1953, l’Ungheria è la Regina d’Inghilterra

1953, l’Ungheria è la Regina d’Inghilterra

I talenti magiari di Kocsis, di Czibor, di Hidegkuti e di Puskas fanno a pezzi i "maestri" inglesi e cambiano per sempre la geografia del calcio  

 

Paolo Marcacci/Edipress

25.11.2023 ( Aggiornata il 25.11.2023 07:01 )

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In casa, mai. Mai fino a quel giorno, quando si capì subito la differenza tra chi continuava a sentirsi superiore e chi superiore lo era davvero, nei fatti. Anzi: sul campo; non uno qualsiasi, peraltro, ma quello di Wembley, nel giorno in cui le tribune sembravano voler traboccare sul terreno di gioco, con il verde striato di foschia.

Il football della Regina continuava a nutrirsi di una consapevolezza continuamente autoinfusa, una sorta di atto di supremazia che non contemplava ipotesi diverse dal suo predominio dato dalla storia, dal blasone, dalle origini. Come potevano gli inglesi contemplare l’ipotesi che l’Ungheria, con il suo calcio oltranzista e tecnicamente votato al ricamo del palleggio potesse mostrarsi come una principessa che, spettinata e scalza, riusciva a essere più bella di ogni testa coronata?

 

I numeri dell’Inghilterra

 

In casa mai, però: l’appiglio della statistica assoluta sembrava diradare il vento delle inquietudini inglesi, che soffiava dalle concrete basi di un prestigio magiaro acquisito e suffragato da eventi non casuali, che avevano già mutato le coordinate della geopolitica calcistica dalle scogliere di Dover in giù: gli ungheresi avevano trionfato all’Olimpiade del 1952 e perso, in una maniera che nelle considerazioni postume si sarebbe sempre riservata il cono d’ombra del dubbio, la finale mondiale del 1954 contro la Germania. Erano le mura, per l’Inghilterra, a costituire una solida rassicurazione fatta di cemento e gradinate, boccali di birra e penny sparsi sul viale del tempio pagano, sul quale si sarebbero adagiate le note dell’Inno. Wembley era stata fino a quel giorno il simulacro fisico di un’inviolabilità, che aveva sempre mondato la Croce di San Giorgio dalle sconfitte che la Nazionale aveva subito fuori casa nel tempo, come il 5-1 patito in Scozia alla fine degli anni Venti e la sconfitta contro gli Stati Uniti al Mondiale brasiliano del 1950.

Centocinquemila anime e un unisono di frustrazione, nel bisbiglio che accompagna il vantaggio ungherese al primo giro di lancetta. Gol di Hidegkuti. Episodico? Visto il minutaggio ci potrebbe anche stare, anche perché dodici minuti dopo Sewell pareggia; però l’occhio del pubblico ha già trattenuto nella retina un’evidente differenza, perché l’obsoleto metodo WM proposto dal tecnico Winterbottom ha subito evidenziato crepe evidenti prodotte dalla sinfonia danubiana: tacchetti tzigani accordati in uno spartito che esalta le individualità di Kocsis, di Czibor, di Hidegkuti e di Puskas, il cui genio è il lubrificante del perfetto ingranaggio. Al contrario, Sir Stanley Matthews, Alf Ramsey e altri campioni inglesi non trovano l’identità corale che possa davvero e definitivamente consentire loro di interpretare la partita in modo identitario.

In meno di dieci minuti segna ancora Hidegkuti, poi si abbatte sugli inglesi una doppietta di Puskas; prima dell’intervallo arriva il sussulto inglese con Mortensen ma nella ripresa il terzo centro personale di Hidegkuti e il sesto gol ungherese di Bozsik spalancano la voragine del risultato rispetto a quelle crepe che i contenuti tecnici e tattici dei primi minuti avevano mostrato ai sudditi di Elisabetta II, ragazza da poco insediatasi sul trono. Persino lei, in quei minuti, ha dovuto farsi da parte: a recitare la parte della regina, il 25 novembre del 1953, è soltanto l’Ungheria allenata da Gusztáv Sebes e debordante di talento e coralità; la Squadra d’oro, Aranycsapat, che del football in quella data cambia definitivamente la storia, prima che la Storia dei libri, quella con la maiuscola, la disperda in giro per l’Europa con l’eco dei colpi di mortaio sovietici. Questa, però, è un’altra storia, che prima o poi racconteremo.

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