Storia del calcio italiano: dal "riflusso" alla rivoluzione Sacchiana

Storia del calcio italiano: dal "riflusso" alla rivoluzione Sacchiana

Il Profeta di Fusignano fu il primo allenatore a pensare di utilizzare tutte queste innovazioni tattiche degli anni precedenti simultaneamente finendo per creare un cocktail micidiale 
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Come abbiamo visto nel scorso articolo, gli Anni Settanta in Italia sono stati estremamente vitali dal punto di visto delle idee calcistiche, tuttavia dalla fine del decennio si assiste ad una sterzata conservatrice in piena sintonia con la società di allora dove il “riflusso” degli Anni Ottanta mette in soffitta le spinte innovative, ma anche gli odi intestini alla società italiana della decade precedente. Questa tendenza durerà sino alla fine degli Anni Ottanta quando esploderà quella che sarà il secondo grande sconvolgimento nella storia calcistica italiana, ovvero la Rivoluzione Sacchiana. Per capire come si è arrivati a questo sovvertimento radicale che ha investito come un improvviso acquazzone il calcio italiano, dobbiamo rifare un saltino indietro agli Anni Settanta. In questo decennio infatti i tecnici di scuola italianista, sull’influenza delle novità portate dal calcio totale olandese e più in generale dai paesi del Nord Europa, propongono quattro novità:

  • Uno schieramento tattico simmetrico e non asimmetrico.
  • La difesa a zona di reparto invece che la difesa a uomo individuale.
  • Il pressing a centrocampo e la trappola del fuorigioco in difesa.
  • Un atteggiamento più propositivo e meno speculativo con baricentro della squadra più alto.

 

Queste quattro novità però non sono mai state utilizzate contemporaneamente dagli allenatori italiani “innovatori” degli Anni Settanta, alcuni dei quali si sono serviti solo con il contagocce di queste particolari novizie. Sarà uno semisconosciuto tecnico della provincia italiana, Arrigo Sacchi, il primo allenatore italiano (e forse addirittura europeo) a pensare di utilizzare tutte queste innovazioni tattiche simultaneamente finendo per creare un cocktail micidiale capace di mettere in forte crisi le basi stesse del calcio all’italiana.

Prima del Sacchismo, la zona "lenta" e "veloce" degli svedesi

All’inizio degli Anni Ottanta i primi esperimenti di difesa a zona attecchiscono nella Capitale, più precisamente sulla sponda giallorossa del fiume Tevere: alla Roma infatti Nils Liedholm, ritornato sulla panchina giallorossa dopo lo scudetto rossonero nella stagione 1979/80, si trova l’ingrato compito di far coesistere due “liberi” al centro della difesa: Maurizio “Ramon” Turone e capitan Santarini. Nasce così la prima squadra impostata sui crismi della zona pura, dopo l’esperimento effimero di Paulo Amaral alla Juventus nei primi Anni Sessanta. Quella di Liedholm però è una zona assai classica, molto votata alla copertura degli spazi e poco all’aggressione complice anche il gioco a “ragnatela” che aveva bisogno di giocatori tecnici e lenti (Prohaska-Falçao-Ancelotti nell’anno dello storico scudetto del 1982/83) attorno a cui far girare la squadra. Per altro il Barone, tecnico sempre camaleontico, nell’annata tricolore utilizza sì una difesa in linea ma con il rapido Vierchowod marcatore centrale ed il compassato centrocampista Di Bartolomei arretrato nel ruolo di regista difensivo.

 

 

