Galatasaray-Lazio, Stefano Fiore torna sulla sfida del 2003 a Istanbul

Galatasaray-Lazio, Stefano Fiore torna sulla sfida del 2003 a Istanbul

Il 16 settembre, con un gol e un assist, l’ex centrocampista biancoceleste fu protagonista di un trionfo eccezionale contro il Besiktas in Champions League 

Paolo Colantoni/Edipress

16.09.2021 16:18

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Una vittoria netta, prestigiosa e che ha consentito alla Lazio di partire con il piede giusto in Europa. Il 16 settembre del 2003 la squadra biancoceleste allenata da Roberto Mancini, vola in Turchia per la prima sfida del girone eliminatorio di Champions League contro il Besiktas. I biancocelesti vivono una situazione difficile. In bilico tra i successi in campionato (quarto posto e qualificazione in Champions nella stagione precedente) e il rischio fallimento che attanaglia la società. La squadra si compatta e riesce a dimenticare le vicissitudini esterne, concentrandosi solo sul campo. Contro il Besiktas i biancocelesti si impongono con un netto 2-0, frutto delle reti di Jaap Stam e Stefano Fiore. «Giocare in Turchia, soprattutto ad Istanbul, non è mai facile, l’ambiente è particolare. I tifosi si fanno sentire, riempiono lo stadio tante ore prima – ricorda l’ex centrocampista biancoceleste – l’atmosfera è sempre molto calda. Un tifo continuo, fanno tanto casino. Poi in quel periodo anche per ragioni politiche, andare in Turchia non era una passeggiata. Noi eravamo lì anche l’11 settembre quando ci fu l’attacco alle Torri Gemelle. Non dimenticherò mai quell’atmosfera».

La Lazio esordisce in Champions League con una vittoria, Stefano Fiore colleziona un gol e un assist.

«Ho sfruttato l’assenza di Sinisa Mihajlovic per poter battere i calci piazzati. Compreso il corner che portò al gol segnato da Stam. Se ci fosse stato lui forse sarebbe andata diversamente (ride, ndr). A parte gli scherzi, avevamo tante soluzioni e tanti calciatori che potevano sfruttare ogni momento della partita. Ricordo benissimo il corner ad uscire e lo stacco di testa di Jaap, che ci permise di sbloccare il risultato».

Il difensore olandese spesso giocava in campo alle sue spalle.

«Mancini aveva studiato uno schema semplice, ma efficace. Un 4-4-2 che sembrava scolastico, ma in realtà regalava tante varianti. Una era la mia presenza sulla fascia destra. Io non ero un tornante, avevo caratteristiche completamente diverse rispetto a Cesar che giocava sulla fascia opposta, ma accentrandomi riuscivo a disorientare le difese avversarie. E per dare un po’ di equilibrio alla squadra, spesso Mancini preferiva mettermi alle spalle Stam, piuttosto che Oddo. Ecco, diciamo che se Massimo partiva spesso dalla panchina, la colpa era la mia».

Il gol arriva nel finale, dopo uno scambio con Bernardo Corradi.

«Noi duettavamo spesso. Ci capivamo alla grande. Io amavo molto inserirmi e scambiare palla con gli attaccanti. Con Bernardo poi c’era un feeling particolare. In quell’occasione però più che uno scambio fu un’azione un po’ casuale. Io entrai in area, provai a passargli il pallone, ma ci fu una deviazione di un difensore che me lo restituì. A quel punto, da posizione defilata e con il portiere fuori dai pali calciai in porta e feci gol».

Che squadra era quella Lazio?

«Una formazione molto forte dal punto di vista tecnico. Mancini l’ha plasmata seguendo ciò che aveva in mente. Una squadra ricca di qualità, in cui gli unici incontristi erano Simeone, il primo anno, e Giannichedda. Ma al mister piaceva giocare con due centrali che impostassero: spesso faceva giocare Liverani e Stankovic, poi il secondo anno è arrivato anche Albertini. Sulle fasce io e Cesar e davanti si alternavano Corradi, Lopez, Chiesa, Muzzi, Inzaghi. Dietro Oddo, Stam, Favalli e Zauri sulle fasce e in mezzo Couto e Mihajlovic. Una squadra a trazione anteriore, alla quale piaceva attaccare».

Si era creato un bel feeling tra di voi e con il pubblico.

«Era la famosa Banda Mancini. Giocavamo un bel calcio e siamo riusciti ad ottenere anche ottimi risultati. Tolti i quattro difensori e Giannichedda, il resto della squadra era votata all’attacco».

Quanto è stato difficile riuscire ad isolarvi e a lasciarvi alle spalle tutti i problemi societari?

«Non è stato semplice. Quello che succedeva all’esterno provavamo ad ignorarlo, ma tutti vivevamo una sensazione di precarietà. Fu molto importante il lavoro di Mancini, che ci ripeteva in modo quasi maniacale di pensare solo al campo e la presenza di giocatori di spessore e personalità all’interno dello spogliatoio. I Mihajlovic, i Peruzzi, i Simeone, hanno sempre dato l’esempio. E noi li abbiamo seguiti. Avevamo la consapevolezza che con il nostro lavoro sul campo e con i risultati positivi, potevamo aiutare a risolvere i problemi. E abbiamo dato sempre il massimo».

Due aumenti di capitale, assemblee straordinarie, manifestazioni dei tifosi, stipendi pagati in ritardo. Onestamente ha mai pensato che alla fine la Lazio potesse fallire?

«Un po’ sì. Quando vedi che gli stipendi non arrivano, che aumenta l’incertezza e che fuori si dice tutto e il contrario di tutto, qualche brutto pensiero lo fai. Ma devo dirti la verità, noi abbiamo seguito Mancini che era il nostro punto di riferimento nello spogliatoio e nei rapporti con la società. E lui ci rassicurava sempre, dicendoci che in qualche modo la situazione si sarebbe risolta. E poi c’era il presidente Longo».

Quanto è stato importante il suo lavoro?

«Era sempre presente, sorridente. Una figura che ti dava tranquillità e che ti faceva sentire in famiglia. Ti rassicurava facendoti capire che tutto sarebbe andato per il verso giusto».

Con l’Italia ad Euro 2000 ha giocato mezz’ala, poi si è diviso tra trequarti campo, fascia e regia. Una volta per tutte, qual era il suo ruolo in campo?

«In quella stagione giocavo esterno a destra. Ma fu un modo molto particolare di interpretare il ruolo. Mentre a sinistra Cesar era un’ala pura, io a destra mi accentravo, duettavo con gli attaccanti, andavo spesso al tiro. Credo che fu uno dei segreti di quella Lazio».

La vittoria in Turchia all’esordio resterà l’unico successo in quell’avventura in Champions League. Si è chiesto perché?

«Purtroppo il cammino in Champions si interruppe troppo presto. Ci giocammo la qualificazione nella partita finale a Praga, contro lo Sparta. Una gara da dentro o fuori alla quale arrivammo con tanti problemi di formazione. Ricordo che giocò Gottardi, che non era un titolare fisso ed ebbe una grande occasione per segnare. Stava per scrivere, come aveva già fatto in passato, un’altra pagina di storia. Purtroppo nel finale prendemmo gol e passarono loro al turno successivo»

La rivincita arrivò in Coppa Italia.

«Portammo a casa quel trofeo, battendo in finale la Juventus. Fu la nostra rivalsa. E credo che alla fine fu giusto chiudere quella stagione con un successo».

 

 

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