C'era una volta il Torino di Agroppi, Fabbri e Meroni

C'era una volta il Torino di Agroppi, Fabbri e Meroni

Gli incroci della vita e del destino tra i Mondiali del 1966, il Toro e la carriera del giovane Aldo che spiccava il volo, per poi ritrovarsi tutti e tre in maglia granata

Cesare Mariconda/Edipress

14.04.2024 07:01

  • Link copiato

Quando Aldo si voltava verso destra, osservava l’infinito. Che poi a trovare l’orizzonte in lontananza non c’è nulla di strano per chi è nato in mezzo al mare. Come Aldo. Aldo Agroppi da Piombino, uomo di scoglio, mica di rena come quei pottoni su in Versilia che si trastullano a ballare con i dindi dei loro babbi.

Aldo Agroppi da Piombino. Uno che il mare lo porta in giro tutti i giorni da ottant’anni a questa parte, come se ne avesse caricato il peso trasparente tra le borse intorno agli occhi. Occhi azzurri e profondi come il mare di Piombino, quello dove ci si butta dalla riva senza mai toccare il fondo.

Era il luglio del 1966. Erano le quattro del mattino e c’era lì a fianco un altro mare. La chiamarono la notte dei pomodori e a scatenarla fu un ragazzo coreano, uno che senza ragione si decise dover essere un dentista. Un certo Park Doo Ik.

I ragazzi della nazionale scesero dall’aereo a Genova e salirono sul pullman. I tifosi – giunti in massa nonostante l’ora tarda – lanciarono tutti gli ortaggi che seppero raccogliere sui vetri della corriera. Gigi Meroni stava lì seduto in mezzo agli altri a guardare i finestrini imbrattarsi di una rabbia che sapeva di violenza, come se i suoi ventitrè anni portassero la colpa dell’eliminazione dal mondiale d’Inghilterra. Anche se lui con la Corea del Nord non era neppure sceso in campo per via di un rapporto complicato con l’ometto che i giornali chiamavano cittì. Edmondo Fabbri su quel pullman non ci salì. E probabilmente fu meglio per tutti perché se quei facinorosi lo avessero visto in mezzo ai giocatori, forse quella notte non sarebbe ricordata soltanto per i pomodori e magari i vetri non ne avrebbero retto i colpi. Il signor Fabbri – come lo chiamavano i suoi ragazzi – se ne stette su in aereo un’ora buona e poi sgusciò fuori non appena vide la folla allontanarsi, balzò sull’auto di un parente fatta arrivare lì vicino e sfrecciò via per sempre dalla Liguria e dalla nazionale del pallone.

Quella nazionale che prometteva proprio bene con i suoi ragazzini destinati all’infinito. Gente come il ventitreenne Sandro Mazzola o come Gianni Rivera, di solo un anno più giovane. Come Gigi Riva, che di anni non ne aveva neppure ventidue. O come il più forte di tutti, Gigi Meroni, ventitreenne da tre mesi.

Edmondo Fabbri, che la stampa chiamava “Mondino” o addirittura “topolino” per la sua piccola stazza e per uno sguardo intelligente spesso acuito da due lenti molto scure, era un tipo ordinato nei modi e nei tempi, credeva nelle regole di gruppo e nella storia fino a lì. Gigi era un giovane del suo tempo che annunciava il sessantotto, uno originale con la zazzera da Beatles, che dipingeva quadri e disegnava i suoi vestiti, tutti strambi come lui. Si sarebbe presto detto che Fabbri non vedeva bene Meroni e che Meroni non vedeva bene Fabbri. E ne sarebbe nata una leggenda di antipodi e contraddizioni, eroi ed antieroi, di lotte di libertà. Si sarebbe parlato di odio e di rancore, senza badar troppo a dire il vero: il signor Fabbri e la giovane ala granata non avevano caratteri facili e non erano certo inclini al compromesso, entrambi vivevano con caparbietà il senso di ciò che ritenevano giusto, ma erano due persone per bene che ben presto impararono a capirsi. E se è vero che non mancarono anche screzi e incomprensioni, Edmondo Fabbri apprezzava Gigi Meroni fino quasi a andarne matto e Gigi stimò davvero Edmondo Fabbri senza dar troppo a vederlo.

