastasi, gli ultimi anni e la malattia

Poi due anni di Inter e una Coppa Italia, tre ad Ascoli e la chiusura a Lugano. Avrebbe potuto giocare qualche anno in più? Ha giocato quel che ha ritenuto giusto, autodeterminandosi anche in quello, come in ogni altro ambito della vita, fino alla fine, quando ha salutato la vita a settantun’anni, scegliendo la sedazione volontaria in seguito alle sofferenze provocategli dalla SLA. Era il pupillo dell’Avvocato, che fece di tutto per strapparlo all’Inter in quanto per lui Anastasi avrebbe rappresentato un doppio investimento, un’azione “politico-sindacale” volta a ottenere la tregua dagli operai meridionali della Fiat Mirafiori in piena agitazione rivendicativa. Ed ebbe anche il rispetto del proletariato granata, come ricorda Alessandro Baricco, torinista doc, che lo definì "il simbolo di una classe sociale che lasciava a malincuore il Sud per andare a guadagnare nelle fabbriche del nord".

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