Nell’estate 1984, Liedholm lascia il testimone sulla panchina giallorossa al giovane connazionale Sven-Göran Eriksson (di ben cinque lustri più giovane). Se “Liddas” rappresentava il volto del vecchio calcio svedese, basato su fraseggi corti ed orizzontali ed una grande enfasi sulla tecnica di base, “Svengo” all’opposto era l’incarnazione del nuovo calcio svedese, sorto dopo l’”English Revolution” apportata nel paese scandinavo dai giovani tecnici inglesi Bob Houghton e Roy Hodgson a metà degli Anni Settanta. I due inglesi hanno letteralmente scardinato il classico 4-3-3 piatto ed orizzontale, che fino ad allora era rimasto egemone in Svezia, emendandolo con un più dinamico 4-4-2 che faceva del pressing e della verticalità i propri punti di forza. Stessi concetti che Eriksson aveva adottato con successo nell’implementazione del miracolo Göteborg (vincitore della Coppa Uefa nel 1981/82) e poi sulla panchina giallorossa. Con Eriksson si passa alla “fase due”, ovvero al binomio zona + pressing anche se lo svedese resta un tecnico che dà molta libertà ai suoi giocatori, soprattutto nella fase d’attacco. Il clamoroso epilogo del campionato 1985/86, che vede la Roma di Eriksson crollare proprio all’ultima giornata all’Olimpico contro il già retrocesso Lecce di Eugenio Fascetti (e riparleremo) facendosi superare in vetta alla classifica dalla “solita” Juventus di Trapattoni e dal suo “solito” calcio, sembra quasi spegnere sul nascere ogni tentativo sul nascere di un calcio alternativo a quello all’italiana, ma proprio la stagione successiva i fautori dell’innovazione conosceranno un’affermazione decisiva e quasi inaspettata grazie alle alchimie tattiche vincenti di uno sconosciuto tecnico di provincia, Arrigo Sacchi da Fusignano, un ex rappresentante della ditta paterna di calzature catapultato quasi per caso sulla “Scala” del calcio italiano.

Il calcio Sacchiano

È assai complicato dare una definizione degli assiomi cardinali del “nuovo calcio” pensato da Arrigo Sacchi in quanto una delle caratteristiche principali del giovane tecnico romagnolo è il grande eclettismo, un’arma che per Sacchi sarà la chiave del suo successo ma anche il motivo principale del suo precoce declino. Possiamo definire quello sacchiano un gigantesco “calcio mosaico” che ha cercato di fondere in un unico prodotto elementi provenienti da diverse tradizioni calcistiche. Innanzitutto più che un calcio “totale” quello di Sacchi è un calcio a fortissima vocazione collettivistica, più che nell’Ajax di Michels (da cui ha mutuato l’intensità di gioco e poco altro) il grande modello di Sacchi sono state le idee calcistiche di Ernst Happel e del filone pragmatico del calcio olandese che poi hanno avuto il loro parossismo nel cosiddetto difensivismo fiammingo e nella “zona-catenaccio”, ovvero: schieramento simmetrico, grande organizzazione e rigore tattico collettivo con applicazione scientifica del pressing a centrocampo e della tattica del fuorigioco in difesa. Un altro modello che ha ispirato Sacchi è stato quello del Borussia Mönchengladbach e del calcio renano degli Anni Settanta, soprattutto per due aspetti: i ritmi di gioco alti e la ricerca della verticalità. Un’altra caratteristica del calcio di Sacchi era la fluidità delle posizioni, soprattutto nel settore di centrocampo (mentre in difesa ed in attacco i ruoli erano più tradizionali e definiti) con gli esterni che spesso giocavano per vie interne e gli interni che si inserivano spesso tra gli attaccanti, uno stratagemma che serviva soprattutto per scardinare le rigide marcature uomo contro uomo del calcio italiano. Questa era un canovaccio comune a squadre celebri dell’epoca come la Nazionale Francese del carré magique od il Liverpool fautore del “pass and move”, altri due modelli riconosciuti da Arrigo tra le sue fonti di maggiore ispirazione. Quindi nessun concetto applicato da Sacchi nella Primavera del Cesena o in quella della Fiorentina, al Cesena o al Parma (le sue tappe prima della chiamata del Milan) sono stati davvero originali, tranne due che sono stati l’autentico quid che ha permesso a Sacchi divenire uno dei tecnici più influenti della storia del calcio italiano (e non solo):

  • La stretta interconnessione tra pressing collettivo, arma che Sacchi da difensiva converte in offensiva, e baricentro alto della squadra. Fino a quel momento, infatti, il pressing veniva quasi sempre associato ad un’arma difensiva, ideata per non far giocare l’avversario, con il Profeta di Fusignano questa prospettiva per la prima volta si capovolge.
  • L’atteggiamento della squadra: sia in casa che in trasferta le squadre di Sacchi cercavano di giocare nella metà campo avversaria in un periodo in cui tutte le squadre europee (e quelle italiane fino al parossismo) in trasferta puntavano al pareggio. Anche allenatori “totali” come Valerij Lobanovs'kyj sostenevano infatti l’utilità del pareggio nelle trasferte e l’idea che lontano dalle mura amiche gli allenatori dovessero pianificare una partita per ottenere almeno il fatidico segno X.