La vita e la carriera di Aldo Agroppi

Aldo Agroppi era lontano mille miglia da quella nazionale e dall’aeroporto genovese. Con il suo accento toscanaccio da appassionato di pallone, aveva visto le partite ed aveva imprecato alla maremma, un po’ a qualunque meretrice e perfino a qualche divinità. Ma poi era semplicemente andato a dormire pensando al suo calcio, in apparenza minuscolo al cospetto di quello bombardato di passata.

Era l’Agroppi tra Terni e Potenza, quello dell’estate del 1966. Quello che sgomitava per diventare calciatore, nonostante i suoi coetanei facessero mezza nazionale. Uno che da professionista aveva trascorso appena un anno e che finalmente in Lucania sarebbe stato titolare. Uno che il Torino aveva preso da Piombino poco più che bimbo e che adesso girava la penisola da prestito con l’intenzione di vestire finalmente di granata.

Era l’estate del 1966. Quella in cui Torino era innamorata di Meroni, quella in cui l’Italia intera spernacchiava Edmondo Fabbri. Quella in cui Agroppi era soltanto il nome di un nuovo acquisto del Potenza. Uno sconosciuto come tanti.

E poi la vita prende delle direzioni inspiegabili, come se tra da lì al 15 ottobre del 1967 non fosse trascorso un anno appena. =Al mattino presto, l’allenatore del Torino si avvicinò al ragazzo con gli occhi come il mare “Aldo, oggi sei titolare” contro la Sampdoria, a marcare Roberto Vieri, detto Bob. Una mezzala proprio forte, che meriterebbe di essere ricordata per ben altro che per un figlio centravanti con la verve del bomberone.

Perché Aldo a Potenza era andato proprio bene, così tanto da meritare il richiamo del Torino sotto l’ombra della Mole. Così tanto da non dovere aspettare neanche troppo per la prima maglia da titolare. Appena tre partite, poi alla quarta Toro-Samp e si finisce nella mischia.

A sceglierlo, un allenatore mingherlino dagli occhiali molto scuri. Edmondo Fabbri che, cacciato dall’Italia e dopo un anno di astinenza, si era ritrovato sulla panca di una squadra diversa dalle altre: quel Torino che, con la sua storia di gloria e tragedia, profumava di riscatto più di tutti gli altri mondi pallonari. E poi, quella era la squadra di Gigi Meroni. Il suo Gigi, a parte tutto, quello che lui stesso aveva portato in azzurro e caricato sull’aereo per il mondiale d’Inghilterra.

Gigi Meroni, classe ’43. Aldo Agroppi, classe ’44. Praticamente coetanei. Due amici, nonostante per ogni tifoso del Toro fossero quel giorno il primo e l’ultimo. Aldo fece tutte le telefonate che doveva fare e il suo sguardo da sbruffone non riusciva a nascondere la paura del momento. Gigi si avvicinò ad Aldo e – con il consueto tono dolce della sua voce da pittore – gli sussurrò “stai tranquillo, Aldo, andrà benissimo”.

Andò benissimo. Roberto Vieri segnò pure una rete, ma Combin ne fece tre e dopo una gara trascorsa in equilibrio, il Toro fece il Toro nel finale e vinse 4 – 2. Ad Agroppi parve d’esser di colpo diventato un calciatore. Non più uno che ci prova, ma uno di quelli che lo fanno per lavoro.

Dopo la gara si tornò in albergo come sempre e si mangiò insieme come sempre, tra gli scherni dei ragazzi e i complimenti all’esordiente, a qualcuno venne da dire “signor Fabbri, ci lasci liberi questa sera dopo la bella partita che abbiamo giocato!”.

Maledetta la vittoria e maledetto pure il Toro, il signor Fabbri – che agli strappi non era avvezzo – questa volta fece un segno affermativo con la testa. E mandò tutti a trascorrere la serata con le famiglie.

Una serata come tante per chiunque. Non per Agroppi, che festeggiò l’esordio con un sorriso scolpito sulla faccia che sembrava una paresi.

Non per Meroni che attraversò corso Re Umberto. O almeno ci provò.    

Condividi

  • Link copiato

Commenti