Vent'anni senza Marco Pantani

Vent'anni senza Marco Pantani

L'ultimo ciclista a vincere l'accoppiata Giro d'Italia-Tour de France, uno degli scalatori più forti della storia del ciclismo se ne andò il giorno di San Valentino del 2004, lasciando un vuoto nel cuore dei tifosi 

Paolo Marcacci/Edipress

14.02.2024 ( Aggiornata il 14.02.2024 07:01 )

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Il destino è un parassita, Marco; forse lo sapevi già, forse l’avevi sempre saputo; di certo l’avresti scoperto, non molto tempo dopo. Non dovevi offrirgli l’appiglio di quella frase: così geniale, così istintiva; così profetica, a pensarci ora, che tutto è accaduto, perché prima aveva cominciato a cadere.

Alla fine di una tappa del Tour Gianni Mura t’aveva rivolto una domanda, semplice come una carezza: «Perché vai così forte in salita?». Tu però hai risposto con uno schiaffo, come se lo stessi dando allo specchio, però: «Per abbreviare la mia agonia».

Non troppi anni fa, l’Italia sembrava essere tornata bambina. Bambina come quando la gente si spargeva lungo le strade, aspettando per ore e bevendo birra calda sui prati; o come quando la radio, più, e prima, degli echi di uno stadio, portava nelle case rumore di folla e motori al seguito. Al seguito di chi? Di uomini ingobbiti sui propri quadricipiti, arrampicati su polpacci di legno; di eroi della fatica che, tra marchi di saponette, di dentifricio, di olio d’oliva o di gomme da masticare, nobilitavano uno sforzo che sembrava avere più cose in comune con quello dei contadini, degli operai.

Negli anni Novanta, dunque, quando un secolo stava per finire, sembrava che un’Italia cinica, disordinata e incattivita dai suoi stessi intrallazzi non avesse più tempo, né passione, per assecondare il giro silenzioso di una catena, i suoi tlack tlack impercettibili nel passaggio da una corona all’altra, quando l’asfalto comincia a trattenere il ciclista, quando la pendenza sembra afferrarlo per il collo, come per riportarlo indietro.

A questo Marco non aveva il tempo di pensare, né mai gli sarebbe venuto in mente. La mente era occupata dal suo sogno, quello che dalla prima volta lo aveva ipnotizzato con il filo nero di un tubolare; quello che aveva scoperto un giorno quando suo nonno, Sotero, gli aveva fatto trovare davanti al pianerottolo una bicicletta.

E se c’era una pausa; alla fine di quei chilometri che non bastavano mai, era sempre quando il tragitto si spegneva davanti al chiosco di Mamma Tonina, dove ogni trenta secondi il sorriso aveva la forma di una piäda, con la a strascicata di Cesenatico e le bruciature che facevano lacrimare lo squaquerone. Buone per l’inverno romagnolo, quando serve la mantellina anche se non piove ; buone per l’estate, col sole che sembra sempre squagliarsi anche lui all’orizzonte, e una punteggiatura di moscerini in faccia, quando comincia la discesa.

Marco Pantani, un gigante

Ci perdoni, Marco, tu che di cose da perdonare ne hai troppe, a troppa gente, se non ti raccontiamo da un prima a un dopo ma se ti raccontiamo come se tutte le emozioni fossero un eterno presente? Sì, ci perdoni perché hai il sorriso che hai, sul gradino più alto del podio degli Champs Élysées, alla fine del Tour del 1998: ad alzarti il braccio c’è Felice Gimondi, quasi più contento di te. E i francesi che si incazzano, come per il Bartali di Paolo Conte; come per ogni volta che con noi le palle ancora gli girano. Dopo il Giro d’Italia hai in tasca anche la Grand Boucle, quelle due cose nella stessa estate se le possono permettere in pochi. Se le sono potute concedere solo i più grandi. Però ai francesi una cosa non potremo mai rimproverare: di non riconoscere i meriti degli avversari, specialmente quando demoliscono un tedescone come Ulrich, che aveva cinque minuti di vantaggio, prima che cominciasse la salita verso Les Deux Alpes: sempre più pallido, a ogni giro di pedale, più segnato negli occhi, più ansimante, il tedesco; due volte affaticato quando ti guardava i giri nelle gambe, via via più leggeri, mentre diventavi un puntino sempre più piccolo in alto. Chapeau: è come se L’Equipe l’indomani si togliesse il cappello al cospetto della tua impresa: "C’est un geant" dice il titolo della prima pagina, sopra la tua foto coi denti digrignati sul traguardo. È un gigante.

