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Dalla metà degli anni Venti in Italia cominciano a delinearsi le prime scuole tattiche: uno sviluppo e una crescita costante che porterà a due trionfi mondiali e una delle squadre più forti di sempre
Dagli albori pionieristici di fine Ottocento, fino alla metà degli Anni Venti, l’Italia calcistica non è stata mai contraddistinta da tattiche di gioco organiche. Con la modifica della regola del fuorigioco nel 1925 (il passaggio dall’off-side “a tre” a quello “a due”), si diffonde nel nostro calcio una tattica di gioco che viene chiamata Metodo all’italiana e che ricalca grossomodo il classico schema del 2-3-5, ideato dagli Anni Ottanta dell’Ottocento, ed egemone soprattutto nei paesi calcistici mitteleuropei, dove prevale un calcio estremamente tecnico e ricercato che fa del fraseggio e della polivalenza dei ruoli i suoi capisaldi.
Davanti al portiere operano due terzini centrali (così chiamati perché compongono la cosiddetta terza linea, cioè quella di difesa), che presidiano l’area di rigore: uno (solitamente il destro) gioca in seconda battuta tenendo la posizione mentre l’altro (usualmente il sinistro) affronta per primo il portatore di palla avversario. Davanti ai due terzini abbiamo la seconda linea, quella di “sostegno”, con due mediani laterali che agiscono vicino alle fasce ed il centromediano fisso al centro del campo, quest’ultimo era il giocatore più importante, perché doveva agire sia da schermo difensivo, che da propulsore per l’attacco. Va aggiunto che i due terzini ed i tre mediani formano una prima W difensiva. Se i laterali erano spesso giocatori di pura corsa e dinamismo, i classici gregari insomma, il centromediano metodista doveva essere un giocatore completo nei fondamentali di gioco. Infine, all’attacco, nella cosiddetta prima linea, troviamo i rimanenti cinque giocatori di movimento, che formano una seconda W: davanti abbiamo un tridente, composto da un centravanti classico e da due ali, quella destra più votata al gioco in ampiezza e quella sinistra, che già inizia ad assomigliare ad una seconda punta aggiunta. Infine, dietro ai tre terminali offensivi agiscono le due mezzali, che hanno il compito di finalizzare il gioco come attaccanti veri, ma anche di aiutare il centromediano nei compiti difensivi. Per questo motivo i compiti dei due interni sono spesso differenziati: uno (di solito quello destro) aveva più nelle sue corde la fase offensiva, agendo da mezzapunta/rifinitore, mentre l’altro (quello di sinistra) aveva più compiti di raccordo con il centrocampo, fungendo da equilibratore della squadra. In definitiva questo era uno scacchiere di gioco ideato appositamente per specialisti del ruolo e che rifuggiva da qualsiasi considerazione di carattere collettivista. Nel calcio inglese invece, a partire dal 1925, si inizia a diffondere un’altra tattica di gioco, il WM (Sistema in italiano) che pone l’enfasi sulla condizione fisica e sulla disciplina collettiva. In questa nuova tattica di gioco, ideata per contrastare al meglio la nuova regola del fuorigioco, la disposizione difensiva viene mantenuta a W come nel Metodo con interni arretrati e tre attaccanti di punta. Tuttavia viene stravolta completamente la composizione della difesa con i terzini che vengono allargati sulle fasce, il centromediano abbassato a perno centrale della retroguardia (e per questo definito stopper ovvero tappo della difesa), infine i due mediani vengono accentrati e assieme ai due interni formano un quadrilatero di centrocampo.
In un’epoca in cui le scuole calcistiche erano solamente tre (la britannica, la danubiana e la sudamericana), il calcio italiano aveva saputo elaborare una felice sintesi tra questi tre indirizzi calcistici anche se, come precisò Nereo Rocco in una famosa intervista a Gianni Brera “dagli inglesi abbiamo preso molto poco”. Secondo Gabriel Hanot, decano del calcio francese, quella italiana non può essere considerata ancora una scuola calcistica, perché il suo calcio “vive di solo contropiede”, nonostante la Nazionale di Vittorio Pozzo abbia vinto già due mondiali (nel 1934 e nel 1938) ed un’Olimpiade nel 1936, con una formazione più giovane. Però, è proprio sul finire degli Anni Trenta che il calcio italiano, improvvisamente, sente il bisogno di cambiare.
