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Il 25 febbraio 1964, a Miami, il campione olimpico di Roma strappava a Sonny Liston il titolo dei pesi massimi. Quella vittoria segnò uno spartiacque nel mondo della boxe e dell’America degli anni Sessanta
Il 25 febbraio 1964 fu una data storica per il mondo della boxe. Al Convention Hall di Miami Beach, infatti, si affrontarono il campione dei pesi massimi in carica, Sonny Liston, e il giovane sfidante Cassius Clay, già medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma quattro anni prima nella categoria dei mediomassimi. L’incontro sollevò grande enfasi nell’opinione pubblica americana (e non solo): i media sguazzavano nei giorni dell’attesa attingendo alle diverse personalità dei due protagonisti.
Liston era all’apice della carriera, costruita su una potenza fisica che gli aveva consentito di galleggiare al meglio in una vita condannata dalla nascita. Tredicesimo figlio della seconda moglie di Tobe Liston, Sonny (all’anagrafe Charles L.) iniziò giovanissimo a lavorare nella piantagione di cotone dell’Arkansas nella quale era nato. Le informazioni relative ai suoi primi anni sono scarse e frammentarie, tanto da essere incerta anche la sua data di nascita, comunque collocabile intorno al 1930 (probabilmente il 1932). Sembra che non frequentò mai la scuola: il padre sosteneva che «se può sedere a tavola, può anche lavorare». Un approccio pragmatico e duro, come le frustate che infliggeva al figlio, che gli rimasero impresse sulla schiena e nell’animo. Con questa impostazione era difficile che il giovane Sonny crescesse seguendo i comportamenti di un buon cittadino americano: finì più volte in carcere per svariati furti e rapine ma fu proprio durante uno di quei periodi di detenzione che due cappellani cattolici lo indirizzarono alla boxe, avendo intuito che la forza di cui era naturalmente dotato avrebbe potuto essere la sua unica opportunità di salvezza.
Il 25 febbraio 1964 quella potenza lo aveva portato a essere presentato come il più forte pugile del mondo. Con tutte le contraddizioni che spesso la boxe porta con sé, fatte di scommesse, intrighi poco trasparenti e rapporti con le organizzazioni criminali che, nel caso di Liston, erano riconducibili alla mafia. Strapotere fisico e coperture fuori dal ring facevano sì che molti colleghi non volessero avere a che fare con lui. L’inglese Cooper arrivò a dichiarare che avrebbe combattuto per la corona dei pesi massimi solo se fosse stato Cassius Clay a conquistarla. Un’immagine non proprio cristallina, alla quale l’ex ragazzino delle piantagioni non poteva sfuggire: senza gli ingaggi che gli procuravano i poco raccomandabili manager che lo gestivano, probabilmente avrebbe continuato a fare avanti e indietro con la galera.
Quel giorno a Miami, il suo avversario era un pugile che sapeva far parlare di sé, non solo per le qualità che dimostrava sul ring. Cassius Clay era nella fase ascendente di una parabola agonistica, iniziata nel 1960 a Roma, che lo aveva portato a riempire le pagine dei giornali. Meno potente di Liston, decisamente più agile, Clay si era votato alla nobile arte sin da quando era poco più che un bambino. Per lui, la boxe diventava spesso un pretesto per parlare di altro, in particolare di temi sociali legati al razzismo e al riscatto dei neri. Sapeva essere estremamente bizzarro, come testimonia il periodo di avvicinamento al match con Liston, durante il quale promosse una campagna chiamata "la caccia al grande brutto orso" costellata di episodi di scherno verso l’avversario e culminata con un’apparizione nella notte sul prato della villa di Liston a Denver. Uno spettacolo organizzato “a favore di telecamera”: Clay, infatti, aveva appositamente convocato i giornalisti affinché assistessero alla sua danza, ai suoi insulti e alle sue prese in giro. Tanta spavalderia, in realtà, nascondeva un’ovvia paura ancor più che il rispetto per un campione che, secondo gli esperti, non avrebbe avuto problemi a sbarazzarsi di uno sfidante che forse parlava troppo.
Sin dall’inizio, il match assunse l’impronta che i due contendenti sapevano dare: Liston all’attacco per affondare quanto prima Clay; lui che, fedele al suo motto, danzava come una farfalla e colpiva chirurgicamente quando poteva. Botte ce ne furono, le ferite si aprirono. Anche se Liston apparve meno feroce e resiliente del consueto, fors’anche per la strategia messa in atto da Clay. Il quale, quando al termine della sesta ripresa capì che l’avversario si era ritirato per via di un problema alla spalla, esplose in una gioia che si concedeva allo spettacolo urlando: “I’m the greatest!”. Il ko tecnico dette una scossa al giudizio parziale dei giudici, che in quel momento era di perfetta parità. Molti furono i dubbi che si legarono alla prestazione sottotono dell’ormai ex campione del mondo, che secondo alcuni avrebbe tratto vantaggio dalla vittoria di Clay avendoci scommesso sopra. Arrivò anche un’indagine dell’FBI a provare a fare chiarezza su quanto potesse essere accaduto. Ma, alla fine, nessun indizio fu così attendibile e schiacciante da poter controbattere la verità espressa dal combattimento.
Al Convention Hall di Miami Beach si era creato lo spartiacque tra il passato e il futuro, tra una boxe fatta solo di tecnica e tattica da ring e uno show da costruire ogni giorno anche fuori dal match. Cassius Clay (che di lì a poco si sarebbe attribuito il nome di Muhammad Ali) volava come una farfalla e pungeva come un’ape anche sui grandi temi sociali che stracciavano l’America degli anni Sessanta, dal razzismo alla guerra in Vietnam. La vittoria contro Liston, replicata l’anno seguente in un incontro ancor più controverso, segnò il passaggio del testimone tra un Paese ancora troppo legato ai suoi vecchi paradigmi e uno che cominciava a interrogare se stesso con un occhio critico che lasciava meno spazio alla retorica.
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