I 70 anni di Jimmy Connors, l’uomo che ha riscritto le regole del gioco

I 70 anni di Jimmy Connors, l’uomo che ha riscritto le regole del gioco

Il 2 settembre del 1952 nasceva Jimbo. In 24 anni ha rivoluzionato il tennis dal punto vista tecnico e temperamentale, oggi è un modello per i campioni

Samuele Diodato/Edipress

02.09.2022 08:01

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Era il 2 settembre del 1991, quando Jimmy Connors giocava l’ottavo di finale allo US Open. Era il giorno del suo 39esimo compleanno, e dall’altra parte della rete c’era Aaron Krickstein. A Flushing Meadows, Jimbo, così era soprannominato, c’era soltanto grazie ad una wildcard, perché ormai era ampiamente fuori dalla Top-100. Quel che è accaduto quel giorno, però, è a posteriori il manifesto della trasformazione che – a partire dal 1972 – l’americano è riuscito ad innescare nel mondo del tennis. Sono passati 31 anni, da quella storica partita, ed oggi, di anni, il fenomeno di Belleville ne compie 70. In questa occasione speciale, dunque, vale la pena ripercorrere le tappe che hanno permesso a Connors di essere quel che è stato: per lo sport che ha amato e per gli appassionati.

Il tennis come la boxe: genesi e storia del combattente Jimbo

Il pubblico, a New York, lo conosceva già perfettamente, nel 1991. Ma nessuno si aspettava che a 39 anni potesse lottare contro Krickstein, (in Top-10 fino a pochi mesi prima), dando di nuovo vita ad uno spettacolo dei suoi. Connors, al tennis, era stato avviato dalla mamma Gloria, all’età di 4 anni. Quest’ultima, insieme alla nonna Bertha, è stata capace di inculcare nel bimbo alcuni concetti chiave della sua carriera e della sua esistenza: resistere alla difficoltà, non arrendersi, combattere sempre. Fino a trasformare una partita di tennis in qualcosa di più: “Ognuno gioca come meglio crede - dirà anni dopo Jimmy - ma al di là di questo, è il desiderio che hai, il tuo cuore, il tuo stato mentale prima del match, queste cose fanno la differenza. Mi piaceva sentire questo, mettere tutto me stesso per vincere, lottare sul campo come fosse l’ultimo giorno, senza seguire una particolare direzione”. E ancora: “Io da bambino non capivo, ma insieme con mia nonna, mia madre ha trovato il modo di trasmettermi la passione per il tennis, mi ha dato sempre credito. Così che ho finito per amare questo gioco”. E per rivoluzionarlo, probabilmente, perché negli anni Settanta la consuetudine voleva che quel gioco tanto amato fosse ancora, per antonomasia, quello dei giovani ricchi, delle buone maniere, dell’eleganza nei gesti e del rispetto certosino delle regole. Ma lui non era uno di loro, era diverso. Per questo motivo, negli anni della sua ascesa, aveva spaccato il pubblico. Perché era stato il primo ad affrontare gli eroi del “serve and volley” giocando da fondo campo, affidandosi alla regolarità e alla precisione del proprio rovescio e della propria risposta. E soprattutto perché aveva reso le partite di tennis una guerra, di nervi ancor prima che di colpi. Il campo, con lui, diventava un ring. E non a caso Rino Tommasi lo definiva “un pugile prestato al tennis”. Che era dunque capace di incassare e di rialzarsi, di affidarsi alla sua impareggiabile furia agonistica per compiere tutte le sue più grandi imprese. Le sue smorfie, le sue urla e le sue esultanze plateali hanno cambiato il linguaggio del corpo del tennista. Le sue provocazioni all’avversario e le sue proteste contro l’arbitro hanno sfidato il “sistema”. In fin dei conti, era un tennista mai visto prima, che a 39 anni del pubblico ne era però diventato l’idolo e che sapeva ancora lottare come ne avesse 20.

Krickstein, per “abbatterlo”, le ha provate davvero tutte, quel giorno. E sul punteggio di un set pari, vincendo il terzo per 6-1, sembrava fatta. Ma non contro Connors. Che dal punto di vista atletico è stato più longevo di tanti atleti che si vedono in campo oggi, e che dopo cinque ore di partita, ed un break di svantaggio al quinto, riuscì a qualificarsi per i quarti. E tre giorni dopo, riuscì a compiere forse un’impresa ancor più grande, l’ultima della sua carriera. A lui, infatti, si arrese in quattro parziali, in rimonta, anche Paul Haarhuis.

