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C’era anche Luciano Spinosi tra i leoni di Wembley del 1973, quelli che per la prima volta nella storia della Nazionale andarono a espugnare la roccaforte inglese: gente come Zoff, Facchetti, Causio, Capello, Rivera, Riva. All’epoca era titolare inamovibile nella difesa della Juventus che strapazzava i concorrenti in Italia e duellava nelle Coppe con le grandi d’Europa. Un terzino che preferiva fare lo stopper e all’occorrenza giocava da libero, capace di ringhiare sull’uomo come di adattarsi, nella seconda parte della carriera, alle esigenze della zona. Con quella vittoria storica a Londra, lui e l’Italia guardavano al mondiale del 1974 con grande fiducia: in realtà, per la Nazionale fu un fallimento mentre per Spinosi rappresentò l’ultima tappa della carriera in azzurro, finita malamente con la sconfitta rimediata a Stoccarda contro la Polonia. Un fatto sorprendente quello di chiudere il rapporto con l’Italia a soli ventiquattro anni e nel pieno di un percorso che sembrava lanciatissimo. Ma a questo non contribuirono solo le scelte di Bernardini, chiamato a ricostruire la squadra dopo quel mondiale affondato dalle polemiche. Ci si mise anche la sfortuna, che per Spinosi prese le sembianze di un infortunio occorso il 3 novembre 1974.
Contro la Sampdoria, a Marassi, erano passati appena otto minuti quando, dopo una caduta scomposta seguita a un contrasto aereo, l’articolazione tra femore e anca fece crack. Quel momento fu uno spartiacque per la carriera di Luciano, perché la ripresa fu lunga, lenta e complicata. E, una volta terminato il percorso riabilitativo, uno scalpitante Gentile si era impossessato della maglia da titolare. In un contesto dove le partite che si giocavano erano molte meno di quelle previste oggi e la panchina veniva occupata da due soli uomini di movimento, per Spinosi le occasioni di vedere il campo diminuirono drasticamente. Il tabellino di quegli anni non lascia adito a dubbi: in campionato, le sue presenze dal 1974-75 al 1977-78, sua ultima stagione con la Juventus, non si avvicinano mai alle dieci, arrivando alle venticinque complessive. Uno spreco per un giocatore che sembrava lanciato nell’empireo del panorama calcistico nazionale e internazionale. Che, invece, si ritrova a guardare dalla panchina i successi che ottengono i bianconeri in quegli anni, tra i quali vale la pena ricordare lo scudetto dei 51 punti e la Coppa Uefa, entrambi raggiunti nel 1977.
Arrivato a ventotto anni, Spinosi capisce che continuare la carriera in quel modo non fa per lui. In Italia la Juventus è il massimo, ma che senso ha rimanerci a quelle condizioni? Dopo l’ennesimo scudetto di quegli anni Settanta – il quinto – Luciano chiede a Boniperti di potersene andare per ricominciare da dove aveva iniziato. Per lui, romano cresciuto nella Tevere Roma e poi passato nelle file dei giallorossi nel 1967-68 (stagione nella quale fece l’esordio in serie A all’ultima giornata in trasferta contro il Torino), le porte della Capitale si riaprono. La Roma che lo accoglie è l’ultima di Gaetano Anzalone, nella quale lui e Roberto Pruzzo sono i fiori all’occhiello di una campagna acquisti che sembra poter proiettare la squadra nelle zone alte della classifica. Spinosi era andato via otto anni prima, quando la Juventus, approfittando delle casse perennemente asciutte del club allora presieduto da Alvaro Marchini, aveva acquistato in blocco i giovani più promettenti come lui, Capello e Landini, sollevando l’ira popolare. Tornare a casa significava saldare un debito di riconoscenza e regalare alla squadra che lo aveva lanciato l’esperienza di successo che aveva maturato a Torino. Con il passaggio della società a Dino Viola, la squadra riesce a scrollarsi di dosso il nomignolo di Rometta. Spinosi, nella stagione in cui i giallorossi iniziano a competere proprio con i bianconeri per lo scudetto, è titolare inamovibile della difesa schierata a zona da Nils Liedholm. Terzino solido, sempre con la testa dentro la partita e dotato di una discreta tecnica di base, in quegli anni si disimpegnò bene sia a destra che nel mezzo della linea a quattro che proteggeva Tancredi. Fece parte di quel gruppo di giocatori che, seppur assenti nel maggio del 1983, contribuì a costruire il substrato dal quale nacque il secondo scudetto della Roma, come ricordò Falcão al raggiungimento di quel traguardo.
Spinosi, infatti, aveva lasciato la Capitale nell’estate del 1982 per cominciare a costruire un’altra grande squadra: il Verona di Osvaldo Bagnoli, appena risalito in serie A. A sapere come sarebbero andate le cose, magari a Roma avrebbe deciso di rimanere, anche se il prezzo da pagare sarebbe stato quello di giocare poco. Con i gialloblù, invece, fece un intero campionato da titolare: trenta partite pulite, senza una squalifica. Un quarto posto da incorniciare, una stagione che attira su di lui l’interesse del Milan, neopromosso nel 1983, che lo chiama per trasmettere esperienza a una squadra giovane. È l’ultimo capitolo in serie A, prima di chiudere la carriera tra i cadetti a Cesena.
A trentacinque anni Spinosi capisce che è arrivato il momento di dire basta e di ricominciare con un altro ruolo, quello di allenatore dei giovani. Torna a Roma, dove svolge un lavoro d’eccellenza vincendo diversi trofei e contribuendo alla formazione, tra gli altri, di un tal Francesco Totti. Fa anche una fugace apparizione sulla panchina della prima squadra nella stagione 1988-89, quando per quattro giornate subentra a Liedholm. Ma più che sotto le luci della ribalta, lo Spinosi allenatore lavora bene dietro le quinte, che si tratti di favorire la crescita di ragazzi promettenti piuttosto che di gestire gli aspetti di dettaglio dell’attività del tecnico della prima squadra. Così, dopo aver abbandonato il settore giovanile e aver provato senza risultati di valore la conduzione di Lecce (1994) e Ternana (1996), trova una nuova dimensione come secondo di Sven Goran Eriksson, sia alla Sampdoria che, successivamente, alla Lazio. L’ultima esperienza a bordo campo risale al 2007 a Livorno, quando fu vice di Fernando Orsi prima di lasciare definitivamente l’attività professionistica.
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