LaMotta vs Robinson: il massacro di San Valentino

LaMotta vs Robinson: il massacro di San Valentino

In occasione del centenario del Toro Scatenato, nato nel Bronx il 10 luglio 1922, ricordiamo il violentissimo incontro con Sugar Ray, passato alla storia come uno dei più cruenti di sempre

Redazione Edipress

10.07.2022 ( Aggiornata il 10.07.2022 02:54 )

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Due angoli non furono mai così opposti, mai così distanti. Ed era soltanto in parte una questione di boxe, di tecnica, o di stile. Entrava in ballo il modo di vivere, di essere, di apparire.
Ed erano spigoli per entrambi, i lati di quel quadrato.
Era cominciata quando gli Stati Uniti erano da poco entrati nella Seconda Guerra Mondiale; è finita quando il mondo era già diviso in due dalla Cortina di ferro, anche se mancavano dieci anni all’erezione del Muro di Berlino. La prima volta il presidente era Franklin Delano Roosevelt, l’ultima Harry Truman.
La prima volta fu nel 1942, quando Robinson batté La Motta per la prima delle cinque occasioni in cui avrebbe avuto la meglio su di lui. La Motta aveva vinto il secondo confronto, interrompendo un’era geologica, in termini pugilistici, di vittorie di Robinson.

La sesta battaglia tra Jake LaMotta e Sugar Ray Robinson

La sera del 14 febbraio del 1951, al Chicago Stadium, si trovavano di fronte per la sesta volta. Si conoscevano bene, ormai, al punto tale da sapere cosa l’uno dovesse aspettarsi dall’altro. Ed entrambi trovarono ciò che si aspettavano, soltanto che nessuno dei due avrebbe mai pensato di ricevere una tale dose dell’altra metà del suo cielo di combattente. Perché La Motta sapeva benissimo quanto Robinson lo avrebbe fatto penare prima di fargli trovare qualche bersaglio di sé; al tempo stesso Robinson aveva imparato in tutte le occasioni precedenti che il Toro gli si sarebbe potuto proiettare addosso con tutta la sua forza anche nell’istante stesso in cui dava l’impressione di stare per piegare le ginocchia.
Ma La Motta non avrebbe mai pensato che Robinson potesse investirlo con una tale quantità di colpi sin dai primi scambi, sempre in punta di scarpetta, ma intenzionato a lasciargli cicatrici fin dentro l’anima. Allo stesso modo, sulla sponda opposta di un fiume che avrebbe iniziato a vedere le proprie acque tingersi di rosso, Robinson mai avrebbe creduto di dover continuare a guardarsi dai colpi sorprendenti di quell’uomo una volta trascorsa la settima ripresa, l’ottava al massimo. La mattanza messa in atto da Sugar, sui passi della consueta, velenosa danza; la superbia del Toro nel resistere, la sua cognizione del dolore e l’onore da preservare, a maggior ragione nel momento in cui la sua disfatta prendeva corpo. O per meglio dire, spruzzava sangue, letteralmente.

Sugar domina, il Toro resiste

Nelle prime tre riprese andava in scena il monologo di Sugar Ray, con una gragnuola di colpi stilisticamente perfetti, potentissimi, inferti a La Motta più che indirizzati verso di lui; nel repertorio stilistico della sua serata di gala Robinson decise di includere una vera prelibatezza tecnica: il cambio di guardia, scelta tattica prima ancora che virtuosismo. Il tutto a un ritmo vertiginoso, per rendere subito chiaro a tutti chi sarebbe stato il padrone del match, dall’inizio alla fine; il solo che alla fine avrebbe potuto festeggiare il suo San Valentino. E qualunque altro avversario quei colpi li avrebbe accusati in modo irrimediabile: con chiunque, tranne che con Jack La Motta, Robinson avrebbe già chiuso la contesa. Andatura macchinosa, guardia alta, resistenza disumana: più ne prendeva, il Toro, meno le sue gambe accennavano a piegarsi. Un fior di paradosso, nel mezzo della quarta ripresa: il sinistro di La Motta va a segno con una tale potenza che a smarrire l’equilibrio è Sugar, con un sussulto che ammutolisce le prime file. È la sintesi delle loro battaglie, il compendio delle loro caratteristiche e delle differenze che li rendevano così indigesti l’uno per l’altro. Dalla quinta in poi ricomincia la strategia del dolore: le tele dei movimenti che Sugar riprende a filare con la sua naturale leggiadria avvolgono La Motta, con la pelle sempre più lucida, più livida attorno agli zigomi, sulle arcate sopraccigliari. Però ogni volta, dopo ogni serie, tra una somministrazione di sofferenza e l’altra, il Toro guarda Sugar per provocarlo, dagli usci delle fessure oculari che si stanno chiudendo quasi del tutto. Come se non gli fossero bastati i pugni già presi, come se volesse provocarlo per farsi pestare più duramente. Da qualsiasi altro angolo d’America, e del mondo, a quel punto sarebbe volato un asciugamano bianco verso il centro del quadrato. Non da quello di La Motta, per più di una ragione: innanzitutto perché era La Motta, che avrebbe preferito farsi sparare pur di non andare giù, o dichiarare la resa. Poi perché era lui il detentore del titolo mondiale, quindi nel suo staff ancora c’era chi confidava in un colpo risolutore, o in una combinazione disperata che potesse fiaccare d’un tratto le difese di Sugar. Ancora, perché tutti sapevano che nel copione dei suoi incontri il finale era sempre quello col massimo grado di intensità.

