Rui Barros, due anni da rimpiangere alla Juventus

Rui Barros, due anni da rimpiangere alla Juventus

Arrivato nell’estate del 1988 per volere di Zoff, il portoghese venne ceduto nel 1990 a causa della presunta incompatibilità col “calcio champagne” di Maifredi. Con il Porto collezionò innumerevoli trofei
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Lisbona è città di mare. Affacciata sull’Atlantico, sa regalare pomeriggi di primavera anche quando la rigidità del calendario ricorda che l’equinozio non è ancora arrivato. Come il 24 febbraio 1988, quando la Nazionale olimpica guidata da Dino Zoff andò in trasferta per incontrare il Portogallo in una partita di qualificazione alla fase finale della manifestazione a cinque cerchi. Il match finì 0-0 ma non scorse via anonimo sul taccuino degli appunti del tecnico friulano, che rimase colpito da un giocatore di un metro e sessanta che sul campo era difficile fermare. Meno alto di Maradona, come il Pibe, fors’anche di più, in quel match lottò leonino su ogni pallone, mostrando anche una tecnica di base eccellente. Quando, l’estate seguente, l’allenatore friulano tornò a Torino a guidare la Juventus dalla panchina insieme a Gaetano Scirea, amico e compagno di mille partite, uno dei primi nomi che chiese alla società di acquistare fu proprio quello di Rui Barros, il piccolo furetto che lo aveva impressionato in quel pomeriggio lusitano di pochi mesi prima.

 

 

L’arrivo a Torino e il taglio dei capelli

Siamo nell’estate del 1988, quando i tifosi bianconeri sperano sotto l’ombrellone un ritorno ai fasti perduti due anni prima con l’ultimo scudetto vinto sotto l’egida vincente di Michel Platini. Dopo l’insipida gestione di Rino Marchesi, il ritorno di due bandiere come Zoff e Scirea sembra garantire nuove prospettive, nelle quali l’inserimento di Rui Barros diventa un elemento importante di garanzia tecnica. Il portoghese, infatti, si era messo in luce la stagione precedente con il Porto, detentore della Coppa dei Campioni, andando a sostituire un giocatore straordinario come Paolo Futre, ceduto all’Atletico Madrid. Nel 1987-88, con i Dragões, Rui Barros aveva fatto incetta di trofei, vincendo campionato, coppa nazionale, Supercoppa Uefa e Coppa Intercontinentale. Ma, soprattutto, aveva colpito l’attenzione di Zoff in quella partita tra Nazionali olimpiche, decisiva per farlo arrivare a Torino. Del resto, in una squadra di buoni giocatori ai quali, però, mancava lo strappo della velocità, Rui Barros si andava a inserire alla perfezione. L’arrivo a Torino fu segnato da un aneddoto curioso: appena firmato il contratto, infatti, Boniperti cominciò a fare al neoacquisto un discorso di pragmatica nel quale riassumeva le regole del club. Nel momento in cui il giovane portoghese fece capire di non aver compreso bene una parte della conversazione, Boniperti mimò il gesto delle forbici sui capelli. Il messaggio era chiaro: prima della presentazione alla stampa, la sua folta capigliatura doveva essere regolata. La sorpresa per Rui fu che in quel momento c’era già un barbiere pronto a sistemare quella pratica, alla quale alla Juventus si teneva molto.

 

 

Velocità e tecnica

Capace di svariare su tutto il fronte offensivo, il portoghese diventava letale nelle accelerazioni verticali, quando andava in ripartenza muovendosi da lontano. La rapidità di corsa, unita all’ottima capacità di conduzione del pallone e al baricentro basso, lo rendevano imprendibile agli avversari che, per fermarlo, dovevano ricorrere spesso a falli plateali. In quella Juventus che, con centrocampisti come Marocchi, Magrin e Galia, cercava di gestire le partite con tempi rallentati, Rui Barros costituiva la variabile imprevedibile capace di aumentare il potenziale offensivo. Lo sperimentò anche il Milan di Sacchi e degli olandesi l’11 marzo 1990 quando, al vecchio Comunale, i bianconeri si imposero 3-0 grazie anche a una doppietta del furetto lusitano, velocissimo nell’insinuarsi sotto porta tra le maglie della difesa ospite. Furono, quelli, gli unici due gol realizzati in campionato dal portoghese che, sollevato dall’arrivo in attacco di attaccanti “veri” come Schillaci e Casiraghi, poté permettersi di arretrare il suo raggio d’azione e dedicarsi maggiormente alla costruzione del gioco offensivo e alla rifinitura, dopo una prima annata in cui il bottino di gol era stato molto più cospicuo (ben 15 in tutte le competizioni). Nel 1989-90 lo score personale di Rui Barros scese a sole 4 marcature, con le necessarie precisazioni di cui sopra.

 

 

Vincere e dirsi addio

In compenso, però, la squadra andò molto meglio, vincendo Coppa Italia e Coppa Uefa e arrivando quarta in campionato alle spalle del Napoli e delle milanesi che, a detta della critica, avevano organici più attrezzati. Nulla faceva presagire che, davanti a questi risultati, la Vecchia Signora, affacciandosi sul suo futuro immediato, avesse bisogno di una rivoluzione. La realtà, invece, smentì questa interpretazione: la voglia di qualcosa di diverso portò il nuovo management juventino a far cadere un po' di teste (tra cui quella addolorata di Dino Zoff, che da quel momento con i bianconeri taglio per sempre i ponti) per fare spazio a Gigi Maifredi e al suo “calcio champagne”, che tanto aveva impressionato a Bologna. Tra queste cadde anche quella di Rui Barros che, nell’estate di Italia 90, andava sacrificato sull’altare di quel presunto gioco frizzante per il quale il piccolo portoghese non veniva ritenuto adatto. Zoff, approdato alla Lazio, lo avrebbe volentieri portato con sé ma la dirigenza bianconera si oppose per non avvantaggiare una concorrente italiana.

Dalla Francia al ritorno a casa

Così la cessione si concretizzò verso il Monaco. Nel Principato, Rui Barros dimostrò che i conti su di lui erano stati fatti male: vinse la Coppa nazionale nella prima annata sotto la guida di Arsene Wenger, arrivando poi in finale di Coppa delle Coppe la stagione seguente. Continuò a essere un giocatore di riferimento del Portogallo, Paese nel quale, dopo un anno all’Olympique Marsiglia, tornò nel 1994 per rivestire la maglia del suo Porto e diventarne definitivamente una leggenda. Si, perché negli ultimi sei anni di carriera fu protagonista del "Penta", la storica impresa di vincere cinque campionati portoghesi consecutivi (dal 1994-95 al 1998-99), a cui si aggiunsero due Coppe del Portogallo (1997-98 e 1999-2000) e quattro Supercoppe Nazionali (1995, 1997, 1999, 2000), a chiusura di un percorso caratterizzato in ogni suo passaggio da professionalità e simpatia.

 

 

 

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