Di Bartolomei e quell’esordio in Serie A alla Scala del calcio

Di Bartolomei e quell’esordio in Serie A alla Scala del calcio

Il capitano della Roma dello scudetto 1982-83 debuttò in un Inter-Roma del 22 aprile 1973. Per lui fu il primo incontro con una città che aveva nel destino 

Paolo Valenti/Edipress

22.04.2023 ( Aggiornata il 22.04.2023 09:03 )

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Il 22 aprile 1973 è la domenica di Pasqua. L’Italia si dibatte e discute fra inflazione, crisi energetica e violenza politica mentre il campionato si avvia verso un finale arroventato che avrà bisogno del fotofinish dell’ultima giornata per dare lo scudetto alla Juventus e lasciare un pugno di rammarico a Milan e Lazio. Una domenica di Pasqua nella quale il mistero della resurrezione, il profumo della colomba e le vicende del campionato si mescolano in un mélange di emozioni nel quale un calciatore neo maggiorenne trova la sua sorpresa più gradita: quella dell’esordio in Serie A.

Agostino Di Bartolomei e l'esordio in Inter-Roma 

Il sogno che faceva da bambino si materializza in un contesto impegnativo ad elevato coefficiente di difficoltà: lo stadio è San Siro, gli avversari gloriosi (Facchetti, Mazzola, Boninsegna, Corso) e lui viene inserito nell’undici titolare per sostituire un compagno importante come Ciccio Cordova. Ma Agostino Di Bartolomei è un ragazzo solido, di quelli che sanno cosa vogliono dalla vita, che sognano per ottenere il meglio, non per mero compiacimento adolescenziale. Quando la maglia giallorossa numero undici (nell’occasione bianca) gli cala sulle spalle, lui è pronto a sostenerla con tutto il peso e la gioia che comporta. Emozioni contrastanti, stomaco in subbuglio: non è difficile immaginare un po’ di tremore alle gambe alle 15.30 di quella domenica nel percorrere i pochi metri che portano dagli spogliatoi al terreno di gioco di uno degli stadi più iconici del mondo. Ma Di Bartolomei sa che i momenti decisivi, quelli che segnano un passaggio importante, danno la sensazione del salto nel vuoto. Vanno accolti e vissuti senza che il timore freni la transizione verso il futuro, quello che Agostino insegue da quando non aveva paura di tirare i calci di rigore all’oratorio del San Filippo Neri, dove la sua passione per il calcio aveva cominciato a sostanziarsi.

Milano nel destino di Agostino di Bartolomei

Lui, romano di Tor Marancia, forse in quel momento capisce che Milano è un luogo che segna il suo cammino. Aveva rifiutato le lusinghe del Milan quando, a tredici anni, ne aveva notato le qualità e voleva portarlo nel suo settore giovanile. Ora San Siro ne celebra il battesimo da calciatore vero. I rossoneri torneranno nel suo destino l’anno dopo, quando da capitano della Primavera li batterà in finale per vincere il campionato, e nel 1984, quando la sua Roma gli dirà che le loro strade si devono separare e Agostino seguirà il mentore Liedholm nella sua ultima esperienza da allenatore a Milano. Le prime volte, a prescindere dall’esito, non si possono dimenticare: Inter-Roma ristagna in un asfittico 0-0 ma la partita di Di Bartolomei, guidato da Antonio Trebiciani, il tecnico che lo allena nella Primavera da poco subentrato ad Helenio Herrera sulla panchina della prima squadra, è positiva. Nel commento al match, La Stampa del 24 aprile 1973 scrive: “Il romano diciottenne Di Bartolomei … ha fatto un positivo esordio in Serie A al posto di Cordova” mentre il Corriere della Sera ne rimarca un errore a inizio ripresa, quando “Di Bartolomei ha fallito il bersaglio da due passi”. Una domenica di Pasqua che per Agostino è soprattutto un’epifania: a San Siro si è rivelato questo ragazzo dallo sguardo fin troppo serio, difficilmente incline ai sorrisi, già capace di ovviare a qualche limite strutturale (Ago non aveva il dono della velocità) con un’interpretazione del gioco asciutta, fatta di possesso palla, precisi lanci in verticale e soluzioni dalla distanza che terrorizzano i portieri.

Di Bartolomei, anima da capitano

Un modo di stare in campo mai finalizzato all’autocelebrazione ma funzionale alle esigenze della squadra, lo specchio di un’anima che non indulge su se stessa ma si pone al servizio di una collettività di cui sa di far parte e che si sente ispirata a condurre. Nel gioco di Agostino, nella fascia che ne cingeva il braccio c’era un io che si faceva noi, una forza silenziosa che si sostanziava nei fatti. Eclatanti e definitivi come le punizioni che calciava, come anche quella che inflisse a sé e ai suoi cari nel porre fine prematuramente a una vita nella quale prese il sopravvento quel lato oscuro di cui nessuno aveva intuito la profondità dolorosa.

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