Juventus-Roma, Zibì Boniek e i ricordi di una sfida infinita

Juventus-Roma, Zibì Boniek e i ricordi di una sfida infinita

Il polacco ha vissuto la gara da entrambi i lati della barricata: «Era più sentita nella Capitale, giocarla è stata un’esperienza unica, oggi non c’è più quello spirito»
 

Francesco Balzani/Edipress

17.10.2021 12:51

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Zibì Boniek. Il Bello di Notte per Gianni Agnelli, il polacco dei sogni per Dino Viola, che tanto lo avrebbe voluto già ai tempi del secondo scudetto. Un doppio ex che ha vinto con la Juventus e si è innamorato poi della Roma tanto da rimanerci a vivere per anni. Uno dei giocatori più forti che hanno mai giocato nel nostro campionato e che oggi è vicepresidente della Uefa. In carriera ha ricoperto tutti i ruoli: «Giocavo da seconda punta, ai Mondiali del 1982 ho fatto la prima punta. Nasco da centrocampista, ma nella Roma ho fatto anche il libero». 157 presenze e 31 gol in campionato per Zibì, che ha il grande rimpianto di non aver giocato la semifinale della coppa del Mondo 1982 contro l’Italia. «Anche se contro Paolo Rossi in quelle condizioni avrei potuto poco», avverte subito. Erano gli anni di una Serie A che viveva gli epici scontri tra Juventus e Roma in stadi sempre gremiti e con tutti gli occhi di Europa addosso. Zibì quelle sfide le ha vissute da entrambe le parti. Tra il 1982 e il 1985 in bianconero e nei successivi tre anni, fino al 1988, in giallorosso. Il Widzew Lodz ad aprile lo cede alla Juve per 2 miliardi e 300 milioni e Boniek diventa il primo polacco della Serie A insieme al compagno di nazionale Zmuda che finirà al Verona. Ma qualche giorno prima era stata la Roma a essere stata a un passo dal campione 

Quindi poteva essere romanista in anticipo? 

«Era tutto fatto, avevo firmato e parlato più volte con Viola. Ma la Polonia era strana, perché la decisione per il trasferimento doveva arrivare dal Ministro dello Sport, che non era d’accordo con il pagamento rateizzato proposto dalla Roma e preferì mandarmi alla Juventus. Ma con Viola ci eravamo promessi di risentirci alla fine del mio contratto. A 5 mesi dalla scadenza l’ho chiamato e gli ho detto: “Si ricorda della mia promessa di tre anni fa? Se lei è ancora interessato vengo da voi”. E fu così. È stata una bella scelta per me e la mia famiglia».

Come è stato il suo impatto in Italia? 

«Mi trovai subito bene a Torino perché appena arrivai nello spogliatoio trovai dei campioni, sorridenti e disponibili. Al primo allenamento chiesi a Zoff se dovevo dargli del tu o del lei. Lui mi guardò e sorrise. Abbiamo vinto tanto insieme, era una Serie A fortissima. La Juve l’avevo affrontata spesso da avversario e non aveva bisogno di presentazioni».

Momenti negativi?

«Con la Juve ho vinto tanto anche se ci sono due episodi che non si possono dimenticare: le due finali di Coppa dei Campioni. All’Heysel nessuno di noi voleva giocare. Ci guardavamo negli occhi smarriti, non sapevamo quanti morti ci fossero e si sentiva un silenzio assordante. L’ho scoperto solo sull’aereo di ritorno quando me lo disse il pilota. Fu una mazzata. E poi la finale persa con l’Amburgo con 60mila persone in lacrime, me le ricordo ancora. Un grande dispiacere».

Poi il passaggio alla Roma.

«Il mio impatto con la Roma fu fantastico, venivo da tre anni di dura disciplina con Boniperti. Mi ricordo che il primo giorno di ritiro Eriksson ci disse di fare una corsa lenta. Ad un certo punto però questa corsa è diventata quasi una camminata, continuavo ad andare, mi girai e non era rimasto nessuno e sento Pruzzo che mi grida: “A polacco ma che sei venuto a fare qua, la carriera?”. Era una squadra fantastica: Conti, Ancelotti, Cerezo e ragazzi giovani come Desideri, Giannini. In attacco c’erano Graziani e Pruzzo. Quella del 1985-1986 è stata la squadra più forte con cui ho giocato in vita mia».

A cui purtroppo è sfuggito lo scudetto.

«Eriksson era un bravissimo allenatore ma all’epoca era molto giovane. Ha perso molto tempo a capire questa squadra, a studiare come metterla in campo e siamo partiti con un po’ di ritardo. Ma lo scudetto ce l’avevamo comunque in tasca. Ho ancora i bruciori di stomaco se ripenso a Roma-Lecce all’Olimpico. Vincevamo uno a zero e, se l’arbitro non ci avesse annullato un gol per un fuorigioco inesistente, saremmo andati avanti di due gol. Poi non so cosa accadde ma ci fecero tre gol e ci stesero. Incredibile».

Cosa si prova a giocare uno Juventus-Roma da ex?

«Prima erano partite totalmente diverse, c’era un altro spirito. Non hanno lo stesso valore emotivo di un tempo. Devo dire con sincerità: è una gara che si sente più a Roma che a Torino. Quando ero alla Juventus eravamo più focalizzati nel vincere in Europa, mentre a Roma ho capito che giocare contro la Juve è una cosa speciale. Affronti quella che è la squadra probabilmente più “odiata” dall’ambiente».

I ricordi più forti di quelle sfide?

«Mi ricordo, quando ero in bianconero, una rete spettacolare in mezza rovesciata di Roberto Pruzzo a Torino. Anche noi avversari andammo ad applaudirlo, ammirati. Poi nel primo match da giallorosso ricordo il 3 a 0 rifilato alla Juve all’Olimpico, una delle partite migliori che abbia mai giocato. Infine mi diverte sempre ricordare la faccia di Platini quando, dopo pochi secondi, gli entrai in modo abbastanza deciso… È una gara che ha tutto dentro, ma non mi sono mai sentito anti-juventino come qualcuno ha detto e scritto. Mi sono solo trovato meglio a Roma, tutto qui».

 

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