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Prima di diventare un pluridecorato allenatore, l’attuale tecnico del Real Madrid è stato un grande calciatore che ha saputo battere la sfortuna
Parlare oggi di Carlo Ancelotti fa immediatamente pensare a un uomo con i capelli bianchi in giacca e cravatta, col gilet d’inverno, che in piedi davanti a una panchina impartisce direttive a calciatori dei quali ha almeno il doppio dell’età. Viene in mente un allenatore, anzi: l’Allenatore. Quello che si perde a contare gli innumerevoli trofei che ha conquistato, che con l’esperienza ha imparato a modificare il suo pensiero passando dall’integralismo tattico di derivazione sacchiana alle formule galeniche necessarie a ottimizzare il rendimento dei campionissimi del Real Madrid. Un personaggio entrato per forza d’abitudine nell’immaginario collettivo, con quel sopracciglio alzato che periodicamente si analizza per provare a interpretare i pensieri che le sue dichiarazioni lasciano solo trapelare.?
Dietro quell’immagine, solo la memoria di chi non è più ragazzo riesce a scorgere la figura di un ex calciatore, che dalle vicende vissute sul campo ha mutuato la saggezza che guida oggi le sue scelte. Una storia, la sua, fatta di discese e risalite, vittorie e sconfitte, forza fisica e terribili infortuni. Una vita di campo che ne ha levigato il carattere, rendendo più limpida la sua visione delle cose. Già, il campo: un concetto che per Ancelotti è stato fondamentale sin dalle origini, visto che quello che sarà uno dei migliori giocatori degli anni Ottanta crebbe in una famiglia contadina dell’Emilia, nella quale il rapporto con i campi era un precettore quotidiano di misura e resilienza, forza e pazienza, capacità di osservare e di attendere. Doti che Carlo dimostrò di avere sin quando, ancora ventenne, fece il salto dalla provincia alla grande città, dalla serie C al massimo campionato. Fu la Roma a volerlo più degli altri nell’estate del 1979, periodo in cui il suo nome girava con una certa frequenza sui giornali come uno di quelli che sarebbero stati protagonisti del calciomercato. A Parma giocava dietro le punte. Liedholm lo trasforma in un mediano di quantità e qualità, in grado di sfruttare la sua forza nei contrasti e la pulizia del tocco. Con i giallorossi è amore a prima vista: nelle prime due stagioni vince due Coppe Italia, sfiora lo scudetto ed entra nel giro della Nazionale di Enzo Bearzot, privilegio che all’epoca veniva concesso solo a chi a calcio sapeva giocare davvero. A ventidue anni il mondo sembra ai suoi piedi.?
Il destino, però, talvolta non procede in linea retta e impone deviazioni repentine. Il 25 ottobre 1981, in uno scontro di gioco con il fiorentino Casagrande, il ginocchio di Ancelotti cede. Sono impressionanti le immagini che manda in onda la Domenica Sportiva, accompagnate da un urlo che lacera la tranquillità delle ultime ore di svago degli italiani prima che il giorno seguente si torni al lavoro. All’epoca gli interventi ai legamenti non sono operazioni di routine come oggi e i rischi di non rientrare in piena efficienza piuttosto ampi. Ancelotti va sotto i ferri e riprende con fiducia esercizi e frequentazione del campo. Ma dopo tre mesi, durante un allenamento, il crociato cede definitivamente. Questa volta i timori per la carriera sono ancora più fondati e i tempi di recupero maggiori. Il giovane centrocampista deve rinunciare al sogno azzurro, quello che lo avrebbe incoronato campione del mondo in Spagna. Cadere e rialzarsi: una sequenza che i calciatori praticano decine di volte nel corso di una partita. Forse è a questo che pensa Ancelotti nel corso dei lunghi mesi necessari alla riabilitazione. Che si completa nell’autunno del 1982, quando il ragazzo riprende il suo posto in squadra per partecipare alla storica cavalcata che porta la Roma a vincere il suo secondo scudetto, il primo del dopo guerra. Carlo viene additato a modello di sacrificio e di successo. In un’epoca in cui quel tipo di infortunio costringe molti giocatori alla resa definitiva, il suo è un caso che fa scuola e apre le porte della speranza ai colleghi che inciampano in quella disdetta.
