Storie Mondiali - Usa '94: Andres Escobar, un omicidio per un autogol

Storie Mondiali - Usa '94: Andres Escobar, un omicidio per un autogol

Nella partita del girone contro i padroni di casa, il capitano della Colombia segnò nella porta sbagliata: pochi giorni dopo venne freddato nel parcheggio di una discoteca

Paolo Marcacci/Edipress

16.12.2022 ( Aggiornata il 16.12.2022 13:15 )

  • Link copiato

Quella fu la volta in cui perdemmo definitivamente l’innocenza. Noi, appassionati di calcio, addetti ai lavori a vario titolo, praticanti amatoriali; noi genericamente innamorati del pallone, con l’esistenza scandita dai suoi riti e dalle metafore esistenziali che riesce a condensare in novanta giri di lancetta. Più recupero, quando lo concede. Quella volta no, quella volta la fine venne anticipata. Senza nemmeno interpellare un qualche dio.
Eravamo già passati attraverso gli scandali, come quelli italiani dei vari Calcioscommesse, la disillusione data dall’avvento dell’iperprofessionismo, le bandiere ammainate per un cambio di maglia, l’affarismo elevato a potenza sopra qualsiasi altro valore etico, morale, agonistico. Del resto, quella stessa Coppa del Mondo che si disputava negli Stati Uniti nel 1994, con orari e temperature a volte pericolose per gli atleti ma ideali per i diritti televisivi, era il paradigma di una FIFA prona al business e, per l’occasione, “cocacolizzata” per ampliare su scala planetaria il suo bacino d’utenza. Nemmeno noi eravamo più innocenti, ormai da tempo. Eppure, non eravamo pronti a una notizia del genere.

La fine del "Cartello di Medellin" e le speranze riposte nella Nazionale

L’antefatto sta nella forza che, alla vigilia del Mondiale americano, tutti attribuivano alla nazionale colombiana, che aveva dato spettacolo durante le qualificazioni: i Cafeteros avevano vinto il proprio girone sottomettendo l’Argentina, sconfitta anche in casa propria con cinque gol di scarto. Qualcosa di epocale, nonché impensabile fino a poco tempo prima. Una generazione di giocatori straordinaria, dai Valderrama ai Faustino Asprilla, passando per Freddy Rincon e Leonel Alvarez, che diventano protagonisti del calciomercato internazionale e che nella rappresentativa nazionale vengono assemblati e amalgamati da un commissario tecnico carismatico ed estremamente colto, in senso non soltanto calcistico, come Francisco Maturana. In mezzo a quel gruppo di funamboli, istrioni, potenziali fuoriclasse che restano impressi anche per gli atteggiamenti sopra le righe che li caratterizzano, restano impressi il profilo affilato, il carisma solenne e il portamento signorile di Andrés Escobar Saldarriaga, difensore centrale dell’Atletico Nacional di Medellìn, città dove è nato e cresciuto in una famiglia borghese. Il club, che come tutti sanno ha come principale finanziatore l’Escobar più celebre, il narcotrafficante Pablo, ha conteso al Milan la Coppa Intercontinentale del 1989; Escobar è finito sul taccuino dei dirigenti rossoneri come ipotesi di mercato: i suoi tempi di gioco e il suo ordine tattico non sono sfuggiti allo sguardo di Arrigo Sacchi. Non se ne fa nulla, anche a causa di un grave infortunio al crociato. È il capitano della Colombia, maglia numero due.

Sembra che stia per cominciare una nuova era per il calcio colombiano, in contemporanea con quella che è finita in maniera cruenta nel Paese: all’inizio del mese di dicembre del 1993 viene sgominato dall’esercito il “Cartello di Medellín”, con tutti i suoi membri che vengono catturati o uccisi. Tra le vittime, proprio il già nominato monarca assoluto del narcotraffico, nonché percepito come benefattore da buona parte del popolo colombiano: Pablo Escobar, che perde la vita a soli quarantaquattro anni. La nazione si trova sulla soglia di una guerra civile: anche per questo, le autorità esercitano una forte pressione sulla Nazionale, dalla quale ci si aspetta che dispensi gioia, soddisfazione, un minimo di spensieratezza.