Non solo Borg e McEnroe: l’insaziabile amore per la competizione

Quella semifinale raggiunta allo US Open, la 14esima in 17 partecipazioni, fu l’ultimo grande risultato della sua storia tennistica, in grado di rilanciarlo ancora una volta nella Top-50 del ranking ATP. L’anno dopo, a 40 anni compiuti, parlò così: “Finché potrò stare in piedi combatterò. Perché dovrei ritirarmi? Mi piace competere. Io vivo per competere. Per di più mi piace dimostrare alla gente che si sbaglia quando dice che non sono più in grado di farcela”. Ed in effetti, la sua carriera è stata contraddistinta dalla costante volontà di dimostrare quanto la sua ricetta (ma anche della madre Gloria) fosse quella vincente, quella più resistente al tempo e all’ascesa dei nuovi rivali. Quella in grado di portarlo al numero 1 quasi ininterrottamente dal 1974 (anno del primo dei due trionfi a Wimbledon) fino al 1979. E poi di nuovo per qualche altra volta nel corso degli anni, fino ad un totale di 268 settimane sul trono. Quella che gli ha permesso di gettare la spugna quando prima Björn Borg e poi John McEnroe si erano dimostrati a lui superiori. Fino al 1982, quando poco prima del ritiro del glaciale svedese Connors ha conquistato il suo secondo titolo ai Championships nel match più epico della sua vita, in finale contro l’acerrimo rivale Mac. Borg, come lui, impostava il gioco da fondo campo; McEnroe invece aveva maggiore eleganza, ma aveva lo stesso atteggiamento presuntuoso e sprezzante nei confronti delle regole.

Nessuno dei due sopracitati, tuttavia, ha retto la competizione come Jimbo. Dal punto di vista mentale Borg è stato “vittima di sé stesso”, ritirandosi a 27 anni. Connors, invece, ha avuto la capacità di continuare. Era amore puro per la lotta il suo, che gli restituiva stimoli per andare avanti. Tanto da regalarsi qualche battaglia anche con i giovanissimi Ivan Lendl e Andre Agassi, accendendo una breve rivalità anche per via di dichiarazioni come al solito molto provocatorie. E la racchetta al chiodo, ufficialmente, la appenderà solo nel 1996, a 44 anni.

Connors davanti ai “Big Three”: modello di longevità con record insuperabili

I giorni delle sue gesta sono lontani, ma la sua impronta sul gioco è ancora visibile. E quando si guarda alla straordinaria longevità di Rafael Nadal, Roger Federer e Novak Djokovic, il modello non può che essere proprio il campione dell’Illinois. Prima dell’avvento dei Big Three, infatti, erano suoi tutti i record di permanenza nelle zone alte della classifica (dalle settimane sul trono passando a quelle in Top-5 e Top-10). Quasi tutti quei primati sono stati riscritti. Eppure, due in particolare, pesantissimi e apparentemente inscalfibili, gli appartengono ancora. Nessuno come lui ha vinto 1274 partite riconosciute dall’ATP, e lo stesso vale per il numero di trofei alzati, 109. Spesso, queste due statistiche vengono sminuite facendo riferimento alle partite giocate da Connors nei tornei di livello minore, di alcuni con un tabellone a 10 o a 17 giocatori, o altri con un formato a gironi e un punteggio sperimentale mai più tentato (come il set a 6 giochi, ma senza tie-break). La verità, però, è anche un’altra. Perché i suoi numeri sono indice di un’integrità fisica che – non bisogna dimenticarlo – è sempre un merito, e tra gli anni Settanta e Ottanta era sicuramente più complicata da conservare rispetto ad oggi.

Inoltre, riafferma ancora una volta il suo amore per il tennis, a tutti i livelli: “Non mi pesava giocare per quattro, cinque o sei ore tutti i giorni, non pensavo ad altro che al tennis, il tennis è sempre venuto prima di ogni altra cosa”. Una dedizione totale, dunque, che si sposa con la sua encomiabile capacità di crederci sempre, di soffrire e di lottare. Con un pensiero continuamente rivolto alla vittoria. Non sempre è stato il più forte, quel ragazzo venuto dalla provincia, ma grazie alle sue peculiarità ha resistito più degli altri al top. Ha vinto “solo” otto Grand Slam, ma ha riscritto le regole del gioco e i concetti – tecnici e mentali – ad esso applicati. Insomma, auguri per le sue (prime) 70 primavere a Jimmy Connors, da rivoluzionario presuntuoso a modello per i campioni.

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