Quando tutto sembra ormai alle spalle, una nuova sciagura si abbatte sulla carriera di Ancelotti, nel frattempo tornato a indossare la maglia della Nazionale. Il 4 dicembre 1983, nel corso di un big match contro la Juventus, il centrocampista viene tradito nuovamente dai legamenti, questa volta quelli del ginocchio sinistro. A due anni dal precedente infortunio, è una stoccata durissima da parare. Anche questa volta, Ancelotti non ha scelta: cadere e rialzarsi è l’unica sequenza percorribile per riprendere il suo lavoro. E quando, dopo undici mesi di attesa, rientra finalmente tra i titolari, un nuovo miracolo si è compiuto: Carletto è risorto dalle sue giornate lente, dalle ore tormentate dai dubbi, dal silenzio delle sedute di fisioterapia. È ancora lì nel mezzo a rubare palloni agli avversari, a superarli in dribbling, a tirare cannonate da fuori area. Il suo ritorno è frutto del lavoro maturato nel tempo, una gioia che ha saputo aspettare. Un risultato che riuscirà a ripetere tre anni più tardi, quando sarà la sua Roma a considerarlo finito e a lasciarlo partire per Milano, sponda rossonera, dove sarà protagonista per altri cinque anni prima di iniziare una nuova vita in panchina. ?
Carletto comincia in Nazionale come discepolo di Arrigo Sacchi, dove consolida le conoscenze degli schemi e dei principi di gioco del tecnico romagnolo, prima di assumere in prima persona il ruolo di allenatore di club. Si mette in evidenza a Reggio Emilia e consolida la sua figura a Parma, prima di essere chiamato dalla Juventus per sostituire Marcello Lippi nel 1999. A Torino raccoglie due secondi posti che irritano la piazza bianconera, che gli cuce addosso l’immagine del perdente. Un’etichetta pericolosa in un mondo come quello del calcio, nel quale spesso i pregiudizi contano troppo. Quando, nel novembre 2001, Berlusconi lo porta al Milan per sostituire Terim, è difficile immaginare quello che sarà il suo percorso rossonero: uno scudetto e le Coppe internazionali più prestigiose lo spingono nell’empireo dei vincenti, ribaltando le considerazioni che si facevano sul suo conto dopo il periodo torinese. Lasciata Milano, Ancelotti comincia un giro per l’Europa che lo porta a gestire i migliori club del Vecchio Continente: Chelsea, Paris Saint-Germain, Real Madrid e Bayern Monaco rafforzano la sua fama e arricchiscono il suo curriculum. Quando, nel 2018, De Laurentiis lo ingaggia, per il Napoli sembra finalmente arrivato il momento di vincere il campionato. Gli eventi, però, prendono una piega diversa: Ancelotti non riesce a imporsi e il Napoli lo esonera nel dicembre 2019, pochi giorni prima che il tecnico venga assunto dall’Everton. Anche a Liverpool le cose non vanno per il meglio e, dopo due stagioni senza successi, il rapporto si interrompe. Nuove voci cominciano a girare sul suo conto: si dice che Carletto sia ormai “bollito”. Non è il parere che ha di lui Florentino Perez, imprenditore incardinato sulla poltrona presidenziale del Real Madrid, che tra il progetto Superlega e quello di ammodernamento del Santiago Bernabeu gli chiede di tornare alla Casa Blanca, dove Ancelotti ritrova i risultati che per qualche tempo gli erano mancati. A dimostrazione, ove ce ne fosse stato ancora bisogno, delle qualità di un professionista che, dal campo alla panchina, ha sempre beffato coloro che, nei momenti di difficoltà, si sono divertiti ad applicargli le etichette più insensate.
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