Roy Keane, un cattivo monumentale per il Manchester United

Roy Keane, un cattivo monumentale per il Manchester United

Nato il 10 agosto del 1971, fedelissimo di Sir Alex e capitano dei Red Devils, il suo modo di interpretare il ruolo ha segnato un'epoca in Premier League

Paolo Marcacci/Edipress

10.08.2021 19:04

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Roy Keane non è stato un giocatore semplicemente grintoso, o come si dice in genere uno dalla carica agonistica elevata. Lui in campo era semplicemente cattivo, nell’accezione piena del termine, e questa definizione non è frutto della nostra severità nel rileggere falli e sanzioni disciplinari che hanno contrassegnato la sua carriera; questa definizione riassume ciò che lui ha sempre detto di sé: «Non mi sono mai pentito di nulla di ciò che ho fatto su un campo da calcio. Mai, neanche una volta. Per me scendere in campo era una battaglia. Andavo sul terreno di gioco per far male agli avversari? Ma certo e non ho mai chiesto scusa per questo. Anche gli avversari cercavano di far male a me, ma non ho mai piagnucolato, ‘oh, povero me’»

Caratteristiche di un vero bad boy

 

Irlandese di Cork, venuto via da un quartiere dove, a parte gli affetti più stretti, non c’era nulla da rimpiangere, è sbocciato al calcio dopo aver conosciuto anche la boxe, mai trascurata tra i suoi metodi di allenamento abituali. Il pugno più famoso, probabilmente e curiosamente, va detto, è quello che ha ricevuto: ai tempi del Nottingham Forest, club che lo ha svezzato per il football inglese, nelle tre stagioni in cui vi ha militato, dal 1990 al 1993. Glielo diede il leggendario Brian Clough, l’allenatore del “Maledetto United” come sanno i bibliofili e i cinefili. Keane lo accettò come pretendeva che venissero accettate le sue entrate durissime, i suoi tackle “ad alzo zero” su ogni malleolo su cui ritenesse utile quel tipo di intervento, gli insulti che utilizzava nelle partitelle in famiglia per battezzare i nuovi arrivati. Centrocampista di quelli che si definiscono “box to box”, completo dalla fase di (energico) recupero palla fino a quella di costruzione della manovra, dopo il Forest conta dodici stagioni di militanza nel Manchester United: anni di trofei, record, un buon numero di reti (33 in 323 presenze), polemiche variegate, entrate al limite del codice (a volte più quello penale che quello sportivo), legamenti altrui cercati e spesso trovati, legamenti propri sentiti saltare col sottofondo dell'irrisione da parte di un avversario che non conosceva la memoria da elefante di Keane. È l'episodio più celebre, dal punto di vista (poco) disciplinare quello a cui alludiamo; un episodio che consta di un'andata e di un ritorno, entrambi con un ginocchio saltato a far da protagonista.

Keane-Haaland, andata e ritorno

 

Settembre 1997, Leeds – Manchester United: Alf-Inge Haaland, il papà del grande e costosissimo Erling, ferma Keane a ridosso dell'area; il centocampista dello United frana a terra contorcendosi dal dolore provocato dal cedimento dei legamenti; pensando che stia recitando, Haaland si china su di lui irridendolo e invitandolo platealmente a rialzarsi. Keane ha la testa di un costruttore di gioco, la tempra di un guerriero, fuor di retorica; forse prima di quel giorno non aveva mai sperimentato di avere anche la memoria di un elefante. Aprile 2001, Old Trafford, derby di Manchester; ora Haaland padre gioca per il City; c'è un istante nel corso del secondo tempo che cambia per sempre la sua carriera, il quale si vede arrivare all'atezza del ginocchio i tacchetti di Keane, che alza la gamba con una platealità così esibita, così sfacciata che l'irlandese subito dopo si avvia verso gli spogliatoi, non avedo bisogno nemmeno di attendere la decisione dell'arbitro, l'unica possibile, con seguito di giornate di squalifica e multa, decuplicata dopo le dichiarazioni di intenzionalità. Un'intenzionalità sulla quale nessuno ha mai avuto dubbi, sin dal momento stesso dell'intervento, ma che lui ha rivendicato negli anni, fino alla sua intensissima e appassionante autobiografia, "The second half", scritta a quattro mani con Roddy Doyle: "Avevo aspettato abbastanza. L’ho colpito dannatamente forte. La palla era là (credo). Beccati questo, stronzo. E non provare mai più a ghignarmi in faccia che sto simulando un infortunio".

L'essenza di Roy Keane, vero leader del Manchester United

 

Ma se fosse stato solo questo, se soltanto l'interpretare ogni partita come una guerra bastassero a descriverlo, forse non staremmo qui a celebrarlo ancora oggi. Keane è stato soprattutto il leder naturale che ancora oggi rivive nelle parole dei suoi ex compagni, autentiche leggende dello United come David Beckham o Paul Scholes, i quali hanno sempre detto che, se in quegli anni inimitabili, fino al 1999 coronato con la Champions vinta a Barcellona contro il Bayern, hanno offerto il meglio di loro stessi, è stato anche perché si sono sempre sentiti protetti ed esaltati dal lavoro incommensurabile svolto in mezzo al campo da un gigante come Keane. Ancora più significative le parole di Sir Alex Ferguson, a maggior ragione perché i due non si sono certo lasciati bene nel 2005, quando ricorda alcune partite simbolo del modo di Keane di interpretare il calcio; su tutte, forse, la semifinale di ritorno contro la Juventus vinta proprio in quella Champions del 1999: «Ha martellato ogni filo d'erba, avrebbe preferito morire esausto pur di non perdere». Ancora più emblematica la risposta di Keane, che a quella finale dovrà rinunciare a causa del cartellino giallo ricevuto durante la gara contro i bianconeri: «È un insulto, non un complimento, per me. È come se il postino ricevesse complimenti per le lettere che consegna. È il suo lavoro»

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