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L'allenatore serbo ha portato cinque nazionali diverse ai mondiali, raggiungendo al massimo i quarti di finale con il Messico nel 1986. Per lui anche un'esperienza poco fortunata all'Udinese
Tutto in Bora Milutinovic è esotico. Il personaggio si presta molto, del resto, non lo si è mai visto arrabbiato, almeno pubblicamente; per lui il calcio è sempre stato mettersi in gioco, divertimento, una sorta di ambasciatore mondiale del pallone.
Del resto è stato il primo ad andare ai mondiali con cinque nazionali diverse, poi l'ha raggiunto Carlos Alberto Parreira, "facilitato" però dall'aver diretto anche il suo Brasile. Bora no, per lui sempre squadre non di primo piano o addirittura mediocri, come la Cina nel 2002. Un grande ambasciatore del calcio, comunque, invecchiato benissimo e di cui non si può che parlare bene.
Nato nel 1944 in una località che oggi è in Serbia, Bajina Bašta, anche se vicinissima alla Bosnia, Velibor "Bora" Milutinovic è in realtà un cittadino del mondo. Calciatore soprattutto in Francia dopo un buon percorso al Partizan, una moglie messicana e il primo buen retiro, appunto, laggiù nel centro America dove aveva terminato la carriera agonistica.
Roba non proprio abituale, negli anni Settanta, un balzo del genere, da Montecarlo a Città del Messico, onesto difensore centrale già con le stimmate dell'allenatore, con il Pumas a consentirgli il passaggio dal campo alla panchina. In Messico però è un attimo, successo dopo successo (2 campionati, una Coppa dei Campioni del centro America), guadagnarsi la stima dell'ambiente, specie con un mondiale alle porte: così già nel 1983 Bora diventa commissario tecnico della nazionale, che tre anni dopo esce solo ai quarti di finale contro la Germania Ovest futura finalista. Imbattuto ma a bocca asciutta, il Messico sarà sempre il luogo del cuore di Milutinovic.
Il vero capolavoro di Milutinovic è ancora di là da venire. In realtà saranno molteplici, nel frattempo nel 1987 trova il tempo di allenare l'Udinese fresca di retrocessione in B, ma non arriva nemmeno a mangiare il canonico panettone, esonerato dopo un avvio disastroso.
Meglio le nazionali, anche semisconosciute per l'epoca come il Costarica. Arriva Bora ed è subito miracolo, o tocco magico. Qualificazione a Italia '90, con clamoroso passaggio del turno ed eliminazione solo agli ottavi di finale contro la Cecoslovacchia; nella fase a gironi, però, in una Genova riconvertita in una colonia costaricense, il pubblico era impazzito per il portiere Conejo o l'attaccante Medford, futura meteora al Foggia.
Altro giro, altro mondiale e altro regalo: per il 1994 ci sono gli Usa, padroni di casa. Non è facile prendere in mano una nazionale che pur con un movimento al limite tra professionisti e amatori deve fare bella figura. Nessun problema, anche qua fase a gironi passata e successiva eliminazione agli ottavi di finale contro il Brasile.
La giostra è irrefrenabile. Nel 1998 per Milutinovic c'è la Nigeria, ricca di talento ma indisciplinata: batte 3-2 la Spagna al debutto, finisce il girone in vetta ma si scioglie di nuovo agli ottavi di finale contro la Danimarca, che affetta la difesa delle Black Eagles, 4-1. Ecco, forse questa è l'unica vera delusione di Bora a livello di nazionali, magari qui si poteva combinare qualcosa di più.
Non finisce qui, no. Capolavoro tra i capolavori, il mondiale del 2002 raggiunto con la Cina, mai vista in questo torneo prima e dopo di allora. La squadra è chiaramente la peggiore delle 32 in corsa, non segna neanche un gol e quando gioca contro il Brasile è uno 0-4 che mette di fronte calciatori di una differenza abissale. Non importa, per Bora è un record al momento solamente pareggiato da Parreira.
Ambasciatore del calcio in tre continenti (tre e mezzo se vogliamo dividere l'America in Nord e Centro): il pallone è arrivato ovunque nel mondo grazie anche a gente come Bora.
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