Robben Island e la Makana Football Association: quando il calcio è salvezza

Robben Island e la Makana Football Association: quando il calcio è salvezza

Negli anni Sessanta, nel carcere che accoglieva Nelson Mandela, i detenuti costituirono una struttura che organizzava i tornei di calcio interni per dare un senso alle loro giornate

Paolo Valenti/Edipress

06.04.2023 14:55

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Per capire i motivi per cui il 6 aprile è stato dichiarato Giornata Internazionale dello sport per lo sviluppo e la pace, è necessario ripensare a come la pratica sportiva ha la possibilità di impattare sulla vita quotidiana delle persone. Esempi ce ne sono, innumerevoli, estraibili dai più svariati contesti e con impatti più o meno profondi. Bisogna entrare nel tessuto sociale, nell’esperienza di tutti i giorni per accorgersene. Va levato lo sguardo dalle paillettes e i lustrini rappresentati dall’avanguardia del professionismo per ritrovare la dimensione autentica del valore dello sport. Scendere di livello (tecnico) e trovare nei luoghi più nascosti e lontani dagli occhi voraci dei media quelle storie che allargano gli orizzonti di applicazione di quelle attività che fanno del gioco vissuto nel rispetto delle regole uno strumento di evoluzione personale.

La prigione in Sudafrica

Robben Island è uno scoglio di poco più di cinque chilometri quadrati situato a nord delle spiagge di Città del Capo, Alcatraz sudafricana che nella prima metà degli anni Sessanta è la sede di reclusione di prigionieri politici che, in quel periodo tumultuoso, trovano il coraggio di opporsi apertamente al regime segregazionista dell’apartheid che vige nel Paese. Persone spesso di buon livello culturale, evolute, che non riescono ad accettare la barbarie di quell’assetto sociale basato sulla discriminazione tra bianchi e neri. Sono loro che popolano quelle celle fiaccate dal sole, dove i secondini, con le loro maniere ruvide, degradano il senso di umanità dei detenuti, già avvilito dall’ingiustizia della loro condanna. A Robben Island, come in ogni prigione del mondo, tutto si può togliere a un detenuto tranne la speranza: quella di evadere o di arrivare al giorno della fine della pena, di riconquistare la libertà e abbracciare una persona amata in un mondo migliore rispetto a quello che si è conosciuto quando si è entrati. Quella speranza ogni individuo la alimenta come meglio può, nell’uguaglianza indistinta di giornate che passano troppo lentamente se non trovano uno scopo. 

Il calcio a Robben Island 

Quello che, a Robben Island, diventò il calcio, che in Sudafrica è sempre stato lo sport legato alla parte più umile della popolazione, essenzialmente riconducibile ai neri, forse anche per la sua semplicità di approccio sia dal punto di vista degli strumenti che della struttura fisica necessari a praticarlo. Ai prigionieri bastavano quattro stracci avvinghiati tra loro per fare un pallone ma la struttura che gestiva il penitenziario, refrattaria a concedere qualsiasi forma di piacere e di svago a uomini probabilmente non considerati tali, si opponeva a quell’aspirazione. Chiunque sollevava quel tipo di proposta veniva punito con il digiuno forzato. Ma l’anelito alla libertà e alla rivendicazione dei propri diritti è una spinta troppo forte per gli uomini di quel posto. Così, a turno, decidono di avanzare la richiesta in modo da sopportare meglio le punizioni che questo comporta e renderle più tollerabili. Alla fine, richiesta dopo richiesta, punizione dopo punizione, l’autorizzazione viene concessa. È un tripudio di gioia, una doppia vittoria: quella di poter dedicare, dopo una settimana di lavori forzati, una mezz’ora del sabato al gioco del calcio; e quella negoziale, nei confronti dei responsabili del carcere. 

La Makana Football Association 

Un successo che porta la luce della speranza a splendere tra le mura di Robben Island, guidato da menti illuminate (molti internati, come accennato, erano uomini istruiti che nei futuri governi del Paese avrebbero ricoperto anche ruoli di responsabilità) che indirizzano in maniera sempre più strutturata la gestione del calcio nella prigione. Per ottenere il materiale da gioco i detenuti concordano di ridurre le ribellioni interne e organizzano dei veri e propri campionati tra più squadre rispettando i regolamenti ufficiali della FIFA, disponibili e consultabili nella scarna biblioteca dell’istituto, creando comitati direttivi, infliggendo sanzioni, tenendo rigorosi e dettagliati resoconti degli incontri, facilitando i rapporti tra le fazioni politiche diverse a cui appartengono gli internati. Una vera e propria organizzazione calcistica, nominata Makana Football Association, che nel 2007 sarà addirittura riconosciuta dalla FIFA come proprio membro onorario, della quale uno degli arbitri è Jacob Zuma, che dal 2009 al 2018 ricoprirà il ruolo di presidente del Sudafrica. 

La presenza-assenza di Mandela 

A Robben Island, però, non a tutti viene concesso di partecipare alle attività calcistiche. Chi è sottoposto ai maggiori rigori penitenziari rimane isolato, impossibilitato ad assistere o a partecipare alle partite organizzate dalla Makana Football Association. Tra essi Nelson Mandela, che in quel luogo trascorse diciotto anni di detenzione (sui ventisette complessivi sopportati), leader assoluto della lotta all’apartheid che sul terreno di gioco della prigione tornerà in occasione del suo 89° compleanno quando la FIFA, come accennato, riconoscerà la Makana FA come suo membro onorario. Esplorando questa vicenda, appare più facile interpretare cosa disse un giorno Mandela a chi gli chiedeva chi fosse un vincitore. Una risposta semplice ma non banale, come lo sono i versi delle poesie più ispirate: "Un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso" diceva Madiba. Un sognatore che, nelle lunghe notti di attesa che deve affrontare per raggiungere il suo obiettivo, può usare lo sport come mezzo pacifico per sviluppare i suoi progetti e le sue ambizioni.

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