La Colombia a Usa '94

Il Gruppo A all’interno del quale vengono inseriti i colombiani sembra concepito apposta per farli ben figurare e per lanciarli verso la prosecuzione del cammino nel Mondiale: Romania, Svizzera, Stati Uniti. La Coppa del Mondo a volte è la più volubile delle meretrici, con la chioma scompigliata dal caso e lo sguardo reso strabico dal destino: incassa in anticipo speranze e convinzioni, promettendo un piacere che poi nega sul più bello.
Accade che i Cafeteros, già accompagnati da una tensione sociale abnorme e da una spinta popolare che è direttamente proporzionale a essa, in un modo che solo chi conosce come si vive il calcio in Sudamerica può comprendere, arrivino all’esordio contro la Romania di Hagi sapendo anche che sull’eventualità di una loro vittoria sono confluite ingenti somme di denaro nel giro delle scommesse clandestine. Un modo per ripulire i soldi sporchi, ma anche per far capire che il calcio in Colombia appartiene sempre a chi ha in mano lo scettro del narcotraffico, solo che nel frattempo il trono si è spostato da Medellìn a Cali, dove il club di riferimento è l’America, acerrimo rivale dell’Atletico Nacional.

Alla prima giornata trovano una Romania in grande spolvero, a cominciare proprio da Hagi che esibisce tutto il suo campionario fatto di estro, pregio tecnico e tempra agonistica. La Colombia è tesa, compassata nei ritmi, macchinosa nello sviluppo della sua manovra che in genere è fluida e ariosa. Tre a uno per i rumeni, girone pregiudicato, al punto tale che non servirà a nulla, alla terza partita, battere gli svizzeri. Ci stiamo perdendo qualcosa, nella narrazione? Vorremmo, se alcune parti di alcune storie potessimo cancellarle per riscriverle diversamente. Invece dobbiamo isolare a quanto accade nella seconda giornata, contro gli Stati Uniti padroni di casa, al Rose Bowl di Pasadena.
Minuto trentaquattro, gli USA avanzano sul settore sinistro della metà campo colombiana; Harkes guarda in mezzo, poi effettua un cross basso e teso, leggermente a rientrare. La retroguardia colombiana è schierata e il capitano legge alla perfezione la traiettoria, la linea della sua corsa è nitida nell’anticipo di ogni attaccante statunitense presente in area. Il modo in cui impatta il pallone in scivolata invece è il peggiore possibile, perché invece di allontanare la palla in diagonale oltre la linea di fondo, Escobar la spedisce dritto per dritto al centro della porta, mettendo fuori causa il portiere Cordoba. Col senno di poi, è in quel momento che termina il Mondiale dei colombiani, che subiranno il raddoppio di Stewart e dimezzeranno lo svantaggio con Valencia allo scadere, per poi battere inutilmente gli elvetici nell’ultimo atto del girone.

L'omicidio di Andres Escobar per l'autogol a Usa '94

Carlo Nesti, che racconta la partita per la RAI in Italia, parla di - Incredibile condanna - quando la palla finisce in fondo al sacco. Quando Escobar si rialza, la sua faccia non è quella del disappunto, della delusione e nemmeno della vergogna. È una maschera di cera scura dai tratti precolombiani, sulla quale una colombiana realtà ha cristallizzato l’espressione. I suoi occhi sono due punture di spillo dalla capocchia nera, che scrutano in lontananza come quelle di un uomo che si è smarrito in mezzo al deserto, con nessun altro vicino a sé. Anche se si trova in mezzo a centoduemila spettatori.
Quell’autogol diventa semplicemente “gol!” quando nel parcheggio della discoteca “El Indio” glielo gridano per irriderlo, sei volte, per ogni proiettile che gli lasciano in corpo, nella notte tra il primo e il secondo giorno di luglio del 1994. Sono sicari; non esagitati, facinorosi, ubriachi. Sicari. Ex affiliati di Don Pablo ora passati al cartello rivale.


Non ne poteva più di stare in casa, il capitano della Colombia: da quando avevano fatto ritorno in patria, lui e i suoi compagni si erano barricati, per la paura di ritorsioni, in seguito a tante minacce arrivate fino al loro albergo negli Stati Uniti. Quella sera voleva cenare fuori, vedere gente, forse anche ubriacarsi. Lo aveva anche detto in un comunicato, dopo l’autogol: “Un grande abbraccio a tutti, per dirvi che il Mondiale è stata un’opportunità e un’esperienza fenomenale e rara, che non avevo mai provato nella mia vita. Ci vediamo presto perché la vita non finisce qui”. Aveva voglia di mostrare la sua faccia. Sarebbe rimasta per sempre quella che avevamo visto quando si era rialzato dopo l’autorete, assieme ai suoi ventisette anni restati sospesi in quel parcheggio di Medellín.

Condividi

  • Link copiato

Commenti