K2: una ferita lunga 50 anni

K2: una ferita lunga 50 anni

Il 31 luglio 1954, l’Italia conquistava la seconda vetta più alta del mondo. La verità di quell’impresa, però, è stata nascosta per mezzo secolo

Redazione Edipress

31.07.2019 ( Aggiornata il 31.07.2019 18:15 )

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Negli anni ’50, scalare gli 8000 è un affare di Stato. Ogni nazione sogna di piantare la propria bandiera su una delle 14 vette più alte del mondo. La Francia conquista l’Annapurna nel 1950, nel 1953 il neozelandese Edmund Hillary sale insieme al nepalese Tenzing Norgay sulla cima dell’Everest e pochi mesi più tardi Hermann Buhl, con un exploit formidabile, arriva in solitaria e senza ossigeno sul Nanga Parbat. Il K2, invece, nel 1954 è ancora vergine: gli statunitensi si sono fermati poco sotto gli 8000 metri l’anno prima, ora tocca alla spedizione italiana guidata da Ardito Desio.

L’Italia esce dalla guerra con le ossa rotte e ha un disperato bisogno di eroi: la spedizione parte il 20 aprile da Ciampino e fino a fine luglio i 13 alpinisti scelti da Desio allestiscono i campi in alta quota per permettere l’attacco finale alla cima. Gli sforzi sono sovrumani, il clima è gelido e la tragedia è dietro l’angolo. Mario Puchoz muore nelle prime fasi della spedizione per un edema polmonare: resistere a quelle quote è un’autentica impresa. Tra gli alpinisti scelti da Desio, il più giovane è Walter Bonatti: ha soli 24 anni, che compie durante la permanenza sul Karakorum, ma è già considerato uno dei più forti. Ha una tempra fisica granitica, è umanamente puro: il suo immenso talento e la sua lucidità mettono a disagio anche i più esperti, in particolare Achille Compagnoni, il braccio destro di Desio. Walter sa che tra la roccia, la neve e il ghiaccio ci si lega per la vita e per la morte. Si fida degli altri, ma la montagna, più diventa difficile, più butta giù la maschera delle persone. Walter sogna, spera di arrivare in cima. Gli ordini però sono altri: la cordata designata dal capo spedizione per raggiungere gli 8611 metri del K2 è quella formata da Compagnoni e Lino Lacedelli. Il 30 luglio, al campo VIII, a 7627 metri, si studia il piano d’attacco per salire in vetta: Bonatti ha il compito di recuperare le bombole d’ossigeno al campo VII, 300 metri più in giù. Compagnoni e Lacedelli montano il campo IX oltre quota 8000, nella “zona della morte”, per tentare l’assalto finale il giorno seguente. Walter scende alle 8 del mattino, dopo due ore di preparativi, con Pino Gallotti. Alle 10.30 risalgono insieme ad Erich Abram e agli hunza Isa-Kahn e Mahdi. Alle 13 sono di nuovo al campo VIII, Compagnoni e Lacedelli no: dovrebbero essere su, in tenda a quota 8100, ad aspettare le bombole che qualcuno dovrà portare.