Il 13 maggio 1939 allo Stadio San Siro di Milano l’Italia di Vittorio Pozzo, campione del mondo in carica, pareggia in amichevole per 2-2 contro l’Inghilterra grazie ad un famoso gol di Piola, segnato, a quanto pare, di mano. Questa sfida, tra Metodo italiano e Sistema britannico, viene vinta “ai punti” dai Maestri inglesi che destano favorevoli impressioni al pubblico di fede italiana: la Nazionale che ha giocato male infatti ed è stata salvata solo dalle sue tante individualità mentre gli inglesi hanno sfoggiato un gioco superiore dal punto di vista collettivo e maggiore disciplina tattica che li ha portati a dominare lunghi tratti della contesa. Più di qualcuno allora incomincia a pensare che il calcio italiano debba cambiare: con il WM, infatti, gli inglesi hanno dimostrato che bel gioco e disciplina di squadra possono coesistere, con il quadrilatero di centrocampo sistemista (formato dai due mediani e dai due interni) che erano sempre in superiorità numerica sul tipico centrocampo a tre del metodo (composto dal centromediano e dalle due mezzali).
In Serie A c’è una sola squadra che ha iniziato a giocare con il Sistema, il Genoa dell’allenatore inglese William Garbutt, che per altro ha una difesa colabrodo, perché con il modulo reso famoso dall’Arsenal di Herbert Chapman si gioca rigorosamente uomo contro uomo con pochissima copertura nella zona centrale del campo, punto forte delle retroguardie metodiste. Fulvio Bernardini, talentuoso centromediano della Roma, che Pozzo non “vedeva” nel suo undici azzurro perché reputato “troppo bravo”, vede dal vivo la “lezione” dei Maestri inglesi a San Siro e nell’estate del 1939, una volta diventato allenatore giocatore della M.A.T.E.R. Roma in Serie C, decide di schierare il suo undici con il WM. È solo l’inizio di un’autentica rivoluzione copernicana che nel giro di dieci anni interesserà tutto il calcio italiano, grazie soprattutto all’apporto di una squadra destinata a rimanere nella leggenda del calcio italiano: il Grande Torino.
L’estate del 1939 è importante anche perché alla presidenza del Torino giunge Ferruccio Novo, industriale torinese che ha l’ambizione di trasformare il sodalizio granata sul modello dei club inglesi, reputati allora all’avanguardia del calcio europeo. Ciò implicava sul piano societario l’adozione del modello manageriale e su quello dell’organizzazione tattica l’assunzione del WM. In realtà il passaggio al modulo inglese non è immediato, ma avviene appena a metà della stagione 1941-42 su un suggerimento dell’attaccante Felice Placido Borel (già protagonista nella Juventus del Quinquennio) al proprio allenatore ungherese András Kuttik. In quell’annata il Sistema veniva adoperato solamente da quattro squadre italiane: la Fiorentina, il Genoa, i cugini della Juventus e il Venezia, la grande sorpresa della stagione, che si avvaleva di due mezzali tuttocampiste come Loik e Mazzola, che dalla stagione successiva faranno le fortune proprio dello squadrone granata. Il Torino, quindi, decide di adottare una tattica di gioco d’oltremanica, ma chi inizia ad implementarla (Kuttik, verrà poi esonerato all’inizio della stagione successiva) e chi lo perfezionerà durante il proprio apogeo (Ern? Egri-Erbstein, Direttore Tecnico a partire dall’estate 1946) sono tutti tecnici ungheresi che appartengono ad un’altra scuola calcistica, quella danubiana, che faceva della tecnica e del gioco organico i propri punti di forza.
