Sandro Mazzinghi: il pugile che non ha mai mollato, sul ring come nella vita

Sandro Mazzinghi: il pugile che non ha mai mollato, sul ring come nella vita

Una carriera nata per caso, al fianco del fratello Guido; una storia di sudore e sacrificio che hanno portato il boxeur di Pontedera tra gli sportivi più amati dagli italiani

Redazione Edipress

07.06.2022 ( Aggiornata il 07.06.2022 16:47 )

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Un giorno aveva accompagnato il fratello Guido, più grande di lui e pugile più che decente (campione italiano, olimpionico a Helsinki), ad assistere a una riunione di dilettanti. Non si era presentato un novizio, bisognava trovare un sostituto e chiesero a Guido Mazzinghi se, per caso, suo fratello fosse disposto a prestarsi, tendendo la guardia alta per non farsi troppo male.

Cosa me ne viene in tasca? – aveva chiesto Sandro.

Vino, bistecca, pane, contorno, frutta…

Si può fare – aveva risposto Sandro Mazzinghi da Pontedera.

Quelli che su un ring si chiamano pugni, nella vita sono cazzotti, che nemmeno li vedi partire. E in fondo la vita stessa è tutta un giro di boa e quando ci si trova a invertire la rotta vuol dire che si è fatta la scelta più naturale possibile, vale a dire quella di sopravvivere. Come tante volte Sandro Mazzinghi era già sopravvissuto, alla Storia di tutti e a quella sua; alla fame che non dava tregua negli anni della Seconda Guerra mondiale, durante i quali avrebbe imparato a desiderare la bicicletta da corsa che i suoi, nei primi anni del Dopoguerra, non gli avrebbero comprato perché non se la potevano permettere. Ma quando inforcava quella degli altri, era veloce al punto tale da essere promettente, sui pedali: riusciva a stare appresso ai primi ciclomotori, quelli con la cilindrata più piccola. E un giorno aveva anche conosciuto Gino Bartali, che gli era sembrato campione anche nei modi, nella semplicità. E aveva dovuto, prima che potuto, sopravvivere anche alla pioggia di una sera nel cuore dellinverno del 1964, Sandro Mazzinghi, sposo di Vera da meno di due settimane. Tornavano in macchina da una serata di rappresentanza, lui aveva perso il controllo, a causa del fondo viscido e della pioggia battente: la vettura contro un albero, lui proiettato fuori dallabitacolo. Lei morta sul colpo. Il vuoto nella vita, se la si poteva ancora definire tale, soltanto qualche mese dopo essere diventato campione del mondo per la prima volta, quando aveva sconfitto Ralph Dupas il 7 settembre del 1963, atterrandolo alla nona ripresa. Erano trascorsi soltanto due anni dal suo debutto come professionista. Lincidente gli aveva lasciato una frattura del cranio e danni al labirinto auricolare, per quanto riguarda i danni corporali. Quelli dellanima soltanto facendo appello alla propria tempra avrebbe, nel tempo, imparato a ripararli. Mai del tutto, sintende, ma quel tanto che bastava per continuare a vivere. Per tornare a combattere.

Sandro Mazzinghi, il trionfo a San Siro contro Ki-Soo Kim

Milano, non unica a farlo ma sempre più chioccia col suo clamore e con la sua vicinanza appassionata, lo aveva adottato. Lui le aveva offerto un esempio di italiano nel quale riconoscersi, per la sua determinazione, la sua ostinazione, la capacità di rialzare la testa dopo i colpi più duri: quelli che riserva la sorte, fuori dal quadrato. Non cerano di mezzo né il Milan né lInter, quel pomeriggio di fine maggio, a San Siro; eppure Milano traboccava di passione, oltre che di orgoglio: 60mila tifosi che ora acclamavano, ora sospendevano il respiro, in un crescendo di sensazioni buone, forti della convinzione che in loro stava, inesorabilmente, trasfondendo luomo che portava in scena, sotto il cielo aperto della città, il suo ennesimo canto dellanima. Proprio come un blues, eccezionalmente germogliato nelle campagne intorno a Pontedera, in un rione chiamato Belladimai”, che nessuno riuscì mai a capire se fosse più poetico o più malinconico. Aveva capelli cortissimi, il coreano: ispidi e pungenti come penne districe; ogni volta che veniva avanti abbassando la testa era come se sugli zigomi di Sandro, o sulla sua fronte, si appoggiasse una spugna metallica.

