Carlos Monzón, il pugile indio che non riuscì a sfuggire ai suoi demoni

Carlos Monzón, il pugile indio che non riuscì a sfuggire ai suoi demoni

Nato e cresciuto in estrema povertà a Santa Fe, era soprannominato "Escopeta", il fucile, per la potenza dei suoi colpi 

Redazione Edipress

07.08.2022 ( Aggiornata il 07.08.2022 16:57 )

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La retorica è sempre in agguato, quando si tratta di boxe e di vita. Perché quello - sport al quale tutti gli altri vorrebbero assomigliare - per dirla con George Foreman, non riesce mai a farsi raccontare senza che si chiami in causa un retroterra di violenza, miseria, vita difficile e altri cliché che hanno alimentato, non a caso, il cinema o la letteratura. Il problema è che dietro la retorica si cela quasi sempre la verità, come una corda improvvisamente floscia nella quale il pugile inciampa quando i suoi saltelli non sono più illuminati dalla luce dei riflettori. 

L’infanzia e la povertà

Perché spesso nella boxe quando arriva la gloria, seguita dalla ricchezza, tutte e due assieme non bastano a garantire la redenzione. La gloria finisce generalmente per appagare la memoria dei nostalgici, per riempire di record gli almanacchi o per qualche citazione memorialistica a proposito di uno sport in cui un passato leggendario surclassa da decenni un presente misconosciuto, parcellizzato, onorato poco o nulla dai media, eccettuato qualche grande evento che ancora consente di rimettere in piedi il baraccone. La storia di Carlos Monzón, che il 7 agosto compirebbe ottant’anni se solo la fine della sua storia non avesse fatto in modo e maniera di ricongiungersi alle origini, è quella di chi, nato e vissuto all’inferno, dai demoni della propria esistenza aveva imparato solamente come tramutarsi in aguzzino, da vittima che era stato. Di andare in paradiso, con tutte le metafore che la parola si porta appresso, non gliene sarebbe mai importato nulla, soprattutto quando sentiva nominare Dio, da ragazzino, era soltanto per superstizione, o per una bestemmia con cui la sua gente malediceva l’esistenza. San Javier, nella provincia di Santa Fe, dove i diseredati sono tali perché qualcuno portò via ai loro avi ciò che loro apparteneva e nel tempo l’esproprio che i libri di storia in occidente non raccontano ancora del tutto nel modo giusto, sarebbe proseguito in ogni forma possibile. I Monzón erano discendenti dei Mocovì, indios nomadi del Chaco meridionale, generazioni di superstiti dello sterminio, retaggio secolare di una ingiustizia metabolizzata come fosse una predestinazione. Carlos era il sesto di di dodici fratelli, ognuno dei quali incaricato di sfamarsi e di contribuire ad alleviare la fame degli altri familiari, quando l’istinto appagato lasciava spazio a una qualche considerazione dei legami di sangue. Rubavano, letteralmente, dai fornelli degli altri, se c’era qualcosa sopra; provvedevano all’apporto proteico soprattutto cacciando tapiri, istrici e altri animali selvatici. 

L’incontro con Brusa

È chiaro, allora, che la boxe gli cadde addosso come una benedizione. La boxe è un’anatomia lavorata dal suo primo e insostituibile maestro: Amilcar Brusa, che accettò di allenarlo solo dopo essersi accertato che il ragazzino con i tratti da indio avesse restituito un borsone che aveva rubato appena entrato in palestra. Prese il via un sodalizio, mai scalfito da alcuna contrarietà; ancora di più, un rapporto umano che forse per Monzón rappresentò, tra le altre cose, anche il trattamento più degno ricevuto come individuo, prima della fama e dell’arricchimento rapido, esponenziale in seguito alle vittorie e ai titoli mondiali. Brusa cominciò subito a plasmare una tecnica che in Monzón sarebbe stata sempre inesorabile per l’avversario, mai spettacolare. Il che non deve far pensare che il modo di combattere di “Escopeta”, il fucile, perché così lo chiamavano, fosse elementare. Perché sapeva essere letale sia nei corpo a corpo, quando infilava la sua spietata potenza all’interno della scherma altrui, sia dalla distanza, in virtù della sua statura e del suo allungo, che gli consentiva di piazzare il diretto da lontano. E ogni volta era come se quello che se lo trovava davanti si sentisse arrivare addosso la mazza di un marmista, come sperimentarono i più grandi della sua epoca e della sua categoria, a cominciare dal nostro Nino Benvenuti, che lo subì una prima volta quando Monzón era semi sconosciuto persino in Argentina e una seconda quando l’indio era diventato una leggenda in patria e una stella fuori dal paese. Ha sconfitto Emile Griffith, Josè Nápoles, Rodrigo Valdéz. Leve lunghe e affusolate sulle quali era innestato un busto potente al punto tale da far pensare più a un medio massimo che a un peso medio.  Dal 1970, quando strappò il titolo mondiale a Benvenuti al Palazzetto dello Sport, difese il titolo altre dieci volte, fino al 1977, lasciando da campione in carica. 

Gli ultimi anni e l’omicidio della moglie

La frequentazione di star e uomini politici, l’amicizia con Alain Delon, i flirt con Ursula Andress e altre bellissime del cinema non furono altro che una patina di rispettabilità sopra un’essenza rimasta sempre quella di uno che non sapeva che aggredire la vita, perché sin dall’inizio ne era stato aggredito. Non per condannare e nemmeno per giustificare; semplicemente per capire. Perché il cerchio si è chiuso con l’uomo che aveva domato ogni avversario sprofondato nell’incapacità di domare se stesso. 

Si chiamava Alicia Muniz, fino alla sera di San Valentino del 1988 aveva preso le stesse botte e subito gli stessi scatti d’ira e gli stessi tradimenti delle altre mogli di Monzón. Ma con lei seppe dominarsi ancora ancora meno. Strangolarla non gli bastò; dovette anche gettarla dal balcone. Dovette. Sette anni dopo, al termine di una giornata di libertà vigilata il detenuto pigiava l’acceleratore per rispettare l’orario di rientro in carcere, a Las Flores. Aveva cinquantadue anni, ai quali andrebbero sottratti quelli di un’infanzia mai vissuta e aggiunti secoli di rabbia accumulata da tutti i miserabili come era stato anche lui. 

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