Il Torino e la sovrapposizione tra storia e sentimento

Dalla fondazione, avvenuta nel 1906, a Urbano Cairo passando per il Grande Torino: il sentimento granata è un patrimonio storico e sportivo del quale i tifosi, tra lacrime di sofferenza e di gioia, sono gli unici, autentici depositari

Redazione Edipress

30.03.2021 ( Aggiornata il 30.03.2021 12:52 )

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Vecchio cuore granata. È così, con queste tre parole messe in fila, che si cerca di dare sintesi a una storia, una tifoseria, un sentimento che si coagula intorno a una squadra che in cento anni abbondanti di vita (fu fondata nel 1906) ha regalato, a giornalisti alla caccia continua di notizie ma, forse ancor di più, a scrittori alla ricerca di storie intense da raccontare, innumerevoli spunti di narrazione: il Torino.

Una società che, sin dagli albori, si connotò per una caratteristica: quella del contrasto. Tra i soci fondatori del sodalizio granata, infatti, c’erano individui che provenivano dalla Juventus, che dai bianconeri si erano distaccati per conflitti che, evidentemente, avevano deciso di non lasciare annegare nell’indifferenza o nella sconfitta. Si appropriarono del nome della città, lasciato libero da coloro che, sportivamente, erano cugini, mettendo un’ipoteca sulla maggioranza dei tifosi che nei decenni successivi avrebbero sostenuto quella nuova formazione: gli strati medio-bassi di una città industriale per vocazione.

Già, perché a Torino come a Milano, Genova e Roma, le squadre che hanno scelto di portare il nome della città hanno attratto le simpatie viscerali della gente che, per censo e per sentimento, si sente più legata al proprio territorio. Come se identificarsi nel nome della propria città aiutasse a sentirsene più parte, nell’illusione di riuscire a incidere maggiormente nelle sue vicende, a essere più facilmente riconosciuti, sottratti all’anonimato di vite vissute spesso ai margini di contesti più rilevanti.

Tifosi che nell’intensità del colore dei loro vessilli hanno versato lacrime di gioia e dolore. Lacrime che sapevano di sale, come quelle conseguenti alle sconfitte più dolorose, alle troppe retrocessioni nelle quali una squadra blasonata come il Toro è incespicata. Lacrime che sapevano di sangue, come quelle inconsolabili sgorgate per giorni, mesi, anni dopo lo schianto di Superga, che sottrasse agli occhi del mondo la celebrazione del gioco del calcio in una delle sue più compiute espressioni di forza e di bellezza: Bacigalupo, Ballarin, Maroso… chissà se il Grande Torino avrebbe potuto accelerare la ripresa post-bellica dell’Italia. Una domanda alla quale il destino ha impedito alla storia di avere una risposta. Lacrime singhiozzate come quelle che 20.000 persone riunite per l’ultimo saluto versarono per Gigi Meroni, splendida, irripetibile, volteggiante ala destra figlia degli afflati creativi degli anni Sessanta, altra ferita che il fato inflisse senza possibilità di conforto al mondo granata.

 E poi le lacrime di gioia: quella gioia che, nelle sue vibrazioni profonde, diventa pianto. Quello del 16 maggio 1976, quando lo scudetto tornò sulle maglie granata ventisette anni dopo la scomparsa del Grande Torino. Un pianto manifesto nell’esultanza commossa del "Giaguaro" Castellini, soffocato nelle parole non dette di Gigi Radice, misto ai sorrisi e agli abbracci di tifosi finalmente riappropriatisi di una vittoria lasciata troppo a lungo rinchiusa negli armadietti degli spogliatoi.

Il Toro di ieri e quello di oggi: il Toro del "Mondo" che alza contro il cielo la sedia nella finale di Coppa Uefa contro l’Ajax e quello di Mazzarri che borbotta per ricominciare la scalata; il Toro di Annoni, Bruno e Policano e quello di Belotti, Rincon e De Silvestri. Il Toro di Pianelli e quello di Cairo, speranza soffusa di una tifoseria che merita di tornare a gioire, depositaria esclusiva di un patrimonio emotivo che accompagna da sempre la storia delle maglie granata.

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