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Messosi in luce in Argentina a metà anni Settanta, in Europa fece grande il Valencia. Ma il suo capolavoro furono i Mondiali del 1978, dei quali fu protagonista assoluto
Quando all’ultimo minuto dei tempi regolamentari Rob Rensenbrink colpì un palo, l’Argentina trasalì: i settantamila e più spettatori che riempivano lo stadio Monumental di Buenos Aires, i generali che sedevano in tribuna d’onore, pronti a sporcare la possibile vittoria dell’Albiceleste con la loro propaganda, i milioni di loro connazionali che stavano sospirando ogni minuto di quella partita. Persino i prigionieri politici, rinchiusi a poche centinaia di metri dallo stadio dove si stava disputando la finale dei Mondiali di calcio del 1978 tra Argentina e Olanda, seguivano quell’incontro, approfittando di quell’ora e mezza di sospensione dalle vicende del mondo che riesce a essere una partita di calcio, per non pensare al loro destino. Aguzzini e futuri desaparecidos, poveri e ricchi, anziani e ragazzi rimasero col fiato sospeso davanti a quel pallone che l’attaccante olandese stampò sul palo alla destra di Fillol, sgusciante dalla presa dei difensori sudamericani. Avrebbe potuto essere un gol storico, quello che, quattro anni dopo la rivelazione del calcio totale dell’Olanda, avrebbe potuto consacrarne l’essenza con la vittoria della Coppa del Mondo. Fu, al contrario, un palo storico: quello sul quale si infransero nuovamente le speranze degli Oranje e che fornì a Mario Alberto Kempes il lasciapassare per l’eternità calcistica, quella che spetta a chi vince i Mondiali. Abbinandoci, nella fattispecie, il titolo di capocannoniere della competizione.
Kempes portò all’altare l’Argentina come quattro anni più tardi avrebbe fatto Paolo Rossi con l’Italia. Stessa capacità di trascinare la squadra, stesso numero di reti realizzate (sei) e stesso inizio di torneo claudicante. Già, perché le prime partite di quel mundial, come il girone eliminatorio per Pablito in Spagna, a Kempes avevano regalato più dubbi che convinzioni. Lui, il figliol prodigo che, con le caterve di gol realizzati col Valencia - in Spagna era stato il Pichichi delle ultime due stagioni - tornava a casa per spingere l’Albiceleste al titolo, faticava a trovare la via della rete.
Nelle prime partite era toccato ai compagni Luque e Bertoni spingere la squadra alle vittorie contro Ungheria e Francia, quelle che garantirono la qualificazione nonostante la sconfitta subita contro gli azzurri di Bearzot. Mario faceva fatica a rivelarsi, non era l’attaccante esplosivo che tutti sapevano che poteva essere. Forse non era ancora entrato in forma. O, più probabilmente, sentiva la pressione enorme che gravava sulle sue spalle. L’aveva capito El Flaco Menotti che, prima della partita contro la Polonia, durante il trasferimento verso Rosario, osservò il viso preoccupato del suo giocatore più atteso. Notò che quel paio di baffi anomali che gli contornavano il labbro superiore avevano qualcosa di stonato e, tra scaramanzia e gioco mentale, lo guardò negli occhi e gli disse: “Io con questi non ti ho mai visto segnare. Perché non te li tagli?”.
Detto, fatto. E l’Argentina sconfisse la nazionale di un ancora acerbo Zbigniew Boniek 2-0. I gol? Entrambi di Mario Kempes, tornato El Matador che tutti avevano visto già ai tempi del Rosario Central nel biennio che precedette la traversata dell’Atlantico. In quel Mondiale, Kempes realizzò solo doppiette: la seconda la fece nel contestato 6-0 inflitto al troppo accondiscendente Perù. E l’ultima, quella che lo consegnò alla storia del calcio, nella finale contro l’Olanda, che completò alla fine del primo tempo supplementare, dopo che aveva già impresso il suo nome sui tabelloni elettronici del Monumental al 38’ del primo tempo, trascinando il pallone in rete con uno spunto in progressione da centravanti vero. Il gol del 2-1 fu, invece, l’assolo di un numero dieci, quello impresso sulla maglia che indossava in quell’inverno australe, nero come i pantaloncini stretti di quella divisa che scintillava di un tessuto acetato e luminoso. Un doppio dribbling, un tiro inizialmente intercettato dall’uscita di Jongbloed, un rimbalzo favorevole che permise la ribattuta in rete di colui che divenne la stella assoluta di quell’undicesima edizione della Coppa del Mondo.
Due gol che svelarono a un pubblico planetario le caratteristiche di un attaccante atipico quale Kempes era: non una prima punta statica che trovava nell’area di rigore la sua zona di comfort bensì un giocatore istintivamente portato a spaziare su tutto il fronte offensivo, che preferiva partire dalla fascia sinistra o dalle zone centrali della trequarti campo per poi inserirsi nel cuore delle difese avversarie, dialogando con i compagni o concludendo progressioni individuali che un fisico potente ma comunque agile gli consentiva. In quegli anni Settanta in cui i calciatori parevano rockstar che si divertivano a scendere in campo tra un concerto e l’altro, Kempes sembrava avere qualcosa di ulteriore, di diverso. Forse per via di quella chioma più folta delle altre, che gli scendeva sulle spalle e ondeggiava seguendo a ritmo alternato il passo delle sue cavalcate. O per lo sguardo che consegnava ai fotografi, parco di sorrisi, nascosti da un velo di timidezza che gli conferiva un’aura fin troppo seria. Anche quel doppio nome, Mario Alberto, citato dai cronisti nei momenti di maggior enfasi, gli assegnava i contorni di un personaggio letterario di stampo salgariano.
La sera del 25 giugno 1978 fu sua. In quel momento Kempes rappresentava il volto migliore del suo Paese, quello dietro al quale voleva accreditarsi la giunta militare, anche se lui e i suoi compagni non avevano giocato per il loro interesse. Negli spogliatoi El Flaco Menotti era stato chiaro: ”Non giochiamo per le tribune d’onore, per gli ufficiali, giochiamo per la gente”. Quello avevano fatto Mario e gli altri: avevano giocato per la gente. Per regalare quelle emozioni che il calcio magicamente sa creare: felicità da condividere, orgoglio, voglia di abbracciarsi. È per quello che, quando si parla di lui, la prima immagine che si affaccia nella mente di chi è stato contemporaneo delle sue gesta è quella con le braccia alzate al cielo e lo sguardo raggiante nell’esultanza dopo i gol di quella finale, che portò l’Albiceleste al suo primo titolo mondiale. Nonostante una carriera costellata di altri successi, che lo vide protagonista in patria con l’Instituto e il Rosario Central e poi in Europa col Valencia, che portò alla vittoria in Coppa di Spagna (1978-79), Coppa delle Coppe (1979-80) e Supercoppa Uefa (1980). Traguardi massimali per chiunque. Non per Mario Kempes, che in Argentina è stato il Dieci prima di Maradona e Messi.
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