Bonatti, Mahdi e Abram salgono verso il campo IX, ma presto rimangono in due: Abram ha un principio di congelamento e fa dietrofront. 80 metri di dislivello all’ora. Un passo e una sosta. L’aria è rarefatta, troppo sottile per soddisfare i polmoni: ogni respiro è un graffio alla gola, chi si trova lì ha fame di ossigeno. Sulle spalle, inoltre, ci sono i basti con le bombole: 18 chili, un macigno a quelle altitudini. Non ci si può fermare, la vetta va conquistata. Con uno sforzo sovrumano, Bonatti e Mahdi raggiungono il punto prestabilito, ma di Compagnoni e Lacedelli non c’è traccia. Dopo oltre nove ore di fatiche senza bere acqua dalle 15.30, Walter trova le forze per gridare sperando di trovare i suoi “amici” e di individuare la tenda, la salvezza. Niente. La notte si avvicina, il buio oscura il Karakorum e la bufera è prossima ad arrivare. Bonatti e Mahdi sono immobili: non possono più scendere, ma non sanno neanche dove andare. Soprattutto, bisogna consegnare le bombole. Non c’è alternativa: bisogna bivaccare lì, all’addiaccio, senza tenda né sacco a pelo, senza torcia, con solo il piumino indosso e la speranza di vedere la luce dell’alba. Walter e l’hunza sono su uno scivolo di ghiaccio, ripidissimo. Sopra le loro teste un enorme, imponente seracco, che suona una musica angosciante: scricchiolii e rumori spaventosi. Potrebbe staccarsi da un momento all’altro e portare via con sé quei due puntini sottostanti. Addormentarsi, in quelle condizioni, vorrebbe dire non svegliarsi più. A colpi di piccozza Bonatti scalfisce il ghiaccio per creare un mini gradino sul quale poggiarsi insieme a Mahdi, che ormai è impazzito. Walter prova a calmarlo, ma sembra impossibile. I due neanche hanno una lingua in comune. Per far circolare il sangue, si battono la piccozza sui piedi. L’angoscia di non vedere la luce del giorno è una gelida realtà a 30 gradi sotto zero. All’improvviso, una luce dispersa nel buio alla loro destra: a un centinaio di metri c’è Lino Lacedelli, che li invita a lasciare lì le bombole e a scendere. Impossibile a quell’ora. Mahdi si fionda verso la luce, Walter lo trattiene. La luce poi scompare definitivamente. Bonatti è convinto che quei due lassù stiano venendo a salvarli. Non è così. Non può neanche raggiungerli: non sa dove si sono nascosti e Mahdi non è in grado di ragionare. Non c’è tempo per farsi domande sul comportamento di Compagnoni e Lacedelli: bisogna sopravvivere. La neve sotterra le bombole e Walter le tiene in vista: sono il motivo di quella lotta contro la morte, che sta combattendo affinché l’Italia possa violare la seconda vetta più alta del mondo. Bonatti salva Mahdi dal baratro e aspetta l’aurora, che arriva scaldando il cuore e l’anima di Walter. I raggi del sole definiscono l’orizzonte, danno vita e speranza: è giorno.

È il 31 luglio 1954. L’hunza rientra al campo VIII stravolto, irriconoscibile, con le dita delle mani nere e congelamenti avanzati ai piedi. Abram e Gallotti sono attoniti, preoccupati per Walter, rimasto sotto al Collo di bottiglia a sincerarsi che Compagnoni e Lacedelli avessero visto le bombole. Gli stessi che dopo aver raggiunto la vetta non lo ringrazieranno mai per quell’incredibile sacrificio, per quel gesto di infinita umanità. Bensì lo accuseranno di aver rubato l’ossigeno, nonostante avessero loro l’erogatore e le maschere.

Il K2 è conquistato: in Italia si esulta. Al campo VIII Bonatti non cerca nessun confronto, gli basterebbe una pacca sulla spalla. Non arriva. Nessun ringraziamento da parte di quei due e nessuna menzione del suo fondamentale apporto nel rapporto ufficiale di Ardito Desio, che ascolta solo la verità di Achille Compagnoni, quella falsa: la vetta è stata raggiunta senza l’ausilio dell’ossigeno. Quella notte del 31 luglio 1954 per Bonatti non finisce al mattino, ricomincia dieci anni più tardi con lo scoppio del “caso K2”. Un’ingiustizia contro la quale Walter ha dovuto lottare per oltre 50 anni, a costo di gettarsi addosso bufere d’invidia, che lo feriscono più di quell’interminabile bivacco all’addiaccio. Non vuole dare importanza al suo gesto, ma preme per l’ufficialità della storia. Arriverà solo nel 2007. La ferita, lunga mezzo secolo, lacererà nel profondo l’animo di un atleta irripetibile, di un ragazzo generoso che diventerà un uomo straordinario. Un gigante della vita, prima che dello sport. Una ferita curata con la solitudine, alla ricerca di una cima da violare non per raggiungere la vetta e la gloria, ma per scalare se stesso.

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