Sacchi e i suoi fratelli

Quando nell’estate del 1987 Silvio Berlusconi nomina il quarantunenne ex tecnico del Parma (squadra di Serie B) in molti addetti ai lavori avevano trovato abbastanza singolare la scelta della società rossonera. Fino ad allora infatti i tecnici italiani che hanno cercato di proporre un calcio alternativo a quello tradizionale si contavano quasi sulle dita di una mano sommando A, B e addirittura la C (allora suddivisa in C1 e C2). Al Nord troviamo infatti oltre allo stesso Sacchi, troviamo tecnici come il suo alter ego Gigi Maifredi, autore di un vero e proprio miracolo sportivo prima con l’Ospitaletto e poi con il Bologna (portato dalla B alla A nel 1987/88) grazie al suo “calcio champagne”, definizione dovuta alla vecchia professione di Maifredi, rappresentante vinaio nel bresciano.

 

 

La novità apportata da Maifredi sono principalmente tre: difesa a zona, schieramento simmetrico e pressing in un 4-3-3 molto funzionale che fa leva su continui cambi gioco e ribaltamenti di fronte. Maifredi però per certi versi resta un allenatore fedele alla tradizione italiana in quanto è refrattario a dare dettami troppo rigidi e vincolanti ai suoi giocatori d’attacco. Questa sarà la sua sfortuna in quanto una volta diventato tecnico della prestigiosa Juventus nel 1990/91, Maifredi si dimostrerà incapace di far praticare un calcio di pressione ad una squadra che per struttura era abituata a giocare ancora in contropiede. Facciamo un piccolo passo indietro ai primi Anni Ottanta a Varese, squadra militante in Serie B dove opera un giovane tecnico toscano, Eugenio Fascetti che però dal punto di vista ideologico rappresenta l’esatto opposto del collettivismo sacchiano. Il suo “casino organizzato”, che pure non disdegna armi assolutamente innovative come il pressing ed una preparazione atletica moderna (con la collaborazione del primo preparatore atletico italiano, Enrico Arcelli), infatti esalta come pochi i duelli individuali sia in attacco che in difesa; se Sacchi (e Maifredi) propongono il modello della zona integrale, Fascetti è fautore delle marcature a uomo integrali in ogni zona del campo. Scendendo al centro, a Carrara in C1 nel triennio 1980-83, troviamo Corrado Orrico, personaggio bizzarro e controcorrente, che fa giocare agli apuani un calcio bellissimo tutto pressing e sovrapposizioni: tuttavia la zona di Orrico è solo teorica in quanto con la difesa alta si limitava semplicemente a sfruttare le frequenti sortite fuori alla porta del suo portiere Aliboni, specialista nell’uscita bassa. L’innovazione principale dell’“Omone di Volpara” è soprattutto metodologica: inventa infatti la “gabbia”, un campetto di calcio recintato e coperto (grande circa la metà di un campo a undici) mutuato dai “gabbioni” degli stabilimenti balneari livornesi, in cui far giocare un calcio tecnico, intenso e senza tempi morti. Orrico nella stagione 1991/92 installerà la sua gabbia anche ad Appiano Gentile quando verrà nominato capo allenatore dell’Inter dopo i fasti trapattoniani. A Milano, sponda nerazzurra, Orrico si sbizzarrirà in un’altra sua trovata: il modulo a WM, sul modello del Grande Torino, durato però lo spazio di qualche amichevole precampionato. Anche nel caso di Orrico si può notare, come in Maifredi, una certa difficoltà a far digerire un calcio diverso a campioni abituati a canoni calcistici più tradizionalisti ma anche molte contraddizioni alla base del loro credo calcistico. Così l’avventura di Orrico all’Inter dura solamente il girone d’andata. È tuttavia il Sud forse la parte d’Italia in si pensa con maggiore insistenza un calcio diverso. A Bari, a