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È tutto oro quel che luccica in Serie B?© LaPresse

È tutto oro quel che luccica in Serie B?

Alla scoperta del campionato cadetto più affascinante degli ultimi anni

Luca Pulsoni

18.07.2022 17:43

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Stando a numeri, statistiche e palmares, il prossimo campionato di Serie B si presenta come uno dei più blasonati della storia. In campo scenderanno venti squadre in rappresentanza di quattordici regioni (isole comprese) e sei capoluoghi di regione. Un torneo impreziosito da dieci scudetti, i nove del Genoa più il tricolore del Cagliari, e quattro titoli europei, tutti nella bacheca del Parma. Soltanto tre club, inoltre, non hanno mai conosciuto la Serie A: si tratta di Cittadella, Cosenza e Sudtirol. Se a questo aggiungiamo le 34 vittorie del campionato di B e le cinque Coppe Italia, il giudizio non può che essere unanime: siamo di fronte a uno dei campionati cadetti più prestigiosi di sempre dopo la storica - quanto atipica - stagione 2006/2007, quella del post Calciopoli e delle promozioni di Juventus, Napoli e Genoa.

Una vera e propria Serie A2

Sono almeno sette le squadre che puntano al ritorno nel massimo campionato: le nobili decadute Genoa e Cagliari (quanti benefici il paracadute da 25 milioni), il derelitto Parma di Buffon ma anche Pisa (sconfitto nell’ultima finale playoff dal Monza), Brescia, Benevento e Frosinone. Ambizioni e rinnovato entusiasmo anche per Bari, Palermo e Modena, promosse dalla Serie C insieme alla matricola Sudtirol - prima squadra trentina ad approdare tra i cadetti -, che hanno aggiunto prestigio e qualità a un torneo che già abbondava di tradizione.

A primo acchito si tratta, come detto, di un campionato d’elite in cui non esiste una vera e propria classe media. Una sorta di ‘Serie A2’, come lasciato intendere del presidente del Coni Giovanni Malagò: «Non voglio mancare di rispetto alle altre squadre per dire che tra le piazze di Serie B ci saranno molti capoluoghi di regione e club che hanno militato a lungo in Serie A con una lunga storia calcistica». Il numero uno del Coni sorvola però su una domanda che parrebbe legittima: quali sono le cause che hanno portato alcuni dei club più blasonati d'Italia a sgomitare in Serie B piuttosto che in Serie A? E ancora: il calcio italiano può permettersi piazze da 20-30 mila spettatori tra i cadetti privando il massimo campionato di un numero così importante di tifosi e appassionati?

Tra fallimenti, conti in rosso e tribunali

È nelle pieghe di un torneo che fa sempre più gola a sponsor e tv che si celano i problemi atavici del calcio italiano. Quasi la metà delle venti squadre in organico viene da almeno un fallimento negli ultimi quindici anni: si va dal crac del Pisa del 2009 al fallimento del Palermo del 2019. Nel mezzo storie di debiti, conti in rosso e istanze di tribunali. Il “campionato degli italiani” - parafrasando lo slogan della Lega B - vedrà ai nastri di partenza l’Ascoli, fallito nel 2013, il Bari, fallito nel 2014 e nel 2018, il Como (2017), il Cosenza (2013), il Modena (2018), il Perugia (2010), il Parma (2015) e la Spal (2012). A queste si aggiungono Reggina e Venezia, escluse dalla Lega Pro 2015/2016 a causa di debiti ingenti e ripartite dalla Serie D grazie al salvagente del “merito sportivo”.

La Serie B è diventata dunque la frontiera verso un nuovo inizio, a metà tra l’inferno della Lega Pro e del dilettantismo e il paradiso della Serie A. Lo specchio della malandata industria italiana del pallone. La cancellazione della vecchia Serie C2 (poi Lega Pro Seconda Divisione) ha eliminato un filtro efficace tra dilettanti e professionisti. L’attuale Serie D non è in grado di reggere la forza economica delle grandi piazze precipitate dalle categorie superiori. Le recenti cavalcate - tra le altre - di Cesena, Bari e Palermo verso la C ne sono la dimostrazione. Non meglio riesce a fare proprio la Serie C, campionato funestato da scandali, penalizzazioni e mancate iscrizioni, che si è spesso rivelata un sentiero tutt’altro che arduo da percorrere. La B è quindi il naturale approdo di quei club rinati dalle ceneri di gestioni fallimentari e vogliosi di riprendersi il proscenio della Serie A.

L'intasamento della B è logica conseguenza delle fragilità di C e D, oltre che di un sistema che non fornisce un'adeguata barriera all'ingresso nel calcio professionistico. Il rischio per le nobili decadute è quello di restare ingarbugliate nel campionato cadetto, sempre più incerto e incline ai colpi di scena. Le sole tre promozioni appaiono strette rispetto alle ambizioni di gran parte dei club in organico. Il meccanismo dei playoff, allargati dalla terza fino all’ottava squadra in classifica, non riesce a sopperire al problema. La Serie B può trasformarsi in un pantano dal quale risulta difficile venire fuori, oltre che un torneo di gran lunga meno competitivo rispetto alla A. Lo conferma il dato che vede dodici neopromosse retrocesse in B negli ultimi sette campionati di Serie A. Significa che, numeri alla mano, una neopromossa in A ha poco più del 40% di possibilità di salvarsi.

