Sergio Manente, gentleman del football

Sergio Manente, gentleman del football

È il prototipo del terzino moderno, un’icona della Juve degli anni ‘50. Il suo rito scaramantico resta qualcosa di unico: fare autogol  

Redazione Edipress

30.03.2021 12:53

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Terminata la Grande Guerra, in Italia nasce una crisi di sistema: le istituzioni liberali sono ormai troppo fragili, iniziano durissime lotte sociali e sindacali che portano al Biennio rosso. Intanto, si consolida sempre di più il Partito Nazionale Fascista creato da Benito Mussolini, conservatore e nazionalista. Nel 1924, in un clima di violenze e irregolarità, si svolgono le elezioni politiche: il PNF ottiene il 66,5% dei voti e Giacomo Matteotti, deputato del Partito Socialista Italiano, denuncia gravi brogli elettorali. Viene rapito e ucciso. È l’inizio della dittatura. Intanto, in Europa, l’Unione Sovietica piange il defunto Lenin, mentre a Landsberg am Lech, in Germania, un 35enne con il sogno di riunificare tutte le etnie tedesche in un'unica razza, lascia il carcere per buona condotta. È in questo periodo interbellico che a Udine nasce Sergio Manente, uno dei terzini più forti della storia del calcio italiano.

Gli esordi

Tecnica impareggiabile, classe sopraffina e un’umanità gigantesca caratterizzano questo irripetibile giocatore. Cresce nelle giovanili dell’Udinese e fa il suo debutto in Serie B nella stagione 1942-43. La coppia di terzini titolari sarebbe Clocchiatti e Pressacco, ma essendo tempo di guerra entrambi vengono richiamati sotto le armi: l’allenatore Gino Bellotto, subentrato a stagione in corso a Ferenc Molnar, si affida a Manente. È l’inizio di una carriera straordinaria. Si vede da subito che Sergio è un predestinato. Il conflitto, però, costringe il mondo dello sport a fermarsi fino al 1945. Terminata la guerra si torna in campo. Manente viene soprannominato “Scove” per via del lavoro del padre, commerciante di scope, e in campo mette tutti d’accordo: è il prototipo del terzino moderno. Ha letteralmente due piedi, gli avversari non sanno se sia destro o mancino: è fluidificante, un lusso per il calcio di quei tempi. Spinge così tanto da far male anche nell’area avversaria, appoggia sempre la manovra e spesso arriva fino in fondo a calciare, di collo pieno o di esterno. A questo ci aggiunge un gran colpo di testa e uno straordinario tiro al volo, oltre al fatto di essere anche molto capace a tirare i rigori. Nel 1946 passa all’Atalanta in cambio di Zarlati, il suo allenatore è Luis Monti, “El Doble Ancho” argentino. Dopo due stagioni arriva la chiamata che gli cambia la vita, quella della Vecchia Signora.

Cuore bianconero

Al primo anno, sotto la guida dello scozzese William Chalmers, fonda le basi per diventare uno dei giocatori simbolo dello “stile Juventus”. Un gentiluomo che fa del fair play la sua arma vincente, un calciatore che non ha bisogno di mettersi in luce. Amico di tutti, specialmente di Boniperti, pacato e poco amante dei riflettori. Sa stare al suo posto e non ha problemi a cambiare ruolo: inizialmente gioca a destra al fianco di Rava, poi va a sinistra per fare spazio a Bertuccelli. Ha una forza straripante, eppure gioca sempre con il cervello, prima che con le sue doti fisiche. Vince due scudetti: nel 1949-50, riportando il Tricolore in casa Agnelli a distanza di 15 anni, e nel 1951-52. Con il passare degli anni acquisisce esperienza e non solo, diventando un punto di riferimento per i compagni in campo, ma soprattutto in allenamento. Migliora tutti i suoi colleghi sotto l’aspetto tecnico, tattico e sotto quello del comportamento. Un vero gentleman del football che, spesso, è solito inventarsi qualcosa di unico: un autogol.

Rito da leggenda

Ogni giocatore è scaramantico a modo suo. C’è chi infila prima lo scarpino sinistro, chi entra in campo sempre col piede destro, chi si fa il segno della croce. Negli anni se ne sono viste molte, ma il rito di Sergio Manente resta il più strano di sempre. Quando la sua squadra è in vantaggio di parecchi gol (e con un attacco formato da Boniperti, Hansen, Praest e Muccinelli capita spesso) trova il modo di fare un sacrificio per ringraziare gli Dei del calcio: la vittima è il proprio portiere, Giovanni Viola. A un certo momento della partita alza la mano, come a indicare che mancano cinque minuti al suo gesto scaramantico. Esattamente 300 secondi più tardi, spesso in pallonetto, realizza l’autogol anti sfortuna tra le imprecazioni del suo portiere, sempre voglioso di chiudere l’incontro da imbattuto.

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