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Presidente e primo tifoso della squadra, per i calciatori fu come un padre. A lui è intitolato lo stadio dei rosanero
È stato uno stadio mondiale il “Renzo Barbera” di Palermo. Degno di un palcoscenico così importante, come l’uomo a cui è stato intitolato l’impianto nel quartiere La Favorita, un personaggio quasi da romanzo, non a caso soprannominato “L’ultimo Gattopardo” per la sua alta dignità morale. L’ex presidente del club rosanero, scomparso nel 2002 a 82 anni, si è visto intitolare il “suo” stadio pochi mesi dopo la sua morte.
Barbera non era di famiglia nobile, ma aveva tutto per esserlo. Nato il 19 aprile del 1920 a Palermo da una famiglia piuttosto benestante, durante la Seconda Guerra Mondiale viene fatto prigioniero dai tedeschi, riuscendo però a scappare e a rifugiarsi presso alcuni contadini nella zona intorno a Frosinone. Sposatosi nel 1948 con la triestina Giuliana Cicutto, da lei avrà tre figli. Nel 1951, dopo alcune precedenti esperienze in club minori, Barbera si occupa della rifondazione della Juventina Palermo, di fatto la seconda squadra della città, e che nulla aveva a che vedere con la Juventus di Torino. Questa società, di cui Renzo aveva già fatto parte prima della sua dissoluzione nel 1941, acquista immediatamente una grande importanza, anche se non riesce a schiodarsi da una dimensione dilettantistica. Alcuni calciatori e futuri allenatori del Palermo, come ad esempio Ignazio Arcoleo, cominciano da qui la loro avventura. Ma pure Cestmir Vycpalek, che diventerà tecnico della Juventus “vera”, quella bianconera di Torino. Ogni tanto la Juventina, per alcune partite di cartello, gioca allo Stadio La Favorita, ma proprio in casi eccezionali.
Dopo una parentesi da vice-presidente di tre anni, nel 1970 Barbera diventa massimo dirigente del Palermo, e lo rimarrà per un decennio, di fatto. La sua è una straordinaria epopea di alti e bassi, promozioni in Serie A e immediate retrocessioni, ma anche di ben due finali di Coppa Italia raggiunte nel 1974 e nel 1979, con la squadra all’epoca in B. In entrambi i casi le sconfitte arrivarono di misura, una contro il Bologna ai calci di rigore mentre la seconda contro la Juventus ai tempi supplementari dopo il gol-lampo di Vito Chimenti. La finale del 1974 rimane ancora oggi il punto più alto, almeno nell’immaginario collettivo, di Renzo Barbera. Al termine di una partita quasi vinta, il Palermo si vede raggiungere al 90’ da un rigore dubbio, trasformato da Savoldi. È la squadra di Corrado Viciani in panchina, quello del “gioco corto” già proposto con la Ternana, con Arcoleo che dalla Juventina è passato ai rosanero. Sconfitta ai rigori, ma nessuna polemica da parte di Barbera, che anzi va da Bulgarelli, capitano del Bologna, a stringergli la mano; in più dà anche ai suoi giocatori il premio partita, come se quella coppa l’avessero vinta loro e non i rossoblù. In cambio i giocatori gli avrebbero regalato un piatto d’argento con la dedica: “A papà Renzo”. Perché quello era Barbera per i suoi ragazzi, una sorta di padre putativo.
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E del resto il presidente era uno che metteva i soldi di tasca sua, nel caso, senza badare a spese, ipotecando le sue proprietà, addirittura. Talmente tifoso da andare ai funerali dei capi-ultrà del Palermo, come quello di “Vicè u’ pazzu”, uno che si dipingeva la faccia di rosanero e che seguiva la squadra ovunque, in trasferta, in tutta Italia. Soffrirà molto, Barbera, quando per la ristrutturazione della Favorita, prima di Italia ‘90, un incidente sul lavoro porterà alla morte di 5 operai. Lui era nel comitato organizzatore e avrebbe voluto mollare il calcio. Niente di tutto questo: anzi, quello stadio di lì a 12 anni avrebbe preso il suo nome.
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