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Cosa gli aveva consegnato in dote, il destino, il giorno in cui aveva spalancato gli occhi al cielo di Montevideo, il 28 luglio del 1928? Innanzitutto un'ombra: quella che arrivava a sfiorare il marciapiede davanti casa sua, che si allungava dalla vecchia sede del Penarol; poi quel cognome italiano, che prima o poi lo avrebbe chiamato a riavvolgere quel filo di appartenenza lungo un oceano di ritorno, dalla cui sponda ligure era partito suo nonno paterno, originario di Camogli, che in Uruguay avrebbe poi aperto una macelleria. Il talento no, non uno come il suo perlomeno: quello non era dovuto al destino; era qualcosa di primordiale, che il destino lo avrebbe indirizzato: perché il talento di Juan Alberto Schiaffino era una predestinazione che, prima di farsi beffe di ogni tentativo di contrasto, se ne sarebbe fregata delle spalle stette, del torace esile e dei settanta chili scarsi.
Con una visione periferica come la sua, non appare inverosimile affermare che la naturalezza con cui sapeva destreggiarsi in mezzo ai più grandi nei campetti attorno al sobborgo di Pocitos, dove la famiglia si era nel frattempo trasferita, era la stessa con la quale avrebbe guidato la Celeste, la Nazionale uruguaiana, a farsi beffe di un finale già scritto e di una finale che tale non era, il 16 luglio del 1950, sotto lo sguardo attonito di un Maracaná che in novanta minuti comprese che il sorriso per una festa sin troppo annunciata può avere la stessa curvatura dello squarcio che lascia una pugnalata.
Regista che "sentiva" nei piedi lo sviluppo dell'azione, al punto tale che dopo averla cucita in un reticolato di passaggi all'occorrenza la rifiniva, con sensibilità da trequartista, diremmo oggi. Quando c'era da battere a rete, sapeva scegliere posizionamento nei pressi dell'area e la traiettoria, preferibilmente col mancino, maligna al punto tale da poter fare a meno della potenza.
«Schiaffino, con le sue giocate magistrali, organizzava il gioco della squadra come se stesse osservando tutto il campo dalla più alta torre dello stadio»: Eduardo Galeano quando scriveva di calcio, anzi quando lo descriveva, non indulgeva in descrizioni immaginifiche; preferiva suggerire al lettore le immagini che quest'ultimo avrebbe poi sviluppato seguendo il tracciato delle parole, così come Schiaffino seguiva il dettato del proprio istinto per andarsi a ricavare sempre, sistematicamente, la migliore posizione per ricevere o per distribuire palla.
Dopo cinque titoli nazionali con il Penarol, nell'estate del 1954 Schiaffino arriva al Milan, preceduto dalla fama che il suo pregio calcistico si è guadagnato in due edizioni consecutive della Coppa del Mondo, prima in Brasile e poi in Svizzera.
Quando lo videro arrivare, si sorpresero per l'esilità della sua struttura fisica. Quando lo videro giocare dal vivo, si stupirono per la semplicità con la quale trovava la massima efficacia possibile in ogni sua giocata, sempre più utile che appariscente; non di rado sontuosa ma mai fine a se stessa.
Sei stagioni in rossonero, con 60 reti distribuite nel corso di 171 presenze; tre scudetti e una scia siderale di applausi distribuita in ogni stadio d'Italia, non di rado alimentata dai tifosi avversari.
Dal '60 al '62 la maglia della Roma, di nuovo in coppia con Ghiggia il primo anno, come con l'Uruguay, come in quel pomeriggio da anno zero al Maracaná. Un arretramento del raggio d'azione e la Coppa delle Fiere messa in bacheca, prima di attraversare l'oceano di nuovo, stavolta con la stessa rotta che aveva percorso suo nonno.
Una grandezza che resta nei numeri degli almanacchi, quella che Juan Alberto Schiaffino, detto Pepe da quando sua madre individuò quelle due sillabe per descrivere la sua vivacità, ha lasciato a futura memoria nella storia del nostro calcio; più delle cifre, delle statistiche e persino dei trofei, però, possono le parole di chi seppe descriverlo con il massimo dell'efficacia possibile, in questo caso anche più e meglio di Galeano: - Non insegue la palla, è la palla che insegue lui -, firmato Gianni Brera.
In America Latina il pallone lo declinano al femminile, bola o pelota che sia; forse perché rende meglio l'idea di divinità pagana, padrona di umori e destini. O, anche, perché ci sono giorni come il 13 novembre 2002, quando Pepe Schiaffino ha salutato il mondo sotto quel medesimo cielo di Montevideo, lasciando quella palla vedova della sua compagnia, orfana delle sue carezze.
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