partire dalla stagione 1981/82, un giovane tecnico parmigiano, Enrico Catuzzi, introduce il primo esemplare di difesa in linea, ideale per esaltare la sua “zona totale” ed una rosa di ragazzini che l’anno successivo (1982/83) sfiora la Serie A. Catuzzi cercherà di riproporre il suo gioco a zona anche a Pescara, con meno successo, perché al termine della stagione 1985/86 i delfini vengono retrocessi in Serie C1. Il successore di Catuzzi Giovanni Galeone, napoletano trapiantato in gioventù a Trieste e poi a Udine, intende ritornare alle marcature a uomo con la quale aveva fatto giocare in precedenza la sua Spal. Il suo capitano, un certo Giampiero Gasperini, però suggerisce al “Gale” di continuare con la zona e nasce una squadra assolutamente fuori da ogni canone calcistico che centrerà una promozione ed una salvezza in Serie A (prima ed unica volta nella storia pescarese) nell’anno calcistico 1987/88. Il 4-3-3 del Pescara galeoniano è particolare: difesa a zona, centrocampo ricco di piedi buoni e privo di incontristi, attacco che fa largo uso delle ali sulle fasce. Un calcio, quello di Galeone, molto diverso da quello del filone sacchiano, più simile per principi a quello sudamericano o jugoslavo (i due grandi modelli calcistici di Galeone) che a quello del Nord Europa. Molto più canonica è invece la “zona sporca” ideata dal professor Franco Scoglio (laureato in pedagogia ed insegnante di educazione fisica) alla guida del Messina dal 1984 al 1988 che si traduce in un 3-5-2 (o 5-3-2) che prevede marcature miste a uomo o a zona a seconda delle situazioni di gioco. Gli elementi innovativi adottati dal professore di Lipari sono invece il pressing e la costante ricerca dello spazio con i giocatori che non dovevano mai restare sulla stessa linea. Il successore di Scoglio a Messina è un certo Zdeněk Zeman, un nipote dell’ex calciatore boemo di Juventus e Palermo negli Anni Quaranta/Cinquanta riparatosi in Sicilia dal suo prestigioso parente dopo la Primavera di Praga del 1968. Zeman, assieme a Sacchi, è stato il personaggio che in assoluto ha saputo imporre un paradigma calcistico assolutamente originale. Ma se i modello sacchiano, come vedremo, si rivelerà tutto sommato addomesticabile e compatibile con i crismi del calcio all’italiana, quello zemaniano resterà per anni e addirittura decenni un vero e proprio unicum che non è stato imitato da nessuno. Zeman, soprattutto sulla panchina del Foggia dal 1989 al 1994, saprà implementare una filosofia di gioco quasi folle, totalmente estranea ai canoni del calcio italiano. L’impalcatura tattica adottata da Zeman è un 4-3-3 rigido ed inderogabile (sotto questo aspetto Zeman è ancora più rigido di Sacchi) in cui sono fondamentali le continue combinazioni tra gruppi di tre giocatori (le cosiddette “terziglie”) ad alta velocità per garantire costanti superiorità numerica sugli avversari. La specialità della casa del boemo sono i continui movimenti a turbine del tridente offensivo con i frequenti tagli dei due esterni offensivi che sono sempre difficilissimi da leggere per le difese avversarie. Il vero tallone d’Achille dell’impianto di Zemanlandia resta una fase difensiva colabrodo in cui la linea a quattro non viene mai supportata a dovere da un centrocampo che è sempre sbilanciato in avanti. Sarà soprattutto la pessima fase difensiva a segnare in un certo senso la carriera ad alti livelli del boemo e a conferire in Italia al tecnico di Praga la nomea di “perdente di successo”. Al contrario di Arrigo Sacchi che invece, ha implementato un modello di successo /seppur effimero) conoscendo un numero straordinario di proseliti ed imitatori.

