«Io e Carbone uguali a Vialli e Mancini»

«Io e Carbone uguali a Vialli e Mancini»

Il Condor Agostini racconta la sua esperienza nel Napoli
di Boskov: «Ce lo disse proprio Vujadin forse per caricarci»

Paolo Valenti/Edipress

12.12.2023 ( Aggiornata il 12.12.2023 19:53 )

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Massimo Agostini ha vestito la maglia del Napoli tra il 1994 e il 1996. In questa intervista parla di quegli anni, facendo anche un excursus sui momenti salienti della sua carriera.

 

Massimo, il suo soprannome è sempre stato il Condor. Le motivazioni sono legate più alla sua fisionomia o alle caratteristiche tecniche?

«Un po’ entrambe: sia per la mia struttura fisica, in particolare quella del viso col mio naso curvilineo, che per le qualità tecniche. Il soprannome me lo diede Patrizio Sala a Cesena nella stagione 1984-85: mi vide un giorno in allenamento che, sul campo bagnato, mi buttai in tuffo due-tre volte sul pallone. Gli venne da dire: “Ti sei buttato come un condor”. Da quel momento tutti mi hanno chiamato così».

 

Ci racconta quando il Condor arrivò sul Vesuvio? Perché scelse il Napoli proprio nell’anno in cui aveva venduto i giocatori migliori (Ferrara, Fonseca, Thern, Di Canio)?

«Quell’anno al Napoli c’era stato il cambio di proprietà con Moxedano, era il 1994-95. Io venivo da Ancona, dove tra Serie A e B avevo fatto 30 gol oltre a una finale di Coppa Italia. Al Napoli serviva un attaccante, io ero ancora in comproprietà con il Parma che però non mi avrebbe liberato fin quando non sarebbe riuscito a prendere Branca dall’Udinese. Alla fine, all’ultimo giorno di mercato, Branca arrivò e io potei andare a Napoli e cominciare una nuova avventura».

 

Che bilancio ha fatto del suo periodo napoletano?

«Furono due anni stupendi, anche a livello familiare. Nella prima stagione, tra campionato e coppe, feci 13 gol. Ebbi poi un infortunio che non mi permise di rendere come avrei voluto e questo influì un po’ anche sul rapporto con il pubblico. Ma è stata un’esperienza bella, importante. Napoli è una piazza meravigliosa, ha una tifoseria di un calore impressionante, che ti fa sentire un calciatore vero: ti costringe a dare sempre il massimo perché vuole giocatori di personalità che il calcio lo praticano a un certo livello».

 

In Coppa Uefa, dopo un primo turno agevole contro i lettoni dello Skonto Riga, nei sedicesimi incontraste il Boavista. Che ricordi ha di quel doppio confronto?

«Ricordo che all’andata facemmo 1-1, segnò Carbone. Al ritorno in panchina non c’era più Guerini: era stato sostituito da Boskov, che in attacco fece giocare me e Carbone. Lui diceva che noi due eravamo i Vialli e i Mancini di quella squadra. Vincemmo giocando un buon calcio, propositivo, dominando la partita. La chiudemmo nel primo tempo con due miei gol: il primo mandando la palla da una parte e scorrendo via dall’altra al difensore, concludendo poi in rete; il secondo con una girata in area di rigore in mezzo a due difensori. Tutto molto bello, con lo stadio pieno».

 

Come vi faceva giocare Boskov?

«Ci lasciava molta libertà, facendo in modo che ognuno esprimesse al meglio le proprie caratteristiche. Giocavamo con i quattro dietro, quattro centrocampisti e due attaccanti. In quel modo riuscivamo a coprire tutto il campo e a essere propositivi anche a livello offensivo. Boskov era un allenatore che ti faceva rendere al 100% perché ti trasmetteva molta tranquillità. Era capace di tenerti al riparo da tutto quello che avveniva fuori dal campo di gioco, era il nostro scudo. Ad esempio, ai giornalisti dava spesso informazioni fuorvianti per non fargli capire chi avrebbe giocato la domenica: in quel modo noi ci allenavamo alla grande tutta la settimana con la speranza di poter giocare, facendolo con impegno ma anche con allegria. Ci fece crescere parecchio».

 

La Campania in qualche modo era nel suo destino: ricorda il suo primo gol da professionista, quello che fece alla Cavese il 6 novembre 1983?

«Era l’anno che salivo dalla Primavera in prima squadra. Quel gol fu una bella soddisfazione anche se perdemmo. Quella stagione mi servì per entrare nella mentalità dei “grandi”».

 

Che memorie ha del tuo passaggio alla Roma, la squadra che la fece esordire in Serie A?

«Quando ero a Cesena sapevo che la Roma mi seguiva. Per me fu un trasferimento importante: approdare nella Capitale a ventidue anni era una cosa grande. Con Eriksson partii abbastanza bene. Poi nel girone di ritorno mi ruppi la caviglia: dovetti essere operato e rimasi fuori fino alla fine del campionato. Nella seconda annata, con Liedholm, non mi trovai molto bene, tanto che la stagione successiva, pur avendo ancora un anno di contratto, preferii tornare a giocare con il Cesena e ripartire da zero».

 

Nel 1990 andò al Milan. Quella non era la sua prima esperienza con Sacchi.

«Io l’avevo già avuto ai tempi della Primavera del Cesena, quando avevamo vinto lo scudetto nel 1982. Dopo Roma, nei due anni fatti a Cesena, lui mi aveva osservato e decise di portarmi al Milan. Io accettai di buon grado pur sapendo che non c’era molto spazio. Fu una bella esperienza ma io volevo esprimermi e giocare. A fine stagione, anche se avevo ancora due anni di contratto, chiesi di essere ceduto e andai al Parma, dove riuscii a vincere la Coppa Italia».

 

Roma, Milano, Napoli: mi dà un aggettivo per ognuna di queste città?

«Roma è una città da vivere: straordinaria, stratosferica, con un clima stupendo. Milano è confusionaria ma comunque affascinante. Anche Napoli è straordinaria, folkloristica e calorosa. Sono tre luoghi attraenti nei quali sono stato fortunato a poter vivere».

 

Passando all’attualità: come interpreta la prima parte di stagione del Napoli? Se l’aspettava in questi termini?

«Il passaggio da Spalletti a un allenatore diverso nei concetti e nella mentalità, che non ha proseguito sulla vecchia linea, poteva far pensare che accadesse qualcosa di ciò che si è visto. Forse un nuovo allenatore che arriva, per orgoglio, vuole subito dimostrare di poter fare qualcosa di diverso. Personalmente, all’inizio, io avrei proseguito il lavoro fatto da Spalletti lasciando i ragazzi liberi di giocare come facevano prima. Poi, gradualmente, avrei inserito i miei dettami. Ora per Mazzarri non è un compito facile».

 

Come vede il cammino in Champions League?

«Adesso è rientrato Osimhen, che è mancato negli ultimi tempi ed è importante. Il Napoli deve cercare di ottenere il secondo posto del girone: se gioca come contro il Real Madrid, le possibilità le ha. La squadra deve provare a rifare il percorso fatto l’anno passato con Spalletti, praticando un bel calcio e senza temere nessuno».

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