L’eco infinita di Italia-Argentina ’90

L’eco infinita di Italia-Argentina ’90

Era il 3 luglio e il sogno di una nazione si spense: era quello di Vicini e Vialli, di Baggio e Giannini e quello di un Paese che sognava la modernità

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C’è una data, 3 luglio, che per una generazione di italiani non sarà mai un giorno come un altro. È un sussurro nel calendario, un anniversario che non si festeggia, ma si ricorda con un misto di affetto e malinconia. È l’eco neanche troppo lontano di un sogno infranto, il ricordo vivido di un’estate che doveva essere trionfale e che invece si spense in una notte napoletana, lasciando una cicatrice indelebile nel cuore della nazione. Trentacinque anni fa, l’estate delle “Notti Magiche” toccava il suo vertice di speranza e il suo abisso di delusione.

 

 

Mondiali specchio del Paese

“Io non perdo mai. O vinco o imparo" diceva Nelson Mandela in tempi non sospetti. Da quel 3 luglio sicuramente una cosa l’abbiamo imparata: il calcio può essere crudele, forse una delle più ciniche e taglienti metafore della vita che l’uomo abbia mai inventato; l’illusione della perfezione, la caduta improvvisa, la consapevolezza che a volte il talento e l’impegno non bastano. L’aria in quel luglio 1990 era elettrica, intrisa di un’attesa febbrile. Le note di “Un’estate italiana” di Gianna Nannini e Edoardo Bennato non erano una semplice colonna sonora, ma il battito stesso di un popolo intero. Risuonavano dalle autoradio, dai balconi addobbati col tricolore, nelle piazze gremite. Il Mondiale in casa era diventato l'unico, totalizzante argomento di conversazione, un rito collettivo che univa il Paese in una maniera che non si sarebbe più vista. L’ottimismo era una certezza quasi arrogante: cinque vittorie consecutive, zero gol subiti. Gli azzurri di Azeglio Vicini sembravano una macchina perfetta, in rotta spedita verso una finale che tutti sentivano come un diritto, un destino manifesto. Era “il nostro Mondiale”, e niente sembrava poter incrinare quella fede. Eppure, sotto la patina scintillante di quell’entusiasmo, l’Italia era un Paese pieno di crepe. Mentre la nazione sognava, i cantieri del Mondiale raccontavano un’altra storia: scandali, costi triplicati, opere faraoniche come il Delle Alpi di Torino che si sarebbero rivelate cattedrali nel deserto. Una storia di sprechi e di un’occasione mancata per modernizzare davvero le infrastrutture. Una storia che costò anche vite umane, come i cinque operai morti nel crollo di una tettoia allo stadio di Palermo. Ferite nascoste sotto il tappeto di una festa nazionale che, forse, serviva anche a non guardare i problemi che stavano per esplodere: le stragi di mafia, Tangentopoli, la fine della Prima Repubblica. L’Italia del ’90 era una nazione al crepuscolo della sua spensieratezza, e quella semifinale ne sarebbe diventata la metafora perfetta.

 

 

Al San Paolo arriva la notte del destino

Poi, arrivò quella sera. Il 3 luglio 1990, allo Stadio San Paolo di Napoli. Il crogiolo del destino. L’Italia contro l’Argentina di Diego Armando Maradona, l’idolo di una città intera. La sua provocazione ai napoletani – "Vi chiamano terroni per 364 giorni l’anno, e oggi vi chiedono di tifare Italia?" – aveva creato una frattura emotiva nel Paese. E sebbene il San Paolo incoraggiasse gli azzurri, nessuno fischiò il suo D10S. La tensione era insostenibile. La cronaca è un film che tutti conosciamo a memoria. Il gol di Totò Schillaci al 17’, un boato che scuote l’Italia intera, la conferma che il destino è dalla nostra parte. Poi, al 67’, l’impensabile. Un cross innocuo, l’uscita a vuoto di Walter Zenga, fino a quel momento un muro invalicabile, e il colpo di testa di Caniggia. La rete che si gonfia, il record di imbattibilità di 518 minuti che si frantuma, il silenzio che cala sullo stadio.

 

 

Fu quello il momento in cui la certezza si trasformò in paura. I calci di rigore furono un calvario. Baresi, Baggio, De Agostini segnarono. Ma sui volti di Roberto Donadoni e Aldo Serena si lesse tutta la pressione di una nazione. Le gambe pesanti, la lucidità che svanisce, la paura che ti assale. Goycochea, il portiere argentino, divenne il nostro incubo. Parò entrambi i tiri. Maradona, con freddezza glaciale, segnò il suo. Fine. La telecronaca di Bruno Pizzul, con la voce rotta, divenne l’epitaffio di quel sogno: “Sono immagini che non avremmo mai voluto commentare”. Il dopo fu un lutto nazionale. Una delusione percepita come atroce, molto più di altre sconfitte, perché quel Mondiale, nell'aria, era semplicemente da vincere. Le parole di Zenga – “Dopo, ti viene voglia di prendere una pistola e spararti” – e l’insonnia perenne di Riccardo Ferri, che ancora oggi ci pensa, raccontano il dramma personale dietro la tragedia collettiva, “continua a togliermi il sonno” ripete ancora oggi l’ex muro interista.

 

 

Italia-Argentina: amarezza ed eredità

A trentacinque anni di distanza, oggi con la mente siamo lì, a quella notte, ma cosa ci rimane? Italia ‘90 è l’eredità agrodolce di un’estate indimenticabile, la storia di un’occasione persa che ci ha fatto diventare grandi, molto più di una vittoria. E forse è per questo che, ancora oggi, riascoltando quelle note di Bennato e Nannini, sentiamo un brivido. È la nostalgia di ciò che eravamo e di ciò che avremmo potuto essere, in quella magica e maledetta estate italiana.

 

 

 

 

 

 

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