Il Toro del Bronx "non muore mai"

Al termine del nono round, dalle poltroncine delle prime file si invoca a gran voce l’interruzione di quello che sta diventando un massacro, che poi è il nome con cui la serata rimarrà scolpita nella storia. Il Massacro di San Valentino, il secondo in ordine cronologico, dopo la strage compiuta dagli uomini di Al Capone ai danni della gang di George “Bugs” Moran il 14 febbraio del 1929.
Chiazze rosse sul tappeto morbido; i connotati di La Motta sepolti sotto una montagna di diretti, di montanti, di ganci e con il sovrappiù del ghigno che Sugar ostenta, furioso perché nel diadema del suo dominio assoluto non riesce a incastonare la perla più ambita: la caduta del Toro al centro dell’arena, la testa di La Motta che batte sul tappeto. Nel corso della decima ripresa, petali di sangue schizzano sul pubblico ormai quasi atterrito, colorano i colli di visone, le stole di ermellino, i completi dall’impeccabile taglio italiano, o francese, dei signori che si sentono mortificati per aver offerto uno spettacolo così truculento alle loro donne, in una notte come quella. Il colore è quello delle rose che simboleggiano amore, nell’unico posto in cui, quella sera, due uomini lo stanno evocando attraverso il rovescio della sua medaglia.
La Motta all’undicesima trova ancora, in qualche recondito accesso dell’anima, non più del corpo, la forza per un colpo durissimo che scuote Robinson; il Toro per qualche secondo ritrova l’istinto di lanciarsi a testa bassa per proiettare verso il suo incubo vivente l’ultima, disperata serie. Robinson la controlla in virtù della sua brillantezza, della lucidità mai smarrita. E così si riprende il controllo, tornando a martoriare la sua preda. Al termine della dodicesima l’arbitro Frank Sikora è investito dagli improperi del pubblico e dei cronisti più vicini al quadrato, perché ancora non ha voluto saperne di interrompere il match, forse anche su pressione dell’angolo di La Motta; quest’ultimo si avvia verso il seggiolino mostrando chiaramente di non riuscire più a camminare, con la stessa evidenza con cui proibisce a se stesso di cadere. L’interruzione arriva, poco prima del termine della tredicesima, tra fischi e ululati di riprovazione. Ray Sugar Robinson è di nuovo il campione del mondo dei Pesi Medi. Jack La Motta non è andato giù nemmeno stavolta, con la consueta punteggiatura di “negro bastardo” bisbigliata dalle labbra tumefatte con lo scopo di provocare Sugar.
Un lungo abbraccio, quello che il neo-campione tributa al suo irriducibile nemico, nello spogliatoio in cui La Motta viene assistito tramite una maschera a ossigeno.

Ci fu un vincitore e ci fu uno sconfitto, senza discussione alcuna, la notte in cui gli innamorati non avrebbero mai dovuto trovarsi attorno al ring del Chicago Stadium. Ma per entrambi era andato in scena il canto del cigno delle loro battaglie; entrambi sapevano che quella sarebbe stata l’ultima volta. E proprio perché sentivano di aver incrociato i guanti per l’ultima volta, cominciavano a capire che si approssimava il crepuscolo di quella che era stata la loro età dell’oro, indipendentemente da quanto ancora avrebbero combattuto. Il meglio di loro stessi con i guantoni cominciava a essere più nelle pagine da rileggere che in quelle ancora da scrivere. Proprio per questo si sarebbero mancati a vicenda: Ray Sugar Robinson, dolce nello stile inimitabile che dissimulava il pugno atroce con cui andava a segno, destro o sinistro che fosse; Jack La Motta, che avrebbe caricato in eterno a testa bassa, anche quando stavano per staccargli la testa dal collo. E che ogni volta in cui avrebbero chiesto di tutti i pugni scambiati con Robinson, avrebbe sempre risposto con una frase che più blues non si poteva: “C’è molta violenza nel mondo, buona parte l’ha esercitata Ray Sugar Robinson contro di me”.

 

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