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Per andare oltre l'ideologia delle opposte fazioni: risultatisti vs giochisti
Già da tempo il celebre dibattito risultatisti vs giochisti ha trasceso il rettangolo verde per entrare nei salotti, più o meno buoni, del calcio nostrano: in prima pagina sui giornali, in cima alla scaletta dei talk sportivi in televisione, trend topic sui social network. Un bipolarismo che rispecchia una società lacerata, abituata ormai alla prassi delle opposte fazioni, e che vede scontrarsi due partiti di massa sempre più radicalizzati: il primo, quello dei “risultatisti”, più conservatore, legato alle radici e alla tradizione italiana; il secondo, quello dei “giochisti”, più progressista, esterofilo e globalizzato.
Una vera e propria guerra senza quartiere che ultimamente si è manifestata nello scontro di mondi Simeone vs Guardiola: da un lato le milizie brutte, sporche e cattive del Cholo, scamiciate e catenacciare; dall’altro gli interpreti belli, buoni ed eleganti agli ordini di Pep, danzatori classici immacolati nella loro maglia light blue. Come accade spesso nelle guerre però, seppure simulate o dialettiche, la prima vittima è la verità. E così negli ultimi tempi se ne sono dette tante, forse troppe, e alcune anche un po’ a sproposito.
Prima, durante e dopo il doppio confronto europeo erano stati gli stessi Simeone e soprattutto Guardiola a gettare acqua sul fuoco della polemica. «Questo è un dibattito stupido. Lui vuole vincere, io voglio vincere. Chi vince ha ragione», aveva in un primo momento tagliato corto Pep, rimproverando poi i giornalisti di aver montato ad arte la polemica con tutte quelle storie sul 5-5-0 (presunto) “preistorico”: «mi avete attribuito cose che non ho detto. Basta parlare di stili. Non ha vinto nessuno stile». Eppure le rispettive truppe erano sul piede di guerra, in una contrapposizione rappresentata plasticamente dal botta e risposta (indiretto) tra Sacchi e Capello: il primo intervistato sulla Gazzetta, l’altro sul Corriere dello Sport.
Se Sacchi ha parlato di “spartito”, di gioco propositivo (da incentivare) e di calcio vecchio (da superare, quello di Simeone), Capello ha risposto con un elogio della tradizione italiana: non tanto il difensivismo fine a se stesso, quanto piuttosto lo spirito di adattamento ai differenti contesti e alle varie partite. Una dicotomia mostrata anche ai tempi del Milan, sulla cui panchina i due tecnici si successero raccogliendo risultati simili – entrambi vinsero e molto, Sacchi due Coppe dei Campioni e un Campionato, Capello una Coppa dei Campioni e quattro Campionati – ma proponendo due “filosofie” radicalmente differenti.
Qui tuttavia entriamo nella critica del giudizio, nella sfera delle preferenze personali; o almeno, così dovrebbe essere. Il problema è che ultimamente si è preteso di sciogliere la questione trasformando un dibattito soggettivo in una questione oggettiva: pensiamo a chi ha accusato i vari Allegri, Mourinho, Simeone, anche Ancelotti di praticare un calcio “superato” dalla storia, incapace di stare al passo con i tempi, frutto di un approccio passatista, novecentesco e reazionario. Così la controversia da estetica è divenuta anche etica: il calcio di Guardiola oltre ad essere bello è buono, quello di Simeone oltre ad essere brutto è cattivo; roba da far invidia alla καλοκαγαθ?α greca. Un presupposto dogmatico, quasi messianico, che tuttavia si alimenta anche di falsi miti, come quello secondo cui gli allenatori “risultatisti” non svilupperebbero le risorse interne di un club, cercando invece dispendiose scorciatoie per provare a vincere.
Per dirla con Sacchi: «l’Atletico ha elementi di qualità ma anziché comprare i giocatori, e spendere tanti soldi, avrebbe dovuto acquistare il gioco». Tralasciando il fatto che lo stesso tecnico romagnolo non avrebbe mai potuto segnare un’importante rottura nel calcio europeo, secondo molti un’autentica rivoluzione, senza gli straordinari interpreti avuti al Milan, il punto è un altro: messa così, con l’esaltazione di Guardiola e la condanna senz’appello di Simeone, sembra che il primo sia un manager capace di valorizzare e far progredire un club, in un “percorso” oltre che vincente anche sostenibile; il secondo invece un rappresentante di uno stile che «non dà gioia neanche quando vinci», per cui «non si raggiunge mai il successo con merito, ma sempre con furbizia» (parola di Sacchi), costretto in ultima istanza a demandare al mercato i sogni di gloria e la costruzione di una squadra vincente.
Insomma, da un lato un costruttore che ha un progetto di crescita per il club, dall’altro un dispersore che mette pressione alla proprietà per assicurarsi i pezzi pregiati sul mercato, puntando solo al traguardo e non al cammino – come se l’Atletico, nell’ultimo decennio, non fosse diventato un “top club” grazie a Simeone.
Ma andando oltre la narrazione e le inclinazioni personali, sono le cifre che fanno fede: da quando è arrivato Guardiola (2016) il City ha investito sul mercato oltre 1 miliardo di euro, con entrate pari a circa 400 milioni (dati Transfermarkt), per un passivo che recita -652 milioni; quello dell’Atletico, negli stessi sei anni e sempre nella bilancia tra acquisti e cessioni, segna -35 milioni. Ciò significa non solo che sul mercato trasferimenti Simeone costa alla proprietà dell’Atletico Madrid circa un ventesimo di quanto Guardiola pesi su quella del City, ma anche che il Manchester City, dopo lo United (-670 milioni dal 2016 al 2022), ha il peggior passivo sul mercato trasferimenti del pianeta – ben più pesante addirittura di quello del PSG, che nello stesso periodo si “ferma” a circa -455 milioni.
