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Era forte Arrigo Dolso, un talento vero, con quei calzettoni rigorosamente abbassati come tutti i funamboli del calcio, mandava in estasi i tifosi coi suoi dribbbling stretti e ripetuti che mettevano a sedere gli avversari. Ciuffo a banana, andatura da bandolero stanco, lo chiamavano “il piede sinistro di Dio”, perché da mancino naturale, con quel piede fatato dava del tu al pallone. “Lavore hombre” gli urlava durante gli allenamenti Juan Carlos Lorenzo, il mister di quella Lazio guascona che ogni tanto riusciva a battere le grandi, e lui mentre stancamente faceva il giro di campo a Tor di Quinto insieme ai compagni, lo guardava e sornione gli faveca l'occhietto. A Lorenzo. Il mago argentino che metteva tutti in riga ma che da grande intenditore di calcio aveva un debole per lui. Sì, Arrigo Dolso che ci lasciava per un male incurabile dieci anni fa – il 15 ottobre 2015 – alla vigilia dei 69 anni vissuti intensamente era proprio forte, ma come quegli studenti che seppur dotati facevano le bizze coi libri, più di tanto non si applicava.
Non a caso nella sua carriera (Varese, Alessandria, Benevento, Trapani, Grosseto, Ravenna) raccolse molto poco rispetto a quanto valeva. Certo le squadre in cui giocava non erano compagini che lottavano per lo scudetto, ma la differenza tra lui, numero 10 da applausi a scena aperta e un altro, la faceva una maledetta indolenza che era nel suo Dna. Dolso Arrigo da San Daniele nel Friuli, centrocampista amato dalla gente laziale per il suo estro, era figlio di una coppia di operai e degli stenti del dopoguerra, perciò amava godersi la vita senza rimpianti. Uscire la sera e andare a via Veneto o al Piper per dare un’occhiata a quel mondo di nottambuli in fermento era come un tunnel a un avversario, un dribbling riuscito, un doppio passo "alla Biavati", le sue specialità. Al pari delle zingarate notturne che gli procuravano inevitabilmente del sonno arretrato. Tanto da farlo addormentare durante una lezione di tattica, un pisolino galeotto che venne interrotto da Lorenzo con uno sonoro schiaffone tra le risate di Peppiniello Massa e compagni. Altri tempi, altri giocatori, altri allenatori.
Quella stanchezza cronica che si portava dietro, in campo poi, durante le partite, la annullava con i suoi gesti tecnici, numeri da circo che spesso e volentieri non erano proficui al gioco in sé, alla manovra studiata a tavolino per portare la vttoria a casa, ma erano comunque un bel vedere. Tanti tocchi, qualche lancio, ma pochi gol insomma. Ecco perché quando segnò di testa al derby, l’Olimpico biancoceleste esplose di gioia. Perchè non era abituato a vederlo concretizzare il suo "impegno" in una rete. Così il giorno dopo i bar e le fumose sale biliardo della città furono tappezzati con il suo poster a colori che era allegato al “Momento Sera". "Dolso sei mejo de Corso" lo slogan che i fedelissimi della Lazio gli urlavano dalla Curva, con chiaro riferimento al mancino della grande Inter targata Helenio Herrera. Venne appeso anche uno striscione che parafrasando la pubblicità a Carosello di una nota marca di prodotti alimentari aveva la scritta "Con Arrigo me la sbrigo".
Miglior giocatore della serie C, aveva vinto con l'Udinese il campionato Primavera, con lui c'erano Ernesto Galli in porta, Braida centravanti, Ezio Vendrame all'ala sinistra. Vince il premio del Guerin Sportivo come miglior giovane della categoria. Lo vogliono in tanti. Lo prende la Lazio nel 66 su indicazione di Nello Governato, per 95 milioni ed inizia così la sua avventura nella prima squadra della Capitale tra alti e bassi. In tre stagioni una ottantina di presenze, inframmezzate da un passaggio al Monza e un ritorno nella Lazio del 1970/71 che con Giorgio Chinaglia e Pino Wilson stava muovendo i primi passi verso un futuro entusiasmante. Sorridente e garbato, Dolso era un artista della pelota a cui si voleva bene a prescindere. Anche se poi ti faceva dannare perchè non passava mai la palla, da vero innamorato della sfera di cuoio quale era. Seguiva la moda, camicie a fiori coi collettoni alla Sandro Ciotti l'estate e quelle a coste di velluto con le quattro tasche l'inverno, i calzoni erano ovviamente a zampa d'elefante e i basettoni all'inglese non potevano mancare sul suo volto. La musica era la sua passione, come il gentil sesso (decine le lettere delle fan che arrivavano a via Col di Lana, nella sede della società romana). Il suo mito era Adriano Celentano e andava pazzo per Patty Pravo, artisti, il ragazzo della via Gluck e la Bambola della musica leggera, che conosceva a menadito e di cui acquistava i dischi. “Stanotte in che complesso hai suonato?” gli chiedeva sarcastico Lorenzo l’allenatore che nonostante le bacchettate lo ha valorizzato più di tutti. Finita l’epoca Lazio e archiviata la dolce vita capitolina, il prode Arrigo ha viaggiato su e giù per il Bel paese continuando a dare calci al pallone sino a 38 anni suonati. Poi il buen retiro all'isola d’Elba, dove aprì un bar a Porteferraio, insegnando nello stesso tempo ai ragazzi dell’Audace i rudimenti della tecnica. E raccontando di calcio, dei grandi miti come Zoff e Riva con cui aveva fatto il militare o di Kroll a cui aveva fatto un clamoroso tunnel. Sono passati dieci anni dalla sua morte, delle sue gesta è rimasto il ricordo nei commenti sui social e nelle radio private romane, un ricordo malinconico e velato di nostalgia per un eroe della generazione Panini, quella che elevava a protagonista anche chi non era il migliore di tutti e magari giocava una volta sì e due no. Come Arrigo Dolso, protagonistaa di un calcio a misura d’uomo e non di sponsor, fatto di passione e passioni fuori e dentro il campo, talentuoso e indolente poeta del calcio amato non solo dalle folle ma anche da quanti amano il gioco più bello del mondo.
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