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Il doppio ex racconta i suoi anni a Roma e il legame con il popolo e la maglia viola
Cinque anni alla Lazio, due alla Fiorentina: Fabio Liverani ha scritto alcune tra le pagine più importanti della storia del club biancoceleste e di quello viola. Anni di ricostruzione, di vittorie, accompagnati da escalation e repentine discese: dove ha saputo sconfiggere lo scetticismo, le difficoltà extra calcistiche e ha trovato la sua definitiva consacrazione. «Sono arrivato alla Lazio in un momento complicato, con i tifosi che avevano negli occhi i grandi campioni che avevano vinto scudetti e coppe: ero accompagnato dallo scetticismo e dalle voci che non mi hanno certo aiutato. Ma sono riuscito a lasciare il segno e sono andato via da capitano, vincendo una coppa e giocando la Champions League».
Quando arriva nella Capitale, Fabio Liverani deve sconfiggere i fantasmi del passato (solo due anni prima nel suo ruolo c’era un certo Juan Sebastian Veron) e un ambiente che lo guarda con scetticismo. «Sono arrivato dal Perugia, da una squadra che lottava per non retrocedere e mi sono ritrovato a giocare in Champions League. Era una Lazio che aveva vinto da poco lo scudetto, formata da giocatori super. La mia più grande soddisfazione è stata quella di riuscire a lasciare il segno e di dimostrare di poter far parte di quel gruppo. Quei cinque anni hanno caratterizzato tutta la mia carriera».
L’inizio fu complicato.
«La prima stagione fu difficile. Arrivai dopo lo scudetto della Roma, la squadra era in difficoltà, nonostante ci fossero in rosa giocatori fortissimi. Ci mancava la continuità: in casa eravamo un rullo compressore, ma in trasferta non riuscivamo a trovare i risultati. Fortunatamente siamo riusciti ad ottenere la qualificazione in Coppa Uefa grazie al successo sull’Inter del 5 maggio».
Con Mancini arriva la svolta.
«L’inizio per me non fu fortunato. Dopo il precampionato, dove giocai sempre al fianco di Stankovic, mi sono fatto male al polpaccio e ho saltato un mese e mezzo. Quando rientrai non fu facile, ma alla fine mi sono ritagliato il mio spazio. La squadra volava: il primo anno tornammo in Champions League e raggiungemmo la semifinale di Coppa Uefa. Il secondo anno chiudemmo con la vittoria della Coppa Italia. Il mio primo trofeo. I due anni con Mancini sono stati straordinari, nonostante le mille difficoltà».
Stipendi non pagati, rischio fallimento sempre dietro l’angolo, cambi al vertice della società. Eppure la squadra in campo ha fatto benissimo. Qual è stato il segreto?
«Il gruppo. Quante volte avete sentito parlare della Banda Mancini? Fu un gruppo straordinario, formato da persone che andavano d’accordo in campo e fuori. Si è creata un’unione unica, che poi in campo ha dato i risultati che tutti abbiamo visto».
L’estate del 2004 però, cambia tutto: il gruppo si sgretola. Mancini e molti big vanno via, a Roma arriva Lotito e la Lazio cambia faccia. Fabio Liverani resta...
«Ero arrivato tra mille problemi, ma ogni anno che passava mi sentivo sempre più dentro al mondo Lazio: nella quotidianità, nel rapporto interno ed esterno. Dopo tre anni mi sentivo parte di questo mondo e non avevo voglia di lasciarlo. Nonostante tutto quello che stava succedendo intorno: gente che andava via, gente alla quale era scaduto il contratto. Ricordo che Lotito comprò nove giocatori l’ultimo giorno di mercato, perché la squadra era tutta da completare. Non ho mai rimpianto quella scelta, anche se c’è stato un giorno particolarmente duro...».
Quale?