Col senno di poi, che per definizione non serve a nulla, fuorché far aumentare la rabbia, senza mai farla decantare, quella risposta così poetica ti caricava sulla schiena, curva sull’ennesima salita, una specie di profezia.

C’è una data che segna indelebilmente la tua vita sportiva, ma inizia, prima, a sgretolare quella di uomo: sabato 5 giugno 1999. Quel giorno è come se la tua storia ti obbligasse a farsi guadare dall’esterno; quel giorno è come se Marco apprendesse a metà mattinata che Pantani viene escluso dal Giro. Dopo le frazioni dell’Alpe di Pampeago e di Madonna di Campiglio (entrambe vinte), primo in classifica con 5’38” sul secondo (Savoldelli). C’è un verdetto, a quanto pare: valore di ematocrito al 52%, oltre il margine di tolleranza dell’1%, rispetto al limite massimo consentito. Esclusione, dopo la vittoria del giorno prima, seguita da polemiche e bufera mediatica. Il Giro andrà a Ivan Gotti e tu, il Pirata, con quel soprannome che secondo noi non hai mai amato del tutto, rinunci al Tour. Un gigantesco, inesorabile, spietato tritacarne è come se da quel momento in poi cominciasse a macinare le tue membra così affusolate, le tue ossa leggere. Davanti allo specchio c’è, ora, di nuovo il viso di un ragazzo di Cesena; spaventato da quello che gli hanno appena fatto sapere, è vero; ma sgomento, soprattutto, da tutto ciò che sa di aver perso in una mezza mattina di montagna.

Gianni Mura e il Pirata

E ancora Gianni Mura ha saputo sintetizzare meglio di noi, meglio di tutti, quel pezzo di vita residua che ti sarebbe toccata in sorte da lì in poi, come se il ritorno in sella fosse stato un particolare solo più malinconico di tutti gli altri: "Marco Pantani ha cominciato a morire quella mattina del ‘ 99, a Madonna di Campiglio. Non ha accettato la positività, non ha accettato niente di quello che gli capitava. Tanti altri corridori, invischiati nelle faccende dell’ ematocrito, del doping, si sono fermati e sono ripartiti. Lui no. Lui, il re delle salite, si è specializzato nelle discese. Agli inferi, ai paradisi artificiali, a tutto quello che lo nascondeva all’opinione pubblica, ai giornalisti, ai giudici. Si è sempre più isolato, la sua fuga ha avuto distacchi crescenti". 

Ti erano capitati tanti incidenti, in carriera: ti eri spaccato le gambe e il resto; ti sei rotto quasi dappertutto, ma sempre rimanendo intero, dentro. A Madonna di Campiglio è stato come se ti avessero spezzato in due, che è cosa diversa. Hai accusato il mondo di essersi accanito, con te: se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato, cantava De André.

Il fatto è che, nel frattempo, eri diventato qualcuno, o più che altro qualcosa, di tanto grosso, forse troppo. E allora, invece di attirare le allodole, quella volta decisero di spaccare lo specchio.

L'epilogo amaro 

Non si dovrebbe mai morire in una camera d’albergo, dove l’anonimato di una stanza e del numero scritto sulla porta ti sottraggono a quello che sei stato, che hai fatto, conquistato e persino sbagliato. E non bisognerebbe mai convincersi di essere colpevoli quando nessuno la tua colpa è riuscito a dimostrarla. E se poi nessun giorno sarà mai quello giusto per togliersi di mezzo, ci sono però quelli più sbagliati ancora. Marco Pantani scelse il 14 febbraio del 2004, San Valentino. Nel giorno di chi si ama, lui scelse di smettere del tutto di volersi bene. In un residence chiamato “ Le rose”, come quelle che riceveva su ogni podio.

Se davvero ci fosse un paradiso, dovrebbe essere per ognuno di noi uguale al posto dove siamo stati più felici sulla terra. Il tuo Marco sarebbe fatto di sole a picco, o di pioggia battente; di mantelline da indossare in sella e di borracce da buttare lungo la strada; di secondi che diventano minuti e montagne sempre più vicine. E sul più bello la salita comincia a farsi sempre più ripida; senza che venga mai nessuno a dirti che la strada è interrotta.

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