L’educazione calcistica di Mircea Lucescu

L’educazione calcistica di Mircea Lucescu

A ottant’anni il tecnico guida la nazionale romena verso i mondiali 2026. Una longevità frutto di un’idea del calcio fondata su istruzione e conoscenza, che vanno oltre il gioco
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16 aprile 1983. A Bucarest è in programma Romania-Italia, quarta partita del quinto girone di qualificazione agli Europei del 1984. Gli azzurri sono all’ultima spiaggia: dopo la sbornia di Spagna ’82, non sono più riusciti a vincere nemmeno un match. Hanno rimediato a Roma uno 0-1 contro la Svizzera in un’amichevole celebrativa del titolo mondiale. Successivamente sono arrivati tre pareggi consecutivi: due in casa (contro Cecoslovacchia e Romania) e uno in trasferta a Cipro. Per i ragazzi di Bearzot solo la vittoria può riaccendere le ambizioni di qualificazione alla fase finale dell’Europeo. Ci vuole una squadra affamata per riuscire a battere i padroni di casa. O, più semplicemente, un gruppo che abbia voglia di dimostrare che il suo ciclo non è già finito a nove mesi dalla vittoria più grande mai raggiunta dal nostro calcio. I novanta minuti che si consumano sul terreno dello Stadionul 23 August dimostrano una realtà diversa: i campioni del mondo non ci sono più. I giocatori che avevano regalato una pioggia di felicità mai vista nella storia della Repubblica sono rimasti nella teca del Bernabeu, immortalati in un successo che fa ormai parte del passato.

 

 

 

 

Lucescu e l'Italia

 

Il crudo richiamo a cosa sia il presente lo fanno tredici giovanotti che vivono sotto il giogo dell’Unione Sovietica che portano nomi tipicamente locali: Moraru, Ungureanu, Iorgulescu, Camataru. Per certi versi potrebbero ricordare personaggi estratti da qualche opera di Ionesco, anche perché l’Italia, con la brutta figura che rimedia, sembra che stia giocando una parte nel teatro dell’assurdo. Il gol che segna Boloni nel primo tempo è definitivo per il risultato e amputa le residue speranze degli azzurri. A guidare quella nazionale rumena è un giovane tecnico all’epoca ancora poco conosciuto, Mircea Lucescu. Nonostante un importante passato da calciatore che l’ha portato a vestire 64 volte la maglia della Romania (con la quale ha partecipando, da capitano, al Mondiale del 1970), Lucescu in Italia è sconosciuto al grande pubblico. Dopo quell’affermazione dai contorni storici (la prima in assoluto contro l’Italia), un grande intenditore di calcio come Romeo Anconetani gli mette gli occhi addosso. Il presidente del Pisa di quegli anni è un grande intenditore di calcio: in un’epoca in cui l’analisi dei dati è un concetto nemmeno futuribile, lui ha un archivio incredibile di informazioni su decine e decine di calciatori. Il modo in cui gioca quella squadra che riesce a battere i Campioni del Mondo gli fa capire che chi ne tiene il manico è competente: ci metterà sette anni per convincerlo a venire in Italia. Ne intuisce la diversità e l’originalità in un mondo del pallone che, allora più di oggi, fa fatica a capire che chi sa solo di calcio, di calcio non sa niente.

 

 

 

 

L’importanza dell’istruzione

Cresciuto a Ferentari, sobborgo di Bucarest, Mircea capisce da subito l’importanza dell’istruzione: per lui i calciatori non possono, non devono farne a meno, in quanto presupposto fondamentale per diventare grandi professionisti. Già alla sua prima esperienza in panchina con il Corvinul Hunedoara, fece iscrivere i suoi ragazzi in un istituto scolastico. Nelle esperienze successive, aumentando le disponibilità economiche delle società dove lavorava, portava i giocatori a fare delle visite guidate nelle città dove andavano in trasferta. Quando allenava lo Shakhtar, portò i calciatori a quattrocento metri sotto terra per vedere come si lavora nelle miniere. Anche da selezionatore della nazionale, distribuiva ai convocati delle schede “culturali” da seguire, che potevano raccomandare, ad esempio, di apprendere una lingua straniera. Una sorta di visionario dai metodi affatto convenzionali, guidato, negli anni Ottanta come oggi, dalla convinzione che un allenatore deve innanzitutto saper gestire i calciatori dal punto di vista educativo e comportamentale, presupposto indispensabile per creare un gruppo unito che sappia assorbire gli input tecnico-tattici. Concetti rivoluzionari che con il tempo non sono svaniti, validissimi anche oggi in un’epoca in cui i punti di forza nella guida di una squadra sembrano essere legati alle sole conoscenze degli schemi, della preparazione fisica e dell’analisi dei dati. Elementi di lavoro sui quali, in ogni caso, Lucescu anticipò i tempi proprio quando arrivò a Pisa, quando chiese a un giovane e curioso Adriano Bacconi di studiare gli avversari utilizzando telecamera e videoregistratore che lui gli aveva messo a disposizione.

 

 

 

 

Un visionario pragmatico

Spesso il concetto di visionario fa a pugni con i risultati: quanti allenatori si sono immolati sull’altare di idee troppo avanti per i loro tempi? Lucescu non è caduto in questa trappola. Il suo palmares impressionante (37 i titoli ufficiali conseguiti in carriera, tra cui la Supercoppa Europea 2000 con il Galatasaray e la Coppa Uefa 2009 con lo Shakhtar Donetsk), che lo mette al terzo posto degli allenatori più vincenti di tutti i tempi dopo Alex Ferguson e Pep Guardiola, certifica qualità pragmatiche capaci di tradurre in risultati sul campo quelle che avrebbero potuto rimanere solo teorie astratte. Dalla Romania, guidata fino al 1986, alla Turchia (2017-2019), dai successi raccolti in patria a quelli ottenuti con Galatasaray, Beşiktaş, Shakhtar Donetsk, Dinamo Kiev e Zenit San Pietroburgo, passando per le esperienze in Italia (oltre al Pisa, Mircea ha allenato Brescia, Reggiana e Inter), il suo impatto non è mai stato banale, votato alla ricerca del bel gioco da raggiungere attraverso intelligenza, curiosità, conoscenza e lavoro. Grazie a questi valori, a Lucescu, che aveva annunciato il ritiro nel 2023, nell’estate del 2024 è stato proposto di tornare a guidare la nazionale del suo Paese per ottenere la qualificazione ai mondiali del 2026. Come avrebbe potuto rifiutare? Per gli uomini che dedicano la vita alla realizzazione delle loro idee, andare in pensione non è mai un’opzione.

 

 

 

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