 

I capitali stranieri alla conquista di un sistema vecchio

Nel corso degli ultimi anni, a risollevare le sorti di alcuni club storici precipitati nell’inferno dei dilettanti sono state proprietà straniere. Nella Serie B 22/23 se ne contano addirittura otto. A farla da padrone sono gli americani, proprietari di Genoa, Parma, Venezia, Pisa e Spal. A stelle e strisce anche il socio di minoranza dell’Ascoli, detenuto per il 31% da North Sixth Group. Parlano straniero anche il Como della famiglia indonesiana degli Hartono - a capo di un impero da 40 miliardi di dollari l’anno - e il Palermo, fresco di acquisizione da parte del City Football Group.

Proprietà che hanno portato capitali freschi ma che sono ancora in attesa di un ritorno di redditività, garantito per forza di cose dal salto in Serie A. In tal senso, risulta ancora abissale la differenza di profitto tra A e B. Alcune stime parlano di una media di 8 milioni di euro percepiti dai club cadetti per la cessione dei diritti tv. La promozione in Serie A - secondo alcuni dati riportati da Calcio e Finanza - varrebbe 16 milioni in più. Il tutto senza contare l’incremento dei ricavi (seppur marginale rispetto ai diritti tv) da sponsor e botteghino. Imbarazzante il paragone con l’Inghilterra, in cui il salto dalla Championship alla Premier League porta nelle casse dei club circa 200 milioni.

Le proprietà straniere della B si trovano di fronte a un altro dei problemi annosi del nostro calcio, quello relativo alle infrastrutture. Drammatica la situazione impianti: gli stadi della prossima Serie B hanno un’età media di 69 anni (al netto degli immancabili interventi di riqualificazione). Due quelli costruiti addirittura prima della Prima Guerra Mondiale: il Ferraris di Genova (1911) e il Penzo di Venezia (1913). Soltanto il maxi parcheggio della Unipol Domus di Cagliari e lo Stirpe di Frosinone (unico di proprietà da parte della società) sono stati inaugurati negli anni 2000. Il problema strutture esiste ed è ancora più accentuato tra i cadetti. Non si può pensare di valorizzare un prodotto senza il packaging adatto. La Serie B degli stadi vecchi e fatiscenti non gioca a favore della crescita del sistema calcio, soprattutto se paragonato agli impianti del resto del continente.

C’è poi un altro aspetto che riguarda i tifosi. Secondo il sito specializzato Stadiapostcard, nell’ultima stagione di Serie B sono stati in media 4.129 gli spettatori presenti sugli spalti, seppur il dato sia stato ‘inquinato’ dalle restrizioni anti Covid. Nella stagione 2018/2019, l’ultima prima della pandemia, la media era stata di 7.365. Nell’ultimo campionato soltanto il Lecce ha superato la media di 10 mila spettatori. Emblematico, anche in questo caso, il confronto con il resto d’Europa: la Championship inglese (dati Transfermarkt) ha portato allo stadio in media oltre 16 mila persone (prima della pandemia il dato superava i 20 mila spettatori), la Liga2 spagnola 7.277 (pre pandemia 10.490) e la Ligue 2 francese 5.542 (pre pandemia 6.861). Numeri che ricalcano quelli della Serie A e che confermano l’allontanamento sempre più accentuato dei tifosi italiani dagli stadi. Le retrocessioni di Genoa e Cagliari e le promozioni di Bari e Palermo daranno senz’altro nuova linfa ai botteghini.

La Serie B come "laboratorio del calcio italiano"

A fare da contraltare ai numeri appena riportati è però la crescita del campionato in termini economici e di visibilità nelle ultime stagioni. Lo scorso anno la Lega B ha incassato 48 milioni di euro dalla vendita dei diritti tv contro i 24 del ciclo precedente. A detenere l’esclusiva fino al 2023/2024 saranno Sky, Dazn e Helbiz. Calcio e Finanza ha stimato inoltre che, con le retrocessioni di Genoa e Cagliari e le promozioni di Palermo e Bari, la Serie B ha visto incrementare il proprio bacino d’utenza del 67%.

Sulle colonne del Secolo XIX il presidente della Lega B, Mauro Balata, ha detto che «il parterre di società si è ulteriormente impreziosito con storie calcistiche di primo livello» e che «l’impegno è di consolidare tutto ciò in un momento economico non facile». Balata, commentando le recenti convocazioni del CT Roberto Mancini, ha aggiunto che c’è «un impegno massimo per sviluppare strategie per rendere la Serie B il vero laboratorio del calcio italiano». Nell’ultimo stage azzurro, 18 calciatori su 54 provenivano proprio dal campionato di Serie B. Soltanto due però quelli scesi in campo: Gatti e Zerbin, entrambi del Frosinone.

Siamo allora di fronte alla domanda fatidica: qual è il vero volto della Serie B? È davvero, il campionato degli italiani, l'isola felice di milioni di tifosi e decine di città tornate a respirare aria di grande calcio dopo anni di sofferenze o soltanto una tappa di un cammino lungo e tortuoso tra i crinali del malandato calcio italiano? La Serie B ha già imboccato la via del cambiamento. Il passo definitivo sarà quello di garantire qualità e competitività al campionato e ridurre il gap tecnico ed economico con la Serie A. Inevitabile, infine, anche una riflessione sulla Serie C. Molti indicano nel semiprofessionismo la soluzione agli annosi problemi che affliggono le squadre di Lega Pro. L'unica certezza è che, per il nostro calcio, la necessità è quella di ridare credibilità al sistema ripartendo dal basso.

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