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La storia del coach italo-americano che ha rivoluzionato il basket: dai trionfi con Milano agli insegnamenti in Nba
Vedere oltre. È stata la parola d'ordine che può riassumere la carriera, prima da giocatore poi da allenatore, del baffuto italo-americano del West Virginia. A Mike D'Antoni non è sicuramente mai mancata la capacità di innovare, un vero e proprio regista prestato al mondo del gioco con la palla a spicchi. Come descritto anche dal suo soprannome guadagnato ai tempi della Billy Milano, Arsenio Lupin entrò nei cuori dei tifosi meneghini per la sua predisposizione nel disegnare e far ripartire l'azione dopo un'infinità di palle scippate agli avversari. Le sue finte di corpo, la rapidità di pensiero e di azione unite a quei lineamenti gentili, iniziarono ad evocare il personaggio immaginario di Leblanc "il Ladro Gentiluomo" . Da allenatore progetta gli schemi del basket del futuro, ispira tecnici e giocatori ad abbandonare le convenzionalità che spesso non permettono al gioco di progredire. Unico e pesante neo, quello di non riuscire a risultare vincente sulla panchina a livello personale: solo in Italia conferma quanto fatto di buono sul pitturato, raccogliendo successi soprattutto a Treviso. In America invece, spesso screditato dai più tradizionalisti, non va oltre tre finali di Conference fra Phoenix e Houston nel 2005, nel 2006 e nel 2018. Sul suo spirito di rivoluzione del gioco, però, si sono concretamente fondate le vittorie di squadre dominanti nella NBA moderna come i Golden State Warriors di Steve Kerr, e più in generale le attitudini dei team che sono diventate meno vincolate al rispetto delle posizioni classiche con lo "Small Ball" e dell'utilizzo di tutto il cronometro dei 24".
Mike D'Antoni nasce l'8 Maggio del 1951 a Mullens, nella Virginia Occidentale. Come s’intuisce anche dal suo cognome, proviene da una famiglia che affonda le sue radici nel Bel Paese. La storia del nonno, Andrea Di Antonio di Nocera Umbra, è simile a quella di molti altri italiani del tempo che cercarono fortuna oltreoceano. Giunse negli Stati Uniti con una nave che attraccò ad Ellis Island dopo aver deliziato i naviganti con gli scorci della Baia di Manhatthan e della Statua della Libertà, per poi essere interrogato come accadeva a tutti gli emigranti prima di essere accettati in America. Qui venne subito storpiato il cognome della famiglia Di Antonio, che divenne appunto D'Antoni. Tra le tante dietrologie, c'è un aneddoto degno di nota: Lewis, il papà di Mike, allenò la squadra delle High School di Mullens e, nel campionato statale del 1956, venne sconfitta solo in semifinale dalla East Banks di un appena diciottenne Jerry West. Sì, proprio il Jerry West che oggi vediamo come silhouette e simbolo protagonista del logo NBA. Mike, prima di seguire le orme del padre, tenterà invano di affermarsi come giocatore nel panorama cestistico americano degli anni '70. Viene chiamato con la scelta numero 20 al draft del 1973, inizia a proporre il suo nuovo basket fin da giovane ma i risultati tardano ad arrivare. Dopo un'ennesima annata deludente, due sole apparizioni stagionali con i San Antonio Spurs nel 1976, decide di affidarsi alle proprie origini e sbarca in Europa per iniziare a predicare il suo gioco rivoluzionario. A essere attirato del baffuto playmaker italo-americano fu in primis lo storico presidente di Milano, Adolfo Bogoncelli. Dopo un primo provino al giovane D'Antoni durante un'amichevole, fra raffiche d'insulti e lo scetticismo generale, lo scelse per affidargli le chiavi della cabina di regia della sua Billy Milano. Arsenio Lupin lo ripaga portando Milano – compagine a cui dedica tutto il prosieguo della sua carriera – sul tetto d'Europa: è il cervello del suo team, fulcro dello spirito di squadra dei lombardi e frontman nelle vittorie conseguite a cavallo fra gli anni '80 e '90. Al termine della sua carriera nel 1990, ha messo in bacheca 5 scudetti, 2 Coppe Campioni, 1 Coppa Korac e 1 Coppa Intercontinentale. Prima con Dino Meneghin, poi con Bob McAdoo, scrive letteralmente la storia dei milanesi. Sicuramente particolare ed emblematico il fatto che compia il percorso inverso che nel basket moderno fanno tanti giovani di belle speranze, poiché Mike D'Antoni porta in dote il suo talento NBA per dominare in Europa. Le sue palle rubate, i suoi assist, la sua visione di gioco e capacità di aprire il campo gli valsero l'onorificenza consegnatagli nel 1990 di "Miglior Playmaker della storia del basket italiano".