«Quando giocammo la Supercoppa italiana a Milano con il Milan. Pochi mesi prima andammo a vincere la Coppa Italia in casa della Juventus e a distanza di poche settimane ci siamo ritrovati in condizioni completamente diverse. Ricordo che ci guardammo in faccia io, Peruzzi, Oddo, Giannichedda e Cesar e sembrava che ci chiedessimo dove fossimo finiti. Quel Milan-Lazio sembrava la sfida tra una squadra di grandi e una di bambini. Ma poi con serietà e voglia, ci siamo ricuciti un ruolo: il piccolo gruppo di un nuovo corso. Noi vecchi, con tanta fatica, abbiamo fatto ripartire un progetto. Eravamo alla Lazio, in una piazza storica. Non poteva finire così. E credo che siamo riusciti a dare il nostro contributo».
Quell’anno ci fu il derby del 6 gennaio: per tutti il derby di Paolo Di Canio. Ma quella è stata anche, se non soprattutto, la stracittadina di Fabio Liverani...
«Da un punto di vista sentimentale e romantico, è normale che venga ricordato come il derby di Paolo. Un destino che sembrava scritto dall’alto. Ma per qualità tecniche e di visione di gioco, i due assist che ho realizzato, per Paolo e Tommaso Rocchi, sono qualcosa di incredibile. Che mi porterò sempre dentro».
La ripartenza è arrivata con Delio Rossi in panchina?
«Con mister Rossi ho avuto un ottimo rapporto: molto diretto. Come piace a me e come piace a lui. Lui sapeva che avevo una situazione contrattuale particolare, ma non ha influito né sulle sue scelte, né sul mio modo di giocare. Per rispetto della Lazio, dei suoi tifosi, dell’ambiente e di quello che avevo costruito, ho dato tutto fino all’ultimo giorno, pur sapendo che la mia avventura stava per concludersi. E il mister è stato fondamentale. Abbiamo cominciato a ricostruire una squadra che poteva lottare per obiettivi importanti».
Lascia la Lazio l’estate del 2006...
«... per andare alla Fiorentina. Quando sei romano, giochi cinque anni nella tua città, oltre all’aspetto tecnico c’è un impatto ambientale molto forte. Non è facile gestire tutto. Dopo cinque anni ho deciso di cambiare aria e l’ho fatto scegliendo un club che doveva fare la Champions League. Poi ci fu Calciopoli, che cambiò tutto».
Anche a Firenze un inizio tra mille difficoltà, prima di chiudere con risultati top.
«È il mio destino: in pratica ho rivissuto la stessa situazione che avevo visto alla Lazio. Considera che iniziammo la stagione con 19 punti di penalizzazione. Alla Fiorentina c’erano tanti giovani, ma anche giocatori affermati: Luca Toni, Mutu, Jorgensen. Ho avuto la fortuna di avere un gruppo eccezionale, con una società forte e presente. Cominciammo il campionato, a - 19, con tre sconfitte e una vittoria nelle prime quattro gare. Alla quinta partita eravamo a -16 e giocammo con il Catania: fu la partita spartiacque. Vincemmo 3-0 e da lì iniziò un cammino eccezionale, che si chiuse con la qualificazione in Coppa Uefa. Chiudemmo a 58 punti. Se a quella cifra aggiungi i 15 che ci hanno tolto, perché poi con il ricorso ci restituirono 4 punti, avremmo chiuso al terzo posto e quindi in Champions League».
Quell’anno arrivò per Fabio Liverani anche il ritorno in Nazionale.
«Fui convocato per la sfida con la Croazia: ricordo che di fronte avevo un giovane che mi impressionò: Luka Modric».
Che impressione le hanno fatto Lazio e Fiorentina?
«Hanno cambiato tanto rispetto allo scorso campionato. Ma la Lazio mi dà la sensazione di aver iniziato un percorso e costruito una squadra su misura per il suo tecnico. Sono convinto che sia la strada giusta. Quando una società sceglie un allenatore e lo segue, per quelle che sono le sue idee, ha un piccolo vantaggio. Per me la Lazio si sposa con le idee dell’allenatore ed è sulla strada giusta. La Fiorentina, cambiando da Italiano a Palladino, ha bisogno di un po’ più di tempo».
Le piace Baroni?
«Tanto. È un tecnico che è cresciuto tanto e ha meritato sul campo, centrando sempre i suoi obiettivi. È un tecnico solido e la squadra già sta esprimendo un buon calcio. È chiaro che i conti si faranno alla fine. Ma non è giusto dare sentenze dopo quattro partite».
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