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Toccava a lui scegliere i giocatori che sarebbero diventati protagonisti a Zemanlandia. Con il presidente Casillo e il tecnico boemo realizzò un modello calcistico che sembrava utopia
Si dice Foggia e, per chi segue il calcio da qualche lustro, quasi inevitabilmente l’associazione d’idee con la squadra che nei primi anni Novanta fece stropicciare gli occhi con un gioco che nessuno, nel bene e nel male, era in grado di replicare, arriva immediata. La squadra trasmessa alla storia col nome di Zemanlandia si fondava su due elementi caratterizzanti: il lavoro dell’allenatore e la trasformazione che ne facevano sul campo i giovani ragazzi che vestivano la maglia rossonera. Un vero miracolo italiano (ai tempi l’affermazione era molto in voga nel teatrino della nostra politica…) che vedeva nel tecnico boemo uno dei tre cardini di successo, insieme al proprietario di quel Foggia, Pasquale Casillo, e al direttore sportivo Giuseppe Pavone. Una sorta di trinità nella quale quest’ultimo aveva il ruolo di anello di congiunzione tra l’area tecnica e l’ambizione elevata di una società che non disponeva di risorse illimitate.
Pugliese di Barletta, Pavone aveva costruito le sue conoscenze calcistiche grazie a una buona carriera nella quale aveva calcato i campi di serie A e B. Nella massima serie aveva esordito proprio col Foggia nel 1970. Con i Satanelli disputò cinque stagioni prima di partire alla volta della Milano nerazzurra, squadra che, a metà degli anni Settanta, viveva un momento di transizione generazionale tra vecchia guardia (Facchetti, Bertini, Boninsegna, Mazzola) e giovani emergenti (come Bordon, Oriali, Muraro): è il momento apicale della sua vita da calciatore, perché dopo l’addio all’Inter, avvenuto nell’estate del 1978 dopo la vittoria della Coppa Italia, scende di categoria con il Pescara. Nonostante la promozione conquistata con gli adriatici, Pavone non vedrà più la serie A, trasferendosi prima a Taranto e, successivamente, a Cava dei Tirreni.
Il suo percorso da direttore lo porterà sulla cresta dell’onda con il Foggia di Casillo e di Zeman. Un’avventura, quella di Zemanlandia, che aveva avuto un prologo nella stagione 1986-87 in serie C1 ma che non aveva sortito effetti particolari. Nell’89, con la squadra appena promossa in serie B, il trio si compone saldamente e, nel giro di due anni, arriva nella massima divisione. Ai nastri di partenza del campionato 1991-92, il Foggia è l’osservato speciale. Il boemo, portando all’esasperazione la tattica del fuorigioco e il pressing alto, aveva dominato nella cadetteria. Come avrebbe risposto il suo manipolo di ragazzi terribili alle sollecitazioni delle grandi corazzate della serie A? Il pareggio ottenuto contro l’Inter in trasferta già alla prima giornata (1-1) lanciò un messaggio chiaro: il Foggia aveva le carte in regola per reggere l’impatto. Del resto, i criteri con i quali era stata costruita quella squadra erano solidi. Tutto partiva dalla grande ambizione di Casillo che, pur non avendo le disponibilità di Berlusconi e Agnelli, voleva fare un campionato non da comprimario: «Devo fare una squadra più forte del Milan» diceva spesso ai suoi collaboratori.
Toccava quindi a Pavone, nella miglior tradizione dei direttori sportivi di una volta, andare in giro per i campi spesso polverosi della provincia italiana ad annotare nomi, date di nascita e qualità salienti dei giocatori che potevano fare al caso del Foggia. Ragazzi che, al di là delle caratteristiche fisiche e tecniche, dovevano avere una disponibilità al sacrificio superiore alla media per sottoporsi agli allenamenti forgianti del mister di Praga. Pavone stilava una lista che, avallata da Zeman, veniva sottoposta a Casillo. Un elenco ruolo per ruolo con una prima, una seconda e una terza scelta che, quasi sempre, era quella che veniva acquistata dal presidente perché lo faceva risparmiare. A quel punto toccava all’allenatore boemo, con i suoi noti metodi, tirare fuori il meglio da giovani pronti a sputare sangue per raggiungere il successo. Si, perché si trattava di calciatori provenienti dalle categorie inferiori (anche dall’Interregionale) che, per arrivare al livello dei professionisti che fino all’anno precedente vedevano solo sui giornali, erano preparati a seguire alla lettera i dettami di Zeman, ispirati a principi ampiamente condivisi da Pavone e ancor più da Casillo. La loro applicazione, infatti, permetteva al presidente di guidare una macchina di Formula Uno sostenendo i costi di un’utilitaria. Principi basati su una logica semplice: nel calcio la rivoluzione non la produce la tecnica ma la preparazione. «Gioca la palla chi arriva prima a conquistarsela – spiegava Pavone ai giornalisti - e arriva prima chi si allena di più e meglio degli altri». Estremizzazione? Semplificazione? Forse. Però in quel Foggia funzionava, anche perché il ds sapeva bene che una squadra di calcio, per ottenere risultati, deve avere alle spalle una società che detta la linea e pratica metodologie di lavoro ben veicolate dalla catena di comando.
Quel miracolo sportivo aveva poco di soprannaturale, se non la grande quantità e qualità di lavoro che lo aveva creato. Pavone, in quel contesto, era l’anello di congiunzione ideale tra una proprietà che non poteva sprecare soldi e un allenatore che i giocatori li sapeva trasformare, portandoli al loro rendimento massimale. Rambaudi, Baiano, Signori e Di Biagio sono solo i più noti che in quel Foggia trovarono il trampolino di lancio verso il segmento apicale delle loro carriere.
Come tutte le belle storie, anche Zemanlandia finì. Pavone ha continuato a lavorare in tantissime piazze, soprattutto nel centro-sud, e più di una volta ha ricostituito l’asse con Casillo e Zeman (ad Avellino nel 2003 e ancora a Foggia nel 2010) pur senza riuscire a replicare i successi del quinquennio 1989-94, che rimane un paradigma di come quella che sembra un’utopia può diventare realtà.
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