Glenn Hoddle, il tocco che insegnò all’Inghilterra a sognare

Glenn Hoddle, il tocco che insegnò all’Inghilterra a sognare

Cresciuto con il Tottenham nel cuore, lo lasciò solo quando fu pronto per parlare francese: fu una luce di classe e qualità, trequartista sopraffino in un'era in cui il calcio inglese era ancora fango e tacchetti
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C’erano giorni, nell’Inghilterra degli anni Ottanta, in cui il calcio sembrava un romanzo d’appendice: pioggia obliqua, fari lattiginosi, il White Hart Lane come un teatro d’ombre. Nel mezzo, una figura che non correva: scivolava. Glenn Hoddle non spostava l’aria, la pettinava. Due piedi uguali, la bussola nel collo del piede, lo sguardo sempre un passo avanti al resto del mondo. In un Paese che allora misurava i centrocampisti a peso e tackle, lui presentò le mani di un pianista e la testardaggine di chi è cresciuto sul prato dei sogni: far giocare bene gli altri, prima ancora di far bella figura. Nato a Hayes il 27 ottobre 1957 e cresciuto con il Tottenham nel cuore, Hoddle entra bambino negli Spurs e ne esce uomo solo quando la vita lo invita a parlare francese.

 

 

 

Con il bianco cangiante del club del North London scrive pagine che odorano di nafta e gloria: due FA Cup in fila, la Coppa UEFA ’84 e una quantità di assist e gol disegnati col compasso. A seguire, un Mondiale ’86 che lo mette finalmente al centro della scena: Bobby Robson consegna a Hoddle le chiavi del centrocampo e l’Inghilterra si accorge che la profondità può essere un passaggio, non solo una rincorsa. È la rivelazione di un talento che molti – Michel Platini in testa – considereranno sottoutilizzato in patria: «Fosse nato in Francia, avrebbe giocato più di 100 partite in Nazionale», il refrain che attraversa gli anni come un rimpianto diventato corale.

 

 

La notte in cui Johan capì

La serata-manifesto è datata 19 ottobre 1983: Tottenham-Feyenoord, secondo turno di Coppa UEFA. Dall’altra parte c’è Johan Cruyff, il Professor Olandese tornato in patria per chiudere il cerchio; decide di marcarsi da solo il problema “Hoddle”. Sì: lo annuncia ai giornali e poi lo fa, uomo su uomo. Glenn risponde come sa: orchestra quattro gol nel primo tempo – due assist diretti, due azioni avviate e rifinite con la puntualità di un direttore d’orchestra – e lascia Cruijff a inseguire i fili d’erba. A fine partita, l’olandese chiede la maglia e confessa di essersi sentito «un’ombra senza presenza». Non è folklore: è il riconoscimento del più grande a chi, per una sera, gli ha mostrato lo specchio del futuro. Quella corsa porterà il Tottenham fino al trionfo di maggio ’84 contro l’Anderlecht, ai rigori: l’Europa torna a White Hart Lane tra le mani di un gruppo che mischia operai e poeti — Ardiles e Villa, Archibald e Crook, Galvin e Roberts — e di cui Hoddle è il primo violino anche se purtroppo dal ritorno contro l’Austria Vienna non giocherà più. Steve Perryman, capitano e memoria storica, ha sempre spiegato che la bellezza agli Spurs non era capriccio, ma metodo: «Giocare veloce, semplice e preciso», il catechismo di Bill Nicholson tramandato fino a Keith Burkinshaw. Dentro quel telaio, Hoddle era il filo d’oro.

 

 

 

 

“My game”: la geometria è sentimento

Riguardando i suoi gol iconici, Hoddle li racconta con una lucidità quasi artigianale: il sinistro in estasi a Stoke nel ’76, all’esordio dal primo minuto con il 7 sulla spalle e gli Spurs in maglia gialla; la volée “alla Van Basten” il giorno del 21esimo compleanno al Forest; il pallonetto impossibile al Watford. Sono lampi che sembrano istinto e invece sono fisica applicata: angolo d’impatto, corsa del pallone, tempo di salto. E poi le punizioni “da vicino”, da non colpire forte ma “giuste”, perché l’arte è far piegare l’aria dove non può. In quelle memorie c’è il manifesto dell’“inglese continentale” che l’Inghilterra faticò a capirsi in casa e che l’Europa abbracciò senza esitazioni.

 

 

 

Monaco, la prova che serviva

Estate 1987: Arsène Wenger lo chiama a Monaco. Hoddle accetta e l’equazione si risolve: subito campione di Francia, dentro una squadra moderna che sembra l’abbozzo dell’Arsenal che verrà. “Per noi Glenn è Dio”, dirà il portiere Ettori. Non è incenso di maniera: è la constatazione che, liberato dai doveri da cantiere, Hoddle diventa un regista totale, sommatoria di linee e tempi, riferimento tecnico e morale. È lì che molti smettono di parlare di “lusso” e cominciano a pronunciare la parola giusta: necessità.

 

 

 

 

Il manager che ha visto lontano

A ginocchio capriccioso, Hoddle si reinventa player-manager allo Swindon, poi al Chelsea; nel ’96 siede sulla panchina dell’Inghilterra. Lascerà tra polemiche più mediatiche che tecniche, ma avrà il merito — tra gli altri — di intravedere presto chi avrebbe riscritto un pezzo di centrocampo inglese: Paul Scholes, convocato e battezzato in Nazionale da lui nel ’97. Col tempo, Hoddle dirà senza girarci intorno: «Il miglior giocatore che io abbia mai allenato». È una frase che pesa, perché racconta un’idea di calcio: delicatezza di tocco, ma zero indulgenze. Il talento, per Hoddle, è un dovere.

 

 

 

 

Il paradosso inglese

Hoddle è stato giudicato con il metro sbagliato nell’epoca sbagliata. Gli hanno chiesto di spingere il trattore quando bastava lasciarlo dipingere la rotta. Le storie raccolte negli anni lo confermano: Brian Clough avrebbe costruito una Nazionale attorno a lui; Platini lo avrebbe messo sempre in campo; Wenger lo chiama «il più tecnico che abbia mai allenato». Dall’altra sponda, i duri e puri dell’Old England gli rimproveravano di non “sporcarsi” abbastanza. Il dibattito ha riempito pub e redazioni; il campo, però, ha sempre dato una risposta semplice: dove la palla chiede un’idea, Hoddle la trova prima.

 

 

 

Cosa resterà degli anni Ottanta

Resta la carezza con cui apriva il campo a Lineker in Messico, resta il bacio al Lane nell’ultimo gol in casa, resta l’eco di una frase pronunciata dal più grande tra i grandi: «Ero un’ombra, senza presenza». Se Hoddle è stato, come qualcuno ha scritto, «nel posto sbagliato al momento sbagliato», allora è anche vero che quel posto e quel momento hanno avuto bisogno di lui per imparare a cambiare. E noi, che andiamo in cerca di palloni d’oro in ogni partita di ottobre, dovremmo ricordarci di quel calciatore che su un prato inglese insegnò la parola più difficile: pazienza. La pazienza che serve per vedere la giocata prima che accada. La pazienza che trasforma il fango in velluto.

 

 

 

 

 

 

 

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