Già da qualche anno prima che D'Antoni si ritirasse dal basket giocato nel 1990, si poteva intendere che la volontà dell'italo-americano fosse quella di iniziare a dirigere la sua orchestra dalla panchina. Negli ultimi anni lo si vedeva spesso prendere appunti sulle squadre avversarie scrivendo su un quadernino, come a far sembrare volesse studiare e carpire dagli altri allenatori tutti gli atteggiamenti di chi si sarebbe trovato di fronte in un futuro non troppo prossimo. Pochi mesi dopo aver smesso, Mike prende il suo primo incarico iniziando ad allenare il team che aveva portato in alto da giocatore negli anni passati. Il neo-allenatore, fin da subito, getta le basi per quella che diventa una vera e propria filosofia: lo "Small Ball". Il basket degli anni '90 era uno sport molto fisico, in cui i ruoli dei giocatori erano rigidamente codificati, come accadeva con il centro che doveva essere un atleta non necessariamente tecnico, ma molto alto, in grado di giocare sotto il ferro per prendere i rimbalzi da trasformare in canestri facili o stoppare gli avversari. Con Arsenio Lupin in panchina invece, i giocatori non sono legati ai ruoli classici, ma sono chiamati a occupare diversamente gli spazi per diventare un pericolo perimetralmente. D'Antoni ha confermato più volte che il suo modo di allenare nacque e si formò in Europa, dove per esempio iniziò a concepire il tiro dalla distanza come un tiro "pregiato", che negli Stati Uniti invece non veniva sfruttato nel modo giusto. Essendo un tiro che consegnava 3 punti, Mike strutturò delle strategie in grado di far muovere la difesa avversaria per coprire tutto lo spazio, evitando il colpo da dietro la linea e, al tempo stesso, creare un'opzione per svuotare l'area e rendere più agevole la penetrazione sotto canestro. Tanto attacco ma, in maniera più nascosta, anche tanta difesa. Il suo basket da coach si basa da sempre su tre principi: lo "Small Ball" che ridisegna l'importanza dei ruoli per beneficiare di lunghi in grado di tirare dalla distanza, oltre che di playmaker abili passatori e capaci di aprire ampiamente e rapidamente il gioco; il "Seven Seconds or Less" che rende concreta la rivoluzione di D'Antoni non solo a livello di spazio ma anche di tempo, con le sue squadre che suonano la carica per accelerare nei primi secondi dell'azione e andare in attacco senza essere schiave del cronometro, creando la possibilità di sorprendere l'avversario e avere molte occasioni per fare più punti della compagine rivale; il "Pace and Space" rinnova appunto la visione cestistica dello spazio e del tempo che con il baffuto cancella gli standard concepiti universalmente fino al 1990, con un movimento continuo alla ricerca, istantanea o quasi, di apertura del campo, penetrazioni o scarichi per cercare il tiro da tre punti. Campo aperto, area libera, azioni rapide e che non concedono tempo per l’organizzazione agli avversari: D'Antoni costruisce così le sue, non moltissime, vittorie in Italia fra Milano e Treviso prima di compiere il tragitto inverso rispetto a quando era sul pitturato in veste di playmaker. Dopo qualche anno in giro per l'Nba a ricoprire il ruolo di assistente al coach o di traghettatore, arriva finalmente il primo progetto importante sulla panchina dei Phoenix Suns. Chiese e ottenne un playmaker che amasse correre in maniera frenetica ma utile e che fosse soprattutto in grado di sfornare assist e palle rubate. Steve Nash corrispondeva all'identikit e lasciò i Dallas Mavericks per sposare il piano D'Antoni. Nel pieno della sua maturità cestistica, Nash diede la sferzata decisiva ai Suns e fu la definitiva elevazione della filosofia di gioco di D’Antoni sul pitturato. Soprattutto il 2005 e il 2006, anni in cui il playmaker vinse 2 MVP e il tecnico un premio come miglior coach dell'anno al termine del primo, diventarono le stagioni in cui i Suns si trasformarono nel manifesto rivoluzionario della Nba. Il team dell'Arizona, però, non riuscì comunque a conquistare la gloria finale non andando oltre le finali di Conference. Le vittorie come allenatore nella Lega, per il nativo di Mullens, non arrivarono e ad oggi non sono ancora arrivate nonostante le esperienze con altri grandi franchigie come i New York Knicks, i Los Angeles Lakers e gli Houston Rockets. Le scelte visionarie di D'Antoni hanno influenzato un'intera categoria di giovani allenatori che hanno già vinto in NBA o stanno ponendo le fondamenta per farlo, ne stanno traendo beneficio anche i giocatori stessi, visto l'innalzarsi delle statistiche di partite che terminano con punteggi e intensità molto superiori alla norma. Il suo scenario sul campo è democratico: tutti sono in grado di mettere a referto numeri migliori e di mostrare le proprie doti perché si fa parte di una sinfonia e non di un assolo. Quello che manca davvero al buon Mike sono i titoli, unico tasto dolente di una carriera da applausi e da precursore in campo e in panchina. Chissà se gli basteranno come parziale rivincita i pareri e le parole di chi sottolinea che il basket moderno è figlio del suo pensiero e dei suoi insegnamenti, o se l'attuale vice di Steve Nash ai Brooklyn Nets (proprio lui) riuscirà in una maniera o nell'altra a portare a casa un Anello NBA. Per ora, nonostante le settanta candeline appena spente, sembra non voler mollare un centimetro, rimanendo da protagonista nel panorama della Lega più scoppiettante di sempre.
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