Il Grande Torino, infatti, che vince il suo primo scudetto nel 1942-43 e che dal 1945 al 1949 fa letteralmente il vuoto nel calcio italiano con quattro campionati vinti di fila prima del tragico schianto sul colle di Superga, può già essere considerata una squadra da “calcio totale”. I granata infatti sono una compagine che gioca un calcio estremamente arioso e proattivo, che inoltre sfoggia calciatori polivalenti ed universali. I due terzini, Ballarin e Maroso, supportano spesso l’azione offensiva come veri fluidificanti, il quadrilatero di centrocampo (autentico punto di forza della squadra granata) è composto da due mediani (Grezar e Castigliano) che erano nati calcisticamente come mezzali offensive, mentre Loik e Mazzola sono due interni universali capaci di giocare ovunque. Infine, fra i tre attaccanti, il centravanti Gabetto agisce spesso come uomo di manovra (quasi anticipando la lezione di Hidegkuti), con l’ala destra Menti che gioca più dentro al campo e quella sinistra Ossola che invece agisce più da punta. Ricapitolando, il Grande Torino riesce ad apportare al calcio italiano le seguenti innovazioni calcistiche:
Il 4 maggio 1949, dopo la tragedia di Superga, il Grande Torino entra definitivamente nel mito dello sport italiano. L’impatto dello squadrone granata sull’evoluzione del calcio italiano è stato importante anche se, (ed è un discorso che vale per altre squadre epocali nella storia del calcio), i posteri tenderanno a mutuare dai granata solamente gli aspetti di facciata, più accessibili e facili da copiare e non i capisaldi più rivoluzionari. Dalla stagione 1949-50, ormai tutte le venti squadre della nostra Serie A hanno ormai adottato il Sistema (erano solo quattro nemmeno un decennio prima, all’inizio del ciclo granata), ma nessuna squadra italiana ha saputo replicare il gioco e la filosofia del Torino preferendo la classica formula dei gregari italiani in difesa e dei campioni stranieri (spesso scandinavi o sudamericani) in attacco. Inoltre, già nei primissimi anni del dopoguerra, alcuni tecnici di provincia (Gipo Viani alla Salernitana, Nereo Rocco alla Triestina) rimasti fedeli al Metodo, stavano già sperimentando le prime forme del cosiddetto Mezzo Sistema, ovvero il primo nucleo di quello che dagli Anni Sessanta sarà conosciuto come Catenaccio, un sistema di gioco che pone grandissima enfasi sulla fase difensiva e sulla rigida ripartizione dei ruoli e delle funzioni sia in difesa (dove compare il cosiddetto libero) che in attacco.
Quindi negli Anni Cinquanta le innovazioni riguardano quasi esclusivamente la fase difensiva e non quella offensiva e porteranno nel giro di un decennio alla definizione dei canoni del calcio all’italiana. Le innovazioni offensiviste sono assai rare ed estemporanee: per esempio Annibale Frossi, alla guida del Simmenthal Monza in Serie B, utilizza l’attacco ad M con il centravanti arretrato sul modello della Grande Ungheria. Un tecnico, Frossi, che per altro godeva della fama di acceso difensivista e che apparteneva alla schiera dei “tatticisti”, sostenuti in pompa magna dalla Gazzetta dello Sport con l’arguta penna di Gianni Brera in testa (poi passato al Giorno), forse il più grande critico del WM inglese. Brera, allo stesso tempo era un convinto sostenitore del difensivismo e del Catenaccio come sistema di gioco erede del vecchio Metodo. La stampa del Sud invece, con la scuola napoletana di Gino Palumbo ed Antonio Ghirelli in testa, sosteneva il “bel giuoco”, era favorevole all’impostazione sistemista ed era contraria a qualsiasi utilizzo di armi tattiche nelle partite di calcio. Curioso come un tecnico epigono di questa scuola, Fulvio Bernardini, conquisti uno storico scudetto con la Fiorentina nel 1955-56 utilizzando tutta una serie di accorgimenti tattici (la finta ala, il doppio centrale difensivo) destinati ad anticipare alcuni canovacci del gioco all’italiana. Infine, va evidenziata la posizione “democristiana” assunta sia da “La Stampa”, con il grande vecchio Vittorio Pozzo in testa o dal bolognese Stadio del toscano Aldo Bardelli.
Sia Pozzo che Bardelli, pur rimpiangendo il vecchio Metodo, si dichiarano favorevoli al Sistema, non disdegnano la tattica, ma si dichiarano assolutamente contrari al Catenaccio, al gioco difensivo e all’impiego del libero. Ricapitolando, la grande confusione delle idee ed orientamenti calcistici nell’Italia calcistica degli Anni Cinquanta ha scoraggiato qualsiasi tipo di innovazione, sulla lezione impartita del Grande Torino, consentendo al calcio italiano, a partire dagli Anni Sessanta, di svoltare definitivamente verso una concezione del gioco più difensiva ed utilitarista.
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