Il valzer italiano di Herbert Prohaska

Il valzer italiano di Herbert Prohaska

Arrivato nell’estate del 1980, il centrocampista austriaco giocò in serie A con Inter e Roma, dove fu uno dei protagonisti dello scudetto 1982-83

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La sconfitta ai mondiali inglesi contro la Corea del Nord nel 1966 aveva portato alla decisione di chiudere le frontiere ai calciatori stranieri, per permettere agli italiani di avere tutto lo spazio necessario per crescere e consentire ai commissari tecnici della Nazionale di avere una base di valutazione più ampia e collaudata per le loro scelte. Ecco perché l’estate del 1980 rappresentò un momento cruciale per la storia del calcio italiano: dopo quattordici anni, infatti, si riaprivano le porte agli stranieri, uno per squadra. Una dose iniziale per riabituare il nostro movimento alla presenza di giocatori con usi, costumi e un modo di interpretare il gioco diversi dai nostri. 


 

 

Prohaska, la prima scelta dell’Inter

Agli albori degli anni Ottanta, con i club che facevano fatica ad affermarsi nelle Coppe europee, l’innesto degli stranieri doveva contribuire a un cambio di mentalità e a un innalzamento del tasso tecnico capace di riportare le nostre squadre ai fasti degli anni Sessanta.
L’Inter, che di quei fasti era stata una protagonista assoluta, per difendere lo scudetto appena conquistato e provare la scalata alla Coppa dei Campioni, aveva scelto di portare a Milano Herbert Prohaska. A livello internazionale, l’austriaco non era un top player del livello di Zico, Maradona, Kempes o Rummenigge. Ma il suo curriculum era comunque significativo: in patria, con l’Austria Vienna, a soli venticinque anni aveva già vinto 4 campionati e 3 Coppe nazionali mentre in Nazionale era un titolare inamovibile che aveva ben figurato ai mondiali del 1978.

 

 

Per averlo, i nerazzurri avevano lavorato in gran segreto: Mazzola e Bersellini, per saggiarne mentalità e carattere, lo avevano raggiunto in un ritiro dell’Austria per chiedergli se, arrivato in Italia, sarebbe stato disponibile a sacrificarsi anche in fase difensiva. Il direttore sportivo Beltrami lo incontrò a Vienna lontano dai riflettori per bruciare la concorrenza di Milan e Bologna. La stima di Gianni Rivera e il tardivo tentativo del Barcellona di portarlo in Catalogna ne spiegavano, più dei numeri, lo spessore tecnico. Già, perché Herbert Prohaska, a dispetto di chi lo definiva lento, era un centrocampista in grado di ritagliare il gioco come pochi. In un’epoca in cui i numeri di maglia non ricordavano le tombole natalizie, il suo 8 lo raccontava bene: tecnico, ma non come un fantasista; disponibile a coprire il campo con un’ampia falcata di corsa, senza l’indole agonistico-proletaria dei mediani. Una via di mezzo, come disse Beltrami, tra i polmoni di Marini e il genio di Beccalossi. In quell’Inter fu proprio questo il suo ruolo: filtro e ripartenza, intercetto e costruzione, con la pulizia di un piede educato e di una visione di gioco lineare che si esprimeva spesso per geometrie verticali. 


 

 

 

Dalla Coppa dei Campioni all’addio

Nei due anni di marca interista, Prohaska aiutò la squadra a inseguire il sogno della Coppa dei Campioni, infrantosi sul palo che proprio lui colpì nella semifinale contro il Real Madrid. E ad affermarsi, l’anno seguente, in Coppa Italia. Vittoria più amara che dolce: Mazzola, proprio dopo quel successo, comunicò a Herbert che nel futuro dell’Inter per lui non c’era più posto. Hansi Müller e Juary avrebbero rappresentato la nuova frontiera dei sogni esotici nerazzurri. Per lui, in qualche modo, si sarebbe trovata una sistemazione alternativa. Un passaggio doloroso, certo. Che, però, metteva fine a una serie di promesse non mantenute e di incomprensioni che ferirono l’animo di un uomo mai sopra le righe, tanto da fargli dichiarare che, del periodo milanese, avrebbe ricordato “con piacere solo Bersellini perché era un brav’uomo”. Il quale, esodato anche lui da quell’Inter, gli chiese di seguirlo al Torino. Ma Prohaska non aveva voglia di scomparire dal proscenio europeo. 


 

 

La cavalcata in giallorosso

Fu la Roma di quegli anni, la Roma che insidiava il dominio della Juventus, il club di Viola, Liedholm e Falcão, a guarirlo dalle sue malinconie. Con i giallorossi scoprì un altro modo di vivere il calcio italiano. Le nebbie di Milano, intrise di aspettative pressanti e di opacità relazionali, si sciolsero nella luminosità delle sedute di allenamento a Trigoria e delle domeniche affollate all’Olimpico. Con il maestro svedese in panchina, Prohaska torna a sentirsi al posto giusto, dopo che nell’Inter aveva sempre più spesso dovuto adattarsi alle esigenze della marcatura a uomo anche in mezzo al campo. Degli eroi di quella Roma che vince lo scudetto, lui è quello che fa meno rumore. Il suo nome non è il primo che viene in mente, stretto tra la magnificenza di Falcão, i virtuosismi di Conti, i lanci di Di Bartolomei, i gol di Pruzzo, la potenza fisica di Vierchowod, Ancelotti e Nela. Per ricordarlo è necessario ricorrere alla litania di quella formazione, che i romanisti che hanno vissuto quell’epoca ricordano a memoria: “… Conti, Prohaska, Pruzzo…”. C’era anche lui in quella Roma 1982-83 a guardare le spalle al Divino che si lanciava nelle sue proiezioni offensive, a rubare un pallone sfuggito alle tenaglie di Ancelotti, a proporre l’appoggio al compagno in difficoltà, a verticalizzare l’azione nei momenti in cui la ragnatela voluta dal Barone aveva assopito le resistenze avversarie. Il peso di Herbert in quella squadra si palesa bene anche guardando le statistiche: nelle quattro partite che non poté disputare in quel campionato, la Roma riuscì a vincere una volta sola. 
La Città Eterna era entrata nel cuore di un altro straniero. Ma proprio quando i suoi pensieri lo vedevano legarsi per sempre a Roma, il corso degli eventi lo costrinse a un nuovo addio. Nelle more della querelle che nell’estate del 1983 riguardò Falcão, promessosi all’Inter e ripreso per i capelli da Andreotti, la Roma, non senza difficoltà, aveva acquistato anche Cerezo. Prohaska fu costretto a salutare: ”C’era posto solo per due di noi per la regola sugli stranieri. Il presidente Viola, addolorato, mi disse che avrebbero dovuto vendermi e così tomai all’Austria Vienna. Quel giorno è stato il più brutto della mia carriera". 


 

 

L’importanza dell’Italia

Altri successi lo aspettavano in patria: campionati, coppe nazionali, trofei individuali (a trentatré anni vinse il suo terzo titolo di calciatore austriaco dell’anno). Anche da allenatore si dedicò all’Austria Vienna e alla Nazionale, guidandola ai mondiali del 1998. Ma senza la sua esperienza con Inter e Roma, Herbert Prohaska sarebbe stato un uomo di calcio meno completo. Forse, nel 2004, non sarebbe stato dichiarato giocatore austriaco del secolo. Sicuramente oggi non verrebbe ricordato come uno dei protagonisti del calcio europeo di quei primi anni Ottanta.

 

 

 

 

 

 

 

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