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Vittorie in campo e da allenatore in seconda con i rossoneri ma Mauro coltiva dolci ricordi dei suoi anni romani
Le giovanili in maglia biancoceleste, l’esordio in Serie A, 41 presenze in due campionati e poi diciassette stagioni al Milan, dove è riuscito a vincere tutto. I rossoneri e i biancocelesti rappresentano gli unici due club in cui Mauro Tassotti ha militato. Le squadre che gli hanno dato l’occasione di affacciarsi e affermarsi nel mondo del calcio. Due percorsi imparagonabili: per anni, prestigio e successi. Due avventure differenti, ma che hanno lasciato nel cuore del difensore, nato e cresciuto a San Basilio, emozioni indimenticabili. «Con il Milan sono cresciuto, mi sono affermato e ho vinto tanto, ma sarò sempre grato al club biancoceleste perché mi ha formato, mi ha dato l’occasione di lanciarmi nel calcio professionistico. Chiaramente la mia storia calcistica e la mia vita si è poi formata a Milano, che è diventata casa mia, ma Roma e la Lazio sono nel mio cuore. Ancora adesso quando parlo di Lazio, o vedo i miei ex compagni mi emoziono. È successo all’Europeo, quando ho incontrato Bruno Giordano che faceva la telecronaca della gara dell’Ucraina».
«Io giocavo nella squadra del mio quartiere, il San Basilio, che era affiliata alla Lazio. Da lì sono entrato nelle giovanili biancocelesti. Avevo tredici anni. Ho fatto tutta la trafila e a diciotto ho fatto l’esordio in prima squadra».
«Era un calcio completamente diverso. A quei tempi in panchina andavano solo due giocatori e c’era una sostituzione a disposizione degli allenatori. Ricordo che il giorno della mia prima convocazione mi ritrovai in panchina con Sergio Clerici, un brasiliano che aveva 36 anni. Lui era esperto, io un ragazzino. In pratica passai dalla Primavera alla convocazione in Serie A, senza essermi quasi mai allenato con i grandi. A quei tempi funzionava così. Era la normalità».
«Come ti dicevo fui catapultato subito con i grandi: la convocazione, la prima panchina, poi gli allenamenti e infine l’esordio. Mister Lovati me lo disse solo la mattina della partita. Da qualche giorno si ipotizzava che potesse toccare a me, ma ebbi la certezza di scendere in campo solo poche ore prima del fischio d’inizio. Ricordo che marcai un attaccante che si chiamava Trevisanello, che la settimana prima fece una tripletta. Andò tutto bene: pareggiammo zero a zero. La difesa resse bene. Per me fu indimenticabile».
«Venni confermato in prima squadra e giocai la stracittadina. Per me fu molto particolare. I miei amici del quartiere erano tutti romanisti e spesso, da bambino, mi trascinavano allo stadio a vedere la Roma. Io la mattina giocavo con la Lazio e poi seguivo loro a vedere i giallorossi. Quel derby lo giocai con grandi motivazioni e fu una grandissima emozione. A venti minuti dalla fine sfiorai anche il gol con un tiro da fuori area: presi il palo».
«Una persona straordinaria. Una leggenda, amato da tutti. Gli altri giocatori avevano grande confidenza con lui, tanto che lo chiamavano Bob. Io arrivai in punta di piedi: per me era il mister. Una persona fantastica, che ha legato il suo nome alla Lazio. Gente come Wilson e Garlaschelli, con i quali aveva lavorato ai tempi di Maestrelli, lo consideravano come un secondo padre».
«Quando lasciai la Lazio per andare al Milan i rossoneri erano già in B, mentre i biancocelesti erano ancora in A, perchè la sentenza definitiva arrivò in un secondo momento. All’epoca i calciatori non erano ancora proprietari del loro destino. Erano le società che decidevano il loro futuro e tu ti ritrovavi a essere interpellato solo a cose fatte. Quando mi dissero che ero stato ceduto al Milan, la trattativa era stata già conclusa. Ma io accettai subito. I rossoneri l’anno precedente erano arrivati quarti in Serie A, e un paio di stagioni prima avevano vinto lo scudetto. Era forte la sensazione che dopo un anno di B, sarebbero subito tornati grandi. E così è stato».
«Quando arrivò Silvio Berlusconi. Era già noto come imprenditore. Aveva costruito Milano 2 e tanti poli industriali, ma non era ancora famoso come oggi. Il calcio gli ha regalato una visibilità mostruosa e lui è riuscito a creare una squadra incredibile. Dopo una stagione in cui arrivammo ottavi entrò nello spogliatoio e ci disse che saremmo diventati la squadra più forte. Non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Noi lo guardavamo stralunati, ma andò proprio così. Aveva una visione del futuro straordinaria».
«Aggiungiamo anche Filippo Galli, che era il quinto pilastro della nostra difesa. Abbiamo sfruttato la grande organizzazione di squadra che aveva creato Arrigo Sacchi e tutti quanti siamo migliorati, creando un’intesa che ci ha permesso di fare bene anche quando cambiò la guida tecnica».
«Senza dubbio alla prima Coppa dei Campioni vinta a Barcellona contro lo Steaua Bucarest. Negli anni successivi abbiamo conquistato tanti trofei e creato anche abitudine ai successi. Ma la prima Coppa non si scorda mai».
«L’esordio ad Ascoli, davanti a mio padre, nato nelle Marche e la prima all’Olimpico nel derby in una cornice incredibile».
«Da calciatore mai. Da tecnico ci fu una telefonata qualche anno fa con il presidente Lotito. Era il periodo in cui Reja aveva dato le dimissioni e il Presidente della Lazio provò a capire se fossi disponibile. Fu una cosa che mi fece molto piacere».
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