Ed era un campione, il coreano, per il titolo che deteneva e per come stava conducendo la sua battaglia, inesorabilmente: ciò che incassava, restituiva, appena poteva; tattico e mobile, potente nelloffensiva. Ma la confidenza di Sandro col dolore avanzava un passo alla volta in territorio nemico; i taccuini dei giudici si riempivano delle stesse stimmate che i guanti delluomo di Pontedera, non più ragazzo e con alle spalle la propria linea dombra, lasciavano sul volto di Ki-Soo Kim, sul torace, battendo chiodi sulla milza, aghi nel fegato. E alla fine Milano cullava un verdetto, indiscutibile, che a Sandro Mazzinghi riconsegnava il titolo di campione del mondo dei Superwelter, al giro di boa dei trentanni; alla resa dei conti con la preparazione maniacale alla quale si era sottoposto per tornare in vetta nella categoria in cui i suoi sessantanove chilogrammi erano sempre qualcuno di meno rispetto ai settanta e passa dei suoi avversari; di quelli che si trovavano a sperimentare quanto oltre potesse spingersi nel protrarre il ritmo che alla fine gli avrebbe dato ragione.

Era stato quello, il suo giro di boa? Di certo, battaglie simili non si lavano mai via del tutto, non se ne vanno da nessuna parte i colpi sopportati in attesa del varco utile a piazzare il montante che possa incontrare il mento, la mascella di chi si ha di fronte. A metà della terza ripresa era andato giù, il coreano, con laria di poterci anche restare: lo aveva poi destato il conteggio, restituendolo fino alla fine alla girandola dei colpi che si sarebbero somministrati a vicenda. Entrambi presagendo che non sarebbero stati più loro stessi, sul quadrato, nel modo in cui erano riusciti ad esserlo per tutte le riprese di quel confronto. E Milano incoronava il suo re, dopo che lo aveva già cinto di un affetto che, quello no, non sarebbe mai trascorso. Perché se ne vanno i titoli, si perdono prima o poi le cinture, si sfilano via dal corpo le doti più fulgide; ma lamore del pubblico a cui il pugile ha consegnato se stesso, senza risparmiarsi nemmeno un secondo, resta inciso nel marmo della gratitudine.

Si era sobbarcato ogni tipo di privazione, pur di riprendersi la corona: si era scordato la pastasciutta, il pane bianco, il bicchiere di quel vino che molti anni dopo avrebbe imparato a produrre. Tanta carne ai ferri, che da bambino mai avrebbe pensato potesse simboleggiare una privazione, un sacrificio; tanta corsa in anticipo sullo spuntare del sole, sedute di sparring infinite, esercizi dei quali perdeva il conto.

Quel 26 maggio del 1968 non poteva che andare così, al botteghino come nelle case di milioni di italiani che con trepidazione soffiavano alle spalle di Sandro Mazzinghi, luomo e latleta che non aveva fatto altro che rimanere fedele a se stesso, alla propria fatica e al proprio, irriducibile, modo di essere, di stare al mondo, che era già un modo di combattere. E pur di stare nelle prime file facevano carte false i Vianello, i Tognazzi, i Mike Bongiorno, i Walter Chiari, questultimo anche buon amico di Mazzinghi, oltre che tifoso.

C’è una ragione che i lottatori come Sandro Mazzinghi, con i guantoni o senza, hanno sempre dovuto procacciarsi con più evidenza rispetto agli altri; per la durezza del tempo in cui sono venuti al mondo e per lestrazione sociale che li aveva fatti crescere e venir su come uomini con il supporto delle proteine semplici, dei fagioli, dei ceci essiccati, delle lenticchie con cui i contadini del circondario ricompensavano sua madre per i suoi servigi di materassaia. Le banconote chi le vedeva mai. Anche per questo, una volta appesi i guantoni, Sandro Mazzinghi i soldi li avrebbe sempre amministrati con profitto, a differenza di tanti suoi colleghi. Ecco perché, quando tutto doveva ancora cominciare e cominciare per caso, a fare la differenza era stata un podi carne, quella che poi sarebbe diventata una delle facce delle sue privazioni di atleta, una volta iniziata quella fase della sua vita in cui, tra le altre cose, gli sarebbe capitato di vedersi arrivare allangolo Ray Sugar Robinson, proprio lui, che si complimentava per il suo stile e gli consigliava di andarsene a combattere negli Stati Uniti, dove in ragione della sua tempra sarebbe subito diventato un idolo.

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