Sinisa Mihajlovic, il guerriero che ha perso l'ultima battaglia

Sinisa Mihajlovic, il guerriero che ha perso l'ultima battaglia

L'ex calciatore e allenatore aveva 53 anni: è stato uno dei più grandi tiratori di punizioni di sempre. Stroncato da una terribile malattia, lascia la moglie Arianna e sei figli

Simone Pieretti/Edipress

16.12.2022 15:41

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Il cuore del guerriero si è fermato, ma le sue gesta non verranno scalfite dal tempo. Nei cinquantatré anni di Sinisa Mihajlovic ci sono dentro almeno tre vite, legate da un filo comune; prima di essere calciatore, allenatore e padre, è stato un indomito combattente. Sinisa aveva solo avversari con cui ha battagliato lealmente, l’unico nemico infido gli ha tolto il privilegio della vita terrena. Ma se l’è dovuta sudare. Ha lottato anche lì, vinto da un braccio di ferro ìmpari; l’uomo di sport è abituato a partire alla pari, e questa sfida era troppo sbilanciata già in partenza, perché il nemico ha giocato sull’effetto sorpresa.

Un gigante, Sinisa. Un ragazzone di Vukovar con la faccia da bambino; un’infanzia trascorsa a prendere a pallonate la serranda del garage, una vicina molestata dal rumore delle pallonate, incline al perdono, inorgoglita da quel bambino divenuto campione. Aveva vinto la Coppa dei Campioni con la Stella Rossa - nel 1991 - battendo in finale il Marsiglia; in una squadra piena di talenti, non declinò la responsabilità di calciare dal dischetto; rincorsa mediamente lunga e sinistro incrociato a spiazzare il portiere. E poi quel meraviglioso sorriso - ancora acerbo - e i pugni serrati verso il volto incorniciato da una foresta di capelli. Erano attimi di estasi, a un passo dalla gloria che sarebbe stata continua e duratura. Il muro di Berlino era già crollato, nell’aria il profumo del successo era mischiato a quello della libertà. L’Italia lo aveva adottato nell’estate del 1992, quando la Roma di Boskov lo aveva chiamato all’ombra del Colosseo: due stagioni senza acuti, poi l’esperienza alla Sampdoria prima dell’approdo alla Lazio. A Genova il tecnico Eriksson gli cambiò ruolo, Mancini gli indicò la rotta da seguire. Sulla sponda laziale del Tevere Mihajlovic ha continuato a vincere trofei; a Formello è stato un leader, neanche troppo silenzioso, litigioso quanto basta quando c’era da difendere le proprie ragioni. Testardo, autentico, leale; sapeva ammettere le sue colpe a patto che l’antagonista si prendesse la propria razione di responsabilità.

Parlare del giocatore sarebbe fin troppo semplice: professionista esemplare, concentrato sull’obiettivo anche quando la vita entrava a gamba tesa; la Guerra dei Balcani, i familiari in costante pericolo, la fuga in macchina sotto le bombe per ritornare a Roma. I trent’anni di Sinisa non sono stati tutti rose e fiori. Accanto a lui, una famiglia meravigliosa costruita su valori antichi, reali, essenziali. Cinque figli con Arianna, un altro frutto di una precedente relazione; nel ruolo di padre è stato promosso a pieni voti, nel ruolo di nonno si era calato perfettamente nella parte mostrando una tenerezza inaspettata. La sua vita è stata una continua prova di coraggio; da calciatore, da uomo, da tecnico: non si è mai tirato indietro agendo con il cuore anche quando la ragione avrebbe dovuto primeggiare sul sentimento. Impavido fino all’eccesso, come quando a Firenze - dopo aver fallito un calcio di rigore - si ripresentò tre minuti dopo dal dischetto: sarebbe stato più semplice lasciare l’incarico a qualcun altro. Sinistro, gol. Mancavano poche giornate al termine del campionato, e quella rete fu determinante. Il coraggio non gli è mai mancato, convinto delle proprie ragioni avrebbe combattuto contro il mondo intero. Leale sì, ma non sportivo: l’importante è partecipare non faceva al suo caso, giocava per vincere, e una seconda opzione non era mai contemplata. Durante la malattia si era tolto la corazza, si era scoperto fragile ma nello stesso tempo indomito; non aveva paura di mostrarsi dentro a un corpo svilito dalla sofferenza, era diventato più docile, estremamente sensibile alle carezze della gente che lo amava per ciò che era: un uomo semplice, un combattente vero.

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