Questo per dire cosa? Forse per avanzare una critica a Guardiola? Assolutamente no, tutt’altro, solo per dimostrare che le idee, in particolar modo ad alti livelli, da sole non bastano; e che il “bel gioco”, se si vuole puntare ai trofei più prestigiosi, non paga senza gli investimenti sul mercato. Basterebbe tornare all’economia – quasi marxianamente, per una volta – per andare oltre l’ideologia e capire su cosa si fondino veramente i rapporti di forza: non sulla teoria degli stili di gioco, più o meno belli e buoni, ma innanzitutto sulla pratica dei buoni giocatori.
Poi sia chiaro, gli allenatori hanno un ruolo cruciale nella costruzione di una squadra, ma anche qui ci sono modi alternativi per colmare il gap tecnico con gli avversari: c’è chi ricorre a un calcio offensivo e propositivo, come il Napoli di Sarri, autore del record di punti in Serie A, o l’Ajax di ten Hag, che ha creato e valorizzato un’identità tecnica e tattica. Ma c’è anche chi ribalta le gerarchie con uno stile di gioco più “speculativo”: dal Lille di Galtier, che ha conquistato la Ligue 1 in Francia con la migliore difesa d’Europa, allo stesso Atletico Madrid, che con il suo stile ha vinto due Liga, due Europa League e ha raggiunto due finali di Champions; dal Villarreal, che ha trionfato in Europa League e avanza in Champions con un atteggiamento “reattivo”, allo stesso Leicester di Claudio Ranieri, che ha scritto la più grande favola del calcio contemporaneo affidandosi, soprattutto negli ultimi mesi, a un italianissimo catenaccio e contropiede.
E anche volendo prendere i risultati in Champions, nell’ultimo decennio hanno vinto sostanzialmente sempre le squadre più forti, non quelle che giocavano meglio: 4 volte il Real Madrid (una con Ancelotti e tre con Zidane, non certo due talebani del gioco propositivo), 2 volte il Bayern (di Heynckes e di Flick, entrambi tedeschi tradizionali), una volta il Barcellona del tridente Messi, Neymar, Suarez, un’altra il Liverpool di Klopp e così via, fino all’anno scorso in cui Guardiola si scontrò con il muro blu del Chelsea, ottimamente messo in campo da Tuchel; il tutto con intrusi “difensivisti” a contendersi in più occasioni la vittoria finale, come la Juventus di Allegri e l’Atletico del Cholo (due volte a testa).
Insomma al di là delle etichette – che lasciano il tempo che trovano, e che stroncano la discussione sul nascere – il problema è che si è voluta trasformare una discussione di stili in un’equazione matematica dall’unico procedimento possibile. Ma per quanto in molti se lo augurino, il calcio non è una scienza esatta; con buona pace di Nagelsmann ad esempio, allenatore del Bayern Monaco, che pochi mesi fa si augurava di poter telecomandare i giocatori con degli auricolari come nel football americano, e che poi è stato eliminato da quel vecchio volpone di Emery con la preistorica strategia della difesa e del contropiede.
Poi sicuramente le vittorie si possono preparare, facilitare, costruire: certo con gli stili di gioco, che tuttavia devono restare mezzi e non fini, ma anche in tanti altri modi, primo su tutti l’acquisto sul mercato dei giocatori migliori e l’ingaggio degli allenatori più bravi. Ciò nonostante, una stagione calcistica non è mai il business plan di un’azienda: in agguato c’è sempre il mazzo degli imprevisti per citare Allegri (ambientali, psicologici, fisici, pratici), che si possono ridurre ma mai eliminare del tutto. Per questo il pallone non potrà mai identificarsi con un calcolo, un algoritmo o una proiezione, per quanto accurati possano essere: per questo e perché banalmente, nel calcio, alla fine vince uno solo.
L’unica legge, quella del risultato. Lo ha ripetuto anche Guardiola, che già da tempo ha rinnegato il tiki-taka e ormai non ne può più di essere Guardiola: il profeta, il teorico, il rivoluzionario, il personaggio; l’intellettuale che pensa talmente tanto a tattiche e schemi da andare in “over-thinking”, come dicono in Inghilterra. Eccolo invece che torna all’essenziale, sfilandosi da un dibattito che ha perso la misura: «Chi vince ha ragione, stop». Altro che il maestro Bielsa, lui sì davvero icona “giochista”, secondo il quale «dovrebbe esserci una punizione per chi ignora la bellezza del gioco per ottenere la vittoria. Noi non dobbiamo offrire solo i risultati, ma anche il calcio come elemento estetico». Bei propositi, certo, ma ci sarà un motivo per cui Bielsa ha vinto solo tre campionati argentini e un oro olimpico in oltre 30 anni di carriera da allenatore.
Insomma, che il City in Europa sia pronto per vincere sul campo (e non fuori) lo si è visto anche dal secondo tempo di Madrid, nel quale gli uomini di Guardiola si sono difesi nella propria metà campo come fossero dei Colchoneros qualsiasi. Perché il procedimento cambia e ogni squadra ha il suo – le migliori ne hanno anche diversi, che alternano durante la stagione e la fasi della partita –, ma è il risultato a rimanere sempre quello, per tutti. Il solo dogma, primo e unico comandamento del pallone, malgrado le crociate monoteiste di chi vorebbe imporre un solo modo per raggiungerlo: quello della vittoria.
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