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Aldair, sessant'anni oggi; classe 1965 per l'almanacco, classe infinita per chi, come noi, ha avuto il privilegio di goderselo per tredici stagioni romaniste, vale a dire una vita calcistica spesa quasi per intero con indosso la stessa maglia e quasi sempre lo stesso numero, quel "sei" divenuto sacro, prima ritirato come omaggio a una carriera inimitabile e poi rimesso in pista sulle spalle di Kevin Strootman, che si sentì onorato e responsabilizzato da una simile investitura.

Dino Viola lo porta alla Roma per sei miliardi di Lire, dopo il suo primo mondiale con la Nazionale brasiliana, quello italiano del 1990, vissuto senza scendere in campo neppure un minuto. Avrà tutto il tempo, Aldair, per rifarsi, legando indissolubilmente il suo nome alla leggenda della Selecao: campione del mondo a Usa '94, finalista in Francia nel '98, due Coppa America, medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Atlanta del 1996, dove viene schierato come fuoriquota. Nel frattempo, il campionato italiano si stropiccia gli occhi di fronte a un giocatore che incarna, con prestazioni di livello eccelso, una storica inversione di tendenza: il Brasile, terra che per tradizione sforna continuamente funambolici e prolifici attaccanti, ha iniziato ad allevare ed esportare anche grandissimi difensori e la miglior testimonianza di ciò è il mondiale americano del 1994: ai goal dei grandissimi Bebeto e Romario corrispondono una inedita saggezza tattica e una solidità difensiva di stampo europeo, che il centrale romanista più di ogni altro incarna. Il quarto titolo mondiale della storia verdeoro arriva dopo una pausa di ventiquattro anni. A detta di tutti è quello dell'attaccante il compito più affascinante del gioco del calcio, per via della gloria che scaturisce dalla realizzazione dei gol; così come è vero che portieri si nasce, da che mondo è mondo. Poi, al netto delle deduzioni popolari che edificano granitici luoghi comuni sul mondo del pallone, la realtà continua a dirci che al momento di costruire una qualsiasi squadra, è buona norma cominciare da una difesa affidabile, perché l'edificio di qualsiasi vittoria deve poggiare sul minor numero possibile di goal incassati.

Se c'è una sorta di predestinazione nel diventare portiere o attaccante, quella del difensore è invece una vocazione, che si traduce in una missione: è assunzione di responsabilità nel proteggere i compagni e il risultato, è l'orgoglio di arrivare sempre un millesimo di secondo prima della palla e un millimetro davanti alla linea di porta, mentre i gomiti di un milione di attaccanti ti penetrano nel costato per ogni calcio d'angolo che Dio manda sulla terra. E quando pensi a un grande difensore, è sempre quello centrale che ti viene in mente, soprattutto se ha piedi degni di un centrocampista, come quelli di Aldair. La maglia del Flamengo come inizio degno delle sue doti, dopo una miope bocciatura da parte del Vasco da Gama, quindi il passaggio dell'Atlantico per vestire la casacca del Benfica - stagione 89/90 - con cui arriva subito a vivere l'esperienza di giocare una finale dell'allora Coppa dei Campioni, sconfitto per uno a zero dal grande Milan di Arrigo Sacchi. Chiunque gli giochi accanto - nei primi anni romanisti non sempre gli capitano compagni di reparto alla sua altezza - migliora, perché Aldair, oltre alla potenza fisica che può vantare nei contrasti e allo strapotere nel gioco aereo, vanta la capacità di "lucidare" la palla e allo scoglio di una classe innata si aggrappa ogni volta che il suo unico tallone d'achille, vale a dire la mancanza di rapidità negli spazi brevi, potrebbe limitare l'efficacia della sua azione difensiva. Maestoso nell'incedere palla al piede, oltre che un baluardo rappresenta anche una fonte di gioco: quasi sempre all'impeccabile ed elegante disimpegno segue il lancio con i giri contati che ribalta l'azione. Concludiamo con un particolare, per celebrare il compleanno di uno dei più forti e tecnici centrali difensivi della storia della Serie A: la personalità non si misura a parole. Lui, per esempio, ne ha sempre pronunciate poche.
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