L'onda lunga del Sacchismo

Resta paradossale il fatto che un tecnico geniale come Sacchi, abbia avuto come epigoni di successo e continuatori delle sue idee soprattutto tecnici provenienti dal polo opposto (quello italianista) che però hanno saputo operare una felice sintesi tra i nuovi dettami sacchiani ed i classici principi del calcio all’italiana. Il caso più celebre riguarda proprio il successore di Sacchi al Milan (dall’estate 1991), ovvero Fabio Capello. Il tecnico di Pieris, quasi al debutto assoluto come capo allenatore in Serie A, ha idee molto diverse da quelle sacchiane: predilige infatti un calcio guardingo ed attendista, ragionato e con pochi fronzoli. L’unico punto di contatto tra i due è il credo zonista (mutuato da Capello nel suo periodo di apprendistato come vice di Liedholm sempre al Milan), Capello così mantiene il 4-4-2 zonale del predecessore ma attenua molto il pressing, l’attuazione della trappola del fuorigioco, abbassando di una decina di metri il baricentro medio dell’undici. Il risultato sul campo parla di quattro scudetti e una Champions League (con il contorno però di due finali perse). Nei primi Anni Novanta il credo sacchiano è talmente pervasivo che intacca quello di molti allenatori tradizionalisti. È il caso di Nevio Scala, che con il suo Parma utilizza un 3-5-2 simile al classico modulo a zona mista ma con una difesa schierata in linea ed uno schieramento di gioco simmetrico in cui i due esterni a tutta fascia (Benarrivo e Di Chiara) arano su e giù le loro corse di pertinenza. Squadra esuberante dal punto di vista atletico, il Parma da provinciale del calcio italiano, sì issa nell’élite del calcio dello stivale togliendosi il lusso di vincere (sotto la gestione Scala) una Coppa delle Coppe (nel 1992/93) ed una Coppa Uefa (nel 1994/95). Altri tecnici, che continuano ad utilizzare le classiche marcature a uomo ed il libero, sposano comunque alcune novità nell’impostazione dell’undici: Emiliano Mondonico al Torino (anche lui epigono del 3-5-2 solo con marcature a uomo in retroguardia), maestro nella lettura delle partite, fa applicare schemi specifici per superare l’avversario oltre che un tono più aggressivo al suo reparto di centrocampo. Grazie a questi accorgimenti nella stagione 1991/92 il Torino in Coppa Uefa elimina il Real Madrid in semifinale e dà del filo da torcere all’Ajax di van Gaal nella doppia finale. Un altro caso molto peculiare di connubio tra sacchismo ed italianismo riguarda la parabola di Marcello Lippi alla Juventus.

 

 

Giunto nell’estate del 1994 a rimpiazzare il gran guru del calcio all’italiana Giovanni Trapattoni, il tecnico di Viareggio vince al suo primo anno bianconero lo scudetto con uno schieramento ad uomo (3-5-2 con Ferrara e Kohler marcatori, Carrera libero) ma poi dall’anno successivo, passa definitivamente alla zona ideando un inedito 4-3-3 con un tridente (puro quanto pesante) Ravanelli-Vialli-Del Piero, questa sarà una delle chiavi di successo della vittoria in Champions League l’anno successivo. La Vecchia Signora lippiana, pur giocando con un baricentro medio abbastanza basso che obbliga i due esterni del tridente a frequenti ripiegamenti difensivi, riesce sempre ad imprimere un pressing molto efficace sui portatori di palla avversari. Inoltre, nelle stagioni successive, intuendo che il suo undici non può più sostenere il tridente, Lippi si dimostrerà tecnico molto camaleontico adottando il 4-4-2 a rombo od il 3-4-1-2 per esaltare la figura del trequartista (Zinedine Zidane).

 

 

