L’urlo di Bonimba: Io, la Juve, il Cagliari, il calcio di una volta

L’urlo di Bonimba: Io, la Juve, il Cagliari, il calcio di una volta

Boninsegna è ancora legato al club rossoblù «Seguo sempre con affetto i risultati della mia vecchia squadra. Ranieri l’uomo giusto, farà bene»

Lorenzo Scalia/Edipress

11.11.2023 ( Aggiornata il 11.11.2023 17:14 )

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Roberto Boninsegna era un attaccante totale. Ha giocato con Cagliari, Inter e Juventus vincendo tantissimo. E in carriera ha sfiorato il titolo mondiale in Messico, mettendosi al collo nel 1970 la medaglia d’argento dopo la finalissima contro il Brasile di Pelé.

Boninsegna, si è fatto un’idea del Cagliari?
«Sono un nonno e spesso sto dietro ai miei nipoti. I risultati del Cagliari li guardo sempre con un certo affetto. Dispiace che stia lottando per la salvezza. Cagliari è una grande piazza e una squadra a cui sono molto legato».

Ranieri è l’uomo giusto? 
«È senza dubbio un allenatore di esperienza. Che ha tutte le capacità per tirare fuori il meglio dai suoi ragazzi. Quindi sì, è la persona giusta. Personalmente non lo conosco, però ci ho giocato contro quando era al Catanzaro e poi ho seguito la sua carriera, soprattutto quando è andato a vincere il campionato in Inghilterra». 

La Juventus è da scudetto?
«Direi proprio di sì. Ormai è una lotta a due. Il titolo secondo me se lo giocano solamente Juventus e Inter, a meno che le altre non intervengano pesantemente sul mercato invernale». 

Per chi tifa? 
«Beh, è risaputo: io sono un tifoso dell’Inter».

Come si viveva alla fine degli anni ’60 in Sardegna? 
«Benissimo. Era un posto meraviglioso». 

Ci torna a volte? 
«A volte? Ci vado sempre in vacanza. Quando sento parlare delle Maldive mi viene da sorridere. Forse chi va laggiù non conosce la Sardegna. Credo che in Sardegna ci sia l’acqua migliore del mondo, sia al nord che al sud dell’isola».  

Come furono le tre stagioni da calciatore a Cagliari? 
«Dopo il settore giovanile fatto all’Inter non credevano in me. Così andai in giro per l’Italia e trovai una bella occasione a Cagliari. Arrivammo anche secondi in campionato. Siamo stati bravi a mettere le basi per poi vincere lo scudetto».   

In che senso? 
«Alla fine del 1969 Scopigno, il miglior allenatore che ho avuto in carriera, mi disse che il Cagliari mi cedeva: “Qui ci sono problemi di soldi, quindi o tu o Riva, ma Riva vuole restare al Cagliari”. Io gli risposi: “D’accordo, ma solo se vado all’Inter”. La spuntai alla grande. Tornai a Milano in cambio di Angelo Domenghini, Bobo Gori e Cesare Poli, più soldi». 

E il Cagliari si laureò campione d’Italia… 
«Esatto. Diciamo che sono stato in parte artefice di quel successo lasciando la squadra. Mi sono rifatto l’anno successivo vincendo lo scudetto con l’Inter e diventando capocannoniere con 24 gol. Quindi possiamo affermare che in prospettiva è andata bene a tutti quanti».  

Che rapporto aveva con Gigi Riva? 
«Io e Riva per molto tempo siamo stati come fratelli, dividevamo la camera e stavamo sempre insieme dalla mattina alla sera, poi mi sono sposato e la coppia si è sciolta. Qualcuno cominciò a scrivere che non ci sopportavamo più. Non è vero. Confermo però che in campo ci siamo mandati a quel paese un sacco di volte, ma era normale: due mancini, due attaccanti, egoisti come nessun altro sotto porta. Poi io mi dovevo adattare a destra perché lui giocava solo a sinistra. Mi fa sempre piacere incontrarlo e ricordare il nostro passato comune». 

Dopo la lunga militanza all’Inter passò alla Juventus. Lei ci voleva andare?
«L’Inter aveva comprato Anastasi. E mi voleva cedere. Io mi ero impuntato ma alla fine mi cedettero alla Juventus passando sopra al mio desiderio di restare a Milano, di chiudere lì la mia carriera».  

Poi però… 
«Abbiamo vinto tantissimo a Torino. Due scudetti, una Coppa Italia e una Coppa Uefa. Altri tre anni splendidi, i più proficui sotto l’aspetto dei trofei messi in bacheca». 

I gol più belli? 
«Per un attaccante il gol è tutto. Quindi dico che sono tutti belli. Ricordo con piacere quelli in rovesciata, in particolare con la maglia dell’Inter. Mi piaceva come gesto, anche se i rischi di fare una figuraccia erano alti. Però la rete alla quale sono più legato l’ho realizzata nella finale del Mondiale contro il Brasile nel 1970. Prima segnò Pelé, poi io pareggiai». 

Quella finale è ancora una ferita aperta? 
«È il mio grande rimpianto. L’unico. Purtroppo Valcareggi sbagliò la formazione lasciando in panchina Rivera, il nostro Pallone d’Oro. Abbiamo retto ma poi siamo crollati pagando anche gli sforzi della semifinale contro la Germania, a detta di tutti la partita del secolo scorso».

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