Il percorso tattico e strategico di Lippi assomiglia molto a quello di Claudio Ranieri: il tecnico romano riesce a portare il Cagliari in Serie A (con un doppio salto dalla Serie C) nella stagione 1990/91 alternando la marcatura a uomo a quella a zona in difesa (anche all’interno dei novanta minuti di gioco), poi una volta passato alla Fiorentina nel 1993/94 (in Serie B) vira quasi stabilmente sulla difesa a zona con un 4-4-2 prima in linea (nella stagione d’esordio) e poi, dall’anno successivo, sul 4-4-2 a rombo per poter liberare l’estro del numero dieci Rui Costa. La riscoperta dell’uomo tra le linee avversarie, del trequartista, accomuna un po’ tutti i tecnici italiani a metà degli Anni Novanta che cercano una via d’uscita dal “pantano” dell’ortodossia del 4-4-2 sacchiano. Alcuni, come Francesco Guidolin, prima al Ravenna in B a inizio Anni Novanta e poi con molto più successo al Vicenza nel quadriennio 1994-98 (con tanto di semifinale di Coppa delle Coppe raggiunta nel 1997/98), mantengono il 4-4-2 come schema di base allentando molto però il pressing che viene svolto a “nuvola” attorno alla palla e abbassando la linea difensiva (come fatto da Capello al Milan). Nell’ultima stagione il tecnico di Castelfranco Veneto emenda il 4-4-2 però con un 1+1 in fase offensiva con il dinoccolato Lamberto Zauli nel ruolo di trequartista alle spalle dell’unica punta Luiso, un fatto assolutamente inedito in un’epoca in cui il trequartista in Italia viene poco utilizzato.

 

 

Altri allenatori invece cercano di modificare la difesa a quattro, ritenuta poco efficace nell’impostazione del gioco da dietro, proponendo una vera linea a tre (e non di fatto a cinque come fatto da Scala al Parma). È il percorso di Alberto Zaccheroni, romagnolo come Sacchi (di Meldola) e fautore del 4-4-2 zonale (anche se senza applicazione eccessiva del fuorigioco) al Baracca Lugo e al Venezia. Al primo e al secondo anno di Udinese (1995/96 e 1996/97) parte con questo sistema di gioco ma il 13 aprile 1997, nel corso di una partita in trasferta contro la Juventus, la squadra friulana resta in dieci per l’espulsione dopo appena quattro minuti di Genaux. Qualsiasi altro allenatore in una situazione del genere avrebbe tolto un attaccante per un difensore; invece, il Zac resta in campo con un inedito 3-4-2 che stordisce la corazzata di Lippi vincendo con un secco 3-0. La domenica successiva, contro il Parma del giovane Carlo Ancelotti (ancora epigono dogmatico del 4-4-2 del suo maestro Sacchi) l’Udinese si presenta con un sistema di gioco quasi inedito nel calcio italiano, un 3-4-3 con un centrocampo in linea ed un tridente Poggi-Bierhoff-Amoroso dove i due esterni giocano a piede “invertito”. Grazie a questa trovata tattica la stagione successiva l’Udinese centrerà un ottimo terzo posto che frutterà a Zaccheroni la chiamata del Milan.

 

 

A Milano, vistosi impossibilitato a trapiantare il suo credo di gioco, il tecnico romagnolo a metà stagione riesce a trovare un felice compromesso nel 3-4-1-2 con Boban trequartista, mossa che permetterà ai rossoneri di centrare un clamoroso scudetto in rimonta. Il percorso di Zaccheroni ricorda molto da vicino quello di Alberto Malesani, un personaggio che oggi viene ricordato principalmente per le sue pittoresche conferenze stampa, ma che negli Anni Novanta è stato uno dei tecnici più originali del nostro panorama calcistico. Il veronese, un ex rappresentante della Canon artefice assoluto del miracolo Chievo (portato in Serie B nel 1994). Malesani, da convinto sacchiano, parte anche lui con il 4-4-2, utilizzato in tutti i suoi anni veronesi, ma una volta sedutosi sulla panchina della Fiorentina (stagione 1997/98) propone un 3-4-3 ancora più spericolato di quello sperimentato da Zaccheroni a Udine con il numero dieci Rui Costa arretrato addirittura nel duo di centrocampo. L’annata successiva a Parma, Malesani si modera, adottando la formula dell’1 + 2 in attacco con Veron trequartista ed un assetto più equilibrato a centrocampo ed il Parma stravince la Coppa Uefa in quella che per molti anni è stata l’ultima vittoria di una squadra italiana in questa manifestazione. L’ultimo colpo di coda il sacchismo lo regala sempre il Chievo Verona all’inizio degli Anni Duemila con la seconda fase del miracolo della piccola squadra veronese che al termine della stagione 2000/01 centra una storica promozione in Serie A grazie alle idee di un allenatore all’avanguardia come Gigi Delneri che l’anno successivo porta i Mussi ad un incredibile quinto posto in classifica, ottenuto in una Serie A ancora estremamente competitiva. Il baffuto mister di Aquileia adotta gli stessi principi basilari del credo sacchiano: un 4-4-2 molto dinamico con la linea difensiva costantemente alta a cercare il fuorigioco, la differenza sta però nello sviluppo del gioco che Sacchi sviluppava per vie centrali mentre Delneri invece fa ricorso a continui spunti sulle fasce dei due esterni alti Eriberto e Manfredini al servizio delle due punte centrali Corradi e Marazzina. La corsa e la gamba dei due esterni alti era fondamentale nel trasformare il sistema di gioco in un coperto 5-3-2 in fase difensiva con il movimento a scendere dei due giocatori alti di fascia in base alla posizione della palla e dell’attacco avversario, tutto ciò era possibile solamente grazie ad una linea difensiva che giocava costantemente sui trenta metri di campo permettendo ai reparti di stare cortissimi.

Conclusioni finali

Terminata questa lunga “cavalcata” nel corso dell’evoluzione calcistica di due decenni di calcio italiano possiamo tirare delle somme complessive sulla portata delle innovazioni sacchiane. Se la prima grande squadra innovativa nella storia del calcio italiano, il Grande Torino, è davvero finita con Superga perché non ci sono state squadre che hanno cercato di portare avanti le idee innovative dello squadrone di gioco (se non il suo schema base il WM) in quanto non si era formata una classe di dirigenti, allenatori, giocatori (sia italiani che stranieri) capaci di assorbire quei nuovi dettami di gioco, per il Milan sacchiano vale l’esatto opposto. Sacchi è stato un personaggio che ha davvero creato una spaccatura netta nella storia del calcio italiano, un prima ed un dopo, che hanno avuto delle ripercussioni tangibili sull’evoluzione del nostro movimento calcistico. Però le portate innovative del sacchismo sono state quasi subito “anestetizzate” da allenatori di scuola italianista (i Capello, Lippi, Scala, Mondonico, Ranieri ecc.) che probabilmente condividevano pochi assiomi del sacchismo ma che hanno studiato bene Sacchi e hanno saputo mescolare abilmente il vecchio ed il nuovo spesso con risultati più che eccellenti traendo gli aspetti più positivi dalla lezione sacchiana. Allenatori invece di scuola sacchiana (i Zaccheroni, Malesani, Guidolin ecc.) nei primi anni hanno adottato con successo modelli simili a quelli di Sacchi (addirittura evolvendoli) per poi però normalizzarsi ed “italianizzarsi” nelle annate successive. Nel complesso però l’impatto del sacchismo sull’evoluzione del calcio italiano negli Anni Novanta è stato positivo e le numerose vittorie o buoni piazzamenti delle squadre italiane in campo europeo di quegli anni lo testimoniano. Dove il sacchismo invece dato i frutti più deleteri è stato però nell’attività di base e nelle categorie minori dove molto tecnici, poco originali e probabilmente poco competenti, hanno semplicemente adottato le linee basi del collettivismo sacchiano senza pensare alle implicazioni che questo potesse comportare su atleti non formati o non professionisti. Così le diagonali e i movimenti collettivi dei difensori sono diventati più importanti della marcatura e del posizionamento individuale, il pressing ed il podismo messo in primo piano a discapito della tecnica e della tattica di base, la fantasia e la creatività dei talenti offensivi sacrificati sull’altare di movimenti frenetici e schematici. Non è un caso che l’Italia calcistica abbia smesso di produrre talenti puri con i giocatori nati nei primissimi Anni Ottanta (i Pirlo ed i Cassano) e che dopo il fortunoso mondiale vinto nel 2006 da un tecnico italianista e sacchiano allo stesso tempo (Marcello Lippi) la Nazionale italiana non abbia più partecipato ad un ottavo di finale di un mondiale, mancando per ben due volte consecutive alla qualificazione alla fase finale della Coppa del Mondo. Per capire quali saranno gli sviluppi futuri del nostro movimento calcistico dovremmo capire se l’onda lunga del cosiddetto guardiolismo e le ultime innovazioni tattiche (gegenpressing, calcio relazionale) hanno portato dei frutti positivi sulle nostre nuove generazioni.